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La scrittura, la sofferenza, la morte

No, non vi preoccupate, il post è molto più allegro del titolo :P . Però mi andava di parlare di una vexata quaestio che è tornata in auge con – sì, ci sto tornando su, lo ammetto – Masterpiece: l’artista e la sofferenza.
Questa storia dell’artista che soffre me la sento ripetere da quando ero bambina, assieme a “chi è più sensibile soffre di più”. Come tutti i bambini, ci ho creduto moltissimo, e l’ho fatto fino a pochi anni fa, quando ho capito che “sono sensibile, per questo sto male” era diventato un alibi per sentirmi meglio degli altri e crogiolarmi in tutte le mie insicurezze senza far niente per risolverle, superarle o almeno metterle nella giusta prospettiva. Questo per inquadrare il discorso in una cornice più personale.
Credo che presso la nostra società ci sia un equivoco di fondo: quest’idea che l’artista sia un essere superiore agli altri. Siccome anni di romanticismo ci hanno insegnato che chi soffre è nobilitato, l’artista, nella percezione comune, ha da soffri’. La prima puntata di Masterpiece lo dimostra chiaramente: tra concorrenti che cercano di aderire il più possibile allo stereotipo, e giudici che cercano di cucirglielo addosso, è tutta un’esaltazione dello spirito tormentato dell’artista, fragile e disperato, che s’ammazza di cirrosi epatica prima dei quaranta, che dopo fa brutto.
Solo che io non credo sia così. Esistono sicuramente fior di studi che individuano collegamenti tra la malattia mentale e la genialità, ma si parla appunto non di spleen, ma di malattia. Perdonatemi se stento a credere che la morte per suicidio di chi soffre di depressione bipolare sia rubricabile sotto “sofferenza esistenziale”: è come morire di cancro, il tremendo esito di una malattia che ha tra i sintomi i pensieri suicidiari. Comunque, come in tutte le cose che coinvolgono la mente, non c’è un rapporto uno a uno tra malattia mentale e tendenze artistiche: non è che tutti gli artisti sono matti e viceversa.
Inoltre, la sofferenza è semplicemente un’esperienza umana, che intride in modo più o meno profondo le vite di tutti. La differenza tra l’artista e chi fa un altro lavoro sta semplicemente nella capacità del primo di esprimere questa sofferenza in forme che la rendano intellegibile, condivisibile dal pubblico. Tutto qua. È come saper cantare, saper cucinare da dio, essere bravo ad aggiustare cose. Un talento non dissimile da altri, e che per altro si sposa a volte – come è normale che sia – a personalità magari non limpidissime, a un carattere francamente di merda, magari. Da cui l’importanza di separare l’arte dalla vita dell’artista. Esempio classico, Céline che era antisemita, la Riefenstahl e il ruolo che ha giocato nell’affermazione del nazismo.
Poi, considerando che io mi ritengo sostanzialmente un artigiano della parola, forse non sono la più titolata a parlare di arte e sofferenza. A me piace raccontare storie, e lo faccio da ben prima che avessi chiaro cos’è la sofferenza spirituale. Però, secondo me, dire che l’arte nasce sempre dalla sofferenza è una generalizzazione che, al solito, riduce la molteplicità della realtà ad una serie di modelli che ci aiutano a non aver troppa paura della complessità. Sennò, se ti accorgi di avere un minimo di talento, vedi di infilarti in situazioni di grande sofferenza e sarai il prossimo Baudelaire.
Quel che credo serva per scrivere è forse uno sguardo più acuto, curioso, direi, sulla realtà, sulla vita e sulle persone. E serve saper vivere con intensità, nel bene e nel male, e quindi boh, forse i periodi down per uno scrittore sono più down del normale, ma anche i periodi up sono più up. Io personalmente, dopo anni di piagnistei, ho realizzato di essere una persona perfettamente nella media: un po’ ansiosa, con una tendenza vaga allo sbalzo d’umore che però con gli anni ho imparato a controllare, e la vita più splendidamente normale del mondo. E, vi voglio rassicurare: non dovete soffrire come cani per fare i narratori come me :P .

P.S.
Due aggiornamenti sui miei spostamenti: a parte la mia partecipazione al Salon du Livre e de la Presse Jeuness di questo fine settimana, di cui vi renderò conto meglio domani, ci sono due nuovi appuntamenti a Roma.

Giovedì 5 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Piazza Cola di Rienzo
ore 17.30
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Sabato 7 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Centro Commerciale Roma Est
ore 17.00
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Dai, che ne abbiamo di occasioni per vederci ;)

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Una recensione riluttante (più o meno)

Qualche giorno fa mi lamentavo della caterva di pareri polarizzati su Masterpiece, il nuovo talent di Rai3. È che lunedì mattina non si leggeva altro, e tipicamente se ne leggeva male, con quella spocchia un po’ tipica della rete che su qualsiasi argomento si deve spaccare esattamente a metà: o si ama o si odia, nessuna via di mezzo.
Poi che è successo? È successo che mi sono vista il programma. E adesso, ve lo devo dire, sono veramente in imbarazzo. Perché, ecco, come dire…tocca parlarne male anche a me :P . Sarà il karma, sarà che ho parlato troppo presto, sarà che è come se facessero un talent sulla fisica (ahahahahahahahahah! No, mi ricompong….ahahahahahahahahahah! Scusate, ora smetto…), che non ne vuoi parlare? Vabbeh. Parliamone, via.
Allora, il programma, per quel nulla che ne so di linguaggio televisivo, è fatto bene. Che belle le riprese aeree di Torino, che belli regia e montaggio, mi piace un po’ meno la voce fuoricampo, ma è una mia idiosincrasia, ma…ma. Ma c’è qualcosa di programmaticamente sbagliato nei contenuti. Nel modo in cui la scrittura viene presentata.
La parola più usata dai concorrenti è “riscatto”. Ciascuno di loro – dei finalisti, intendo, perché gli altri vengono liquidati con sufficienza in meno di un minuto, senza che si capisca chi sono e, soprattutto, cosa hanno scritto – scrive per riscuotere un debito che ritiene di possedere dalla vita. Sono in cerca della loro grande occasione, del big dream, e sto usando tutte parole pronunciate in trasmissione. Ora, capisco che questa è la narrazione preferita dai talent: la corsa al successo, il riscatto, gliela faccio vedere io. Ma era così necessario applicarla pure alla scrittura?
Ormai non c’è più nessuno che balla per il piacere di ballare, che canta per il piacere di cantare: tutti devono “arrivare”. L’obiettivo è il successo, e l’ambito artistico in cui lo si persegue è sostanzialmente intercambiabile: puoi cantare, ballare, adesso anche scrivere. Ma, al centro, non c’è mai l’espressione artistica, persino artigianale, se, giustamente, non vogliamo usare paroloni: c’è sempre e solo il successo.
Questo, secondo me, è sbagliato.
È sbagliato perché – che romantica che sono – resto convinta che scrivere sia sostanzialmente raccontare storie, e pubblicare cercare di arrivare al pubblico maggiore possibile, in modo da poter dire quel che si vuol dire. Non voglio affermare che il successo non conti e non gratifichi, ma non è la molla prima, o non dovrebbe esserlo. E non voglio neppure fare un discorso etico, che anche questi probabilmente sono paroloni: è che se scrivi per farcela, per dimostrare qualcosa a qualcuno, nove volte su dieci finisce che scrivi qualcosa di cui non frega nulla a nessuno, perché troppo autoriferito, o, al contrario, troppo prono alle mode.
Lì fuori è già pieno di gente che cerca applausi, e lo fa tramite la scrittura, perché nell’interpretazione comune tutti sanno scrivere, te lo insegnano a scuola: era proprio necessario farci un talent sopra?
Per la prima ora del programma, la scrittura è un’appendice accessoria del discorso: della maggior parte dei concorrenti è impossibile capire cosa abbiano scritto. Non basta far loro leggere dieci righe, non capisci niente da dieci righe, a meno che tu non sia editor di professione. Ci si sbrodola invece tantissimo sull’esperienza di vita dei candidati: è più il tempo trascorso a discettare della galera di uno dei concorrenti che di cosa parli il suo noir, di cui non ricordo neppure il titolo, per dire, e del quale la trama non è mai stata presentata. L’idea che passa è che se non hai sofferto, se non hai avuto una vita borderline, non puoi scrivere. Uno dei concorrenti lo dice proprio: io soffro. A guardare le biografie di tanti scrittori che ci hanno lasciato pagine indimenticabili non mi pare sia una cosa così decisiva, ma sarà un limite mio. Di sicuro, lo stereotipo dello scrittore maudit, disperato a fieramente in contemplazione del suo ombelico, aveva rotto già nell’ottocento, quando poteva ancora avere un senso. Non è sempre così. La sofferenza, per altro, è esperienza inscindibile dalla vita, quindi non vedo la necessità di questa hit parade della sfiga. Per altro trovo quanto meno offensivo che sembri che la concorrente guarita dall’anoressia sia stata fatta passare solo perché, appunto, il suo libro parla della sua malattia. Ci sono miriadi di storie che val la pena di raccontare, anche quando non nascono da esperienze di vita estreme: pensiamo al racconto di un uomo comune tipo La Coscienza di Zeno. Non val la pena? Ma meglio quello di tantissime autobiografie recenti! Ma di grandissima lunga!
Vabbeh. Diciamo che poi si arriva alla parte in cui si scrive. I concorrenti vengono portati a fare “esperienza di vita” (aridaje…) in una comunità tirata su da un prete e in una balera. Dovranno poi scrivere rispettivamente la lettera di un ospite e il racconto dei loro genitori che ballano.
In teoria, la scrittura dovrebbe farla da protagonista, ora. Peccato che, al solito, la lettura di trenta righe così, fatta per di più da chi non sa – giustamente – leggere, perché non è il suo mestiere, non renda per niente. Per esempio, io non avevo colto neppure una delle sgrammaticature di uno dei concorrenti, mentre, sulla pagina scritta, mi sarebbero immediatamente saltate all’occhio. Non mi pronuncio sulla qualità degli scritti, lo fanno i giudici; non si capisce però perché siano stati accettati nella fase finale autori che poi producono testi ritenuti dai giurati stessi così scarsi. Mi dilungo invece sul profluvio di banalità con cui alcune delle esperienze sono state descritte da chi le ha vissute: se non hai niente da dire, perché una cosa non ti tocca, forse è meglio tacere, piuttosto che dire quel che dicono al riguardo i contenitori del pomeriggio di un canale5 o una rai1. Da questo punto di vista, meglio il commento del coach alla vista dei ballerini nella balera: “Forse sono così contenti perché si avvicina la morte”.
Dopo questo exploit, la scrittura torna nello scantinato: la prova successiva è cercare di convincere in un minuto una editor Bompiani che il proprio libro è il migliore. E, di nuovo, protagonista è lo scrittore col suo vissuto e la sua “presenza scenica”.
Vabbeh, comunque, scelta del vincitore, sipario, fine. Dopo un’ora e venti. Che sono decisamente troppe. Io più di una volta ho iniziato a fare altro. Questa è probabilmente l’unica pecca “tecnica” che attribuisco al programma. Il resto, ripeto, è una questione di opportunità, di mostrare il mestiere della scrittura con un minimo di verosimiglianza, e magari anche con un po’ di rispetto.
Serve tutto ciò alla lettura, alla scrittura? Aiuta ad avvicinare il pubblico alla cultura? Secondo me, banalmente, no. Reitera una serie di stereotipi abbastanza radicati presso il pubblico (lo scrittore maledetto, tutti possono farcela, la scrittura come qualcosa che ti nobilita) ma non spiega cos’è uno scrittore (che poi vallo a sape’, ce ne sono di tanti tipi diversi…) né insegna a qualcuno a scrivere, se questo è un mestiere che si può insegnare da zero. Non so, credo che ci possano essere altri modi, più rispettosi, se vogliamo, di raccontare la scrittura e gli scrittori, pur non essendo seriosi, perché la scrittura è anche un mestiere, e gli scrittori persone normali. Io invece ho trovato in Masterpiece un’ovvia spettacolarizzazione, nel senso però deteriore del termine, e anche una certa spocchia nel modo di rapportarsi a molti concorrenti.
Non lo so, a me torna in mente, per dire, l’esperimento di Xwriting che feci in quel di Pietrasanta, con due squadre di ragazzi che si scontravano scrivendo brevi brani a tema: declinare una storia in rosa, fantasy e noir, ad esempio. Era un modo divertente e carino di parlare di scrittura, persino di tecnica, senza tirare fuori per forza le esperienze esistenziali degli scrittori (per poi lamentarsi che sono troppo ombelicali, per altro…).
Resta il fatto che secondo me la scrittura non è televisiva. Quando cucini, dipingi, balli o canti c’è un effetto immediato, che tutti possono osservare, anche quando si prepara l’esibizione. Quando scrivi no. Il 99% del tempo sei tu, la pagina bianca e il silenzio (o la musica, per chi la preferisce). Una cosa di una noia mortale da mostrare. E anche il godimento dell’opera avviene in solitudine, in un rapporto uno ad uno: tu, il libro, e il silenzio (o la musica per chi la preferisce). Cosa c’è di televisivo in tutto ciò? Una gara di scrittura, invece, può magari funzionare meglio; non per un’ora e venti, ma per una mezz’ora, magari…
Insomma, io sono rimasta delusa. Non vorrei usare parole forti, ma non credo che una cosa del genere faccia bene all’editoria o alla scrittura. Non credo ce ne fosse bisogno, e faccia più male che bene.
E adesso datemi dell’ipocrita :P

P.S.
Per chi è riuscito ad arrivare fino in fondo a questo papiellone, vi ricordo che da domani parte la prima porzione del tour di Nashira3. Le tappe sono

Venerdì 22 Novembre 2013 – Napoli
Libreria Feltrinelli
Piazza dei Martiri
ore 18.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Sabato 23 Novembre 2013 – Bassano del Grappa (VI)
Librearia Palazzo Roberti
ore 17.30
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio.

Domenica 24 Novembre 2013 – Milano
Bookcity
Palazzo Morando
Via Sant’Andrea 6
ore 17.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Chi vuole/può venga a vedermi, che mi fa contenta :) .

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