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La vita, la morte, i figli

Vivere in comunità richiede un po’ di equilibrismo. Ci si confedera in comunità più o meno grandi perché si riconosce che ci sono compiti che si possono portare a termine solo assieme. Al contempo, però, pur vivendo con gli altri si desidera mantenere la propria identità: per il bene della collettività si rinuncia a certe libertà, ma una collettività che vuole essere giusta e democratica deve anche saper lasciare al singolo i suoi spazi, all’interno dei quali definire se stesso e la propria identità. Così è giusto rinunciare a parte dei propri guadagni per devolverlo alla comunità (leggi: pagare le tasse) ma al contempo non è giusto che sia lo stato a decidere quando e se una vita sia degna di essere vissuta, oppure quando una donna deve essere madre.
Ecco. Concentriamoci un attimo su quest’ultimo punto.
La maternità è una di quelle esperienze che non puoi capire a fondo fino a quando non ti ci trovi dentro. Ma chiedo a tutti quelli che madri non sono, non lo saranno mai, o non vogliono esserlo (esiste anche questo diritto, anche se ci piace molto dimenticarlo) di fare un piccolo sforzo di immaginazione. Diventare madre è qualcosa che rivoluziona completamente il modo in cui una donna si percepisce; sei la stessa, per certi versi, ma per certi altri non sarai mai più quella di prima. È un investimento enorme sul futuro, segna il confine tra un prima e un dopo, è una scelta radicale nella quale si mette in gioco tutto di sé. Perché madri lo si è per sempre, non è una scelta dalla quale puoi tornare indietro.
Ora, io penso ci siamo scelte che per la loro portata sulla persona debbano pertenere esclusivamente al singolo. Decidere come e se diventare madri è una di queste. Non si può decidere per decreto la maternità obbligatoria, perché diventare madri è prima di tutto una scelta di disponibilità. Credete sia poco decidere di mettere il proprio corpo a disposizione di un altro essere vivente? Perché questo è una gravidanza. Ve lo dico io: non lo è. E per questo ho sempre creduto che la legge sull’aborto fosse una legge giusta e necessaria.
Siamo, ovviamente, tutti contro l’aborto. Nessuna vorrebbe mai trovarsi di fronte ad una scelta del genere. Non importa se tu sia incinta tra un mese o da sette; quel qualcosa che è dentro di te per te è molto più di un grumo di cellule. Eppure, ci sono momenti in cui semplicemente non si può: si percepisce di non poter essere madri, e nessuno può questionare questa esigenza che nasce dal profondo. L’ho provato sulla mia pelle, il desiderio profondo e viscerale di esserlo, il desiderio insopprimibile di un figlio. E per questo credo che altrettanto profondo e innegabile possa essere il desiderio invece di non averlo, un bambino. E io penso che una società giusta debba rispettare questo desiderio. Senza contare che abolire la legge sull’aborto non significa abolire l’aborto, bensì relegarlo nell’ombra, ancor più nel dolore e nella disperazione. Senza una legge che lo legalizzi, che vi ponga limiti e ne stabilisca le modalità, l’aborto tornerebbe in mano alle mammane, con l’unico effetto di costringere la donne a soffrire più ancora di quanto non facciano ora quando prendono una decisione del genere. Perché molti questo vogliono: che l’aborto si faccia ma non si dica, e che le donne lo paghino con la vita.
Lo so, l’aborto è un brutto argomento, qualcosa di cui nessuno di noi vorrebbe parlare. Tutti preferiamo pensare che noi no, a noi non potrebbe mai capitare, noi non ci troveremmo mai a dover fare una scelta tanto radicale. Ma invece può capitare a tutti. E io, personalmente, in quel momento vorrei poter scegliere in autonomia, e decidere di diventare madre per una mia libera e consapevole scelta, non per decreto di legge.
Vi dico tutto questo per stimolarvi alla riflessione, perché domani la Corte Costituzionale è chiamata a decidere la legittimità della legge 194, per chiarire se violi “gli articoli 2, (diritti inviolabili dell’uomo), 32 I Comma (tutela della salute) e rappresenta una possibile lesione del diritto alla vita dell’embrione, in quanto uomo in fieri”.
Poi, possiamo discutere di tutto il resto: dell’educazione sessuale, che è di fatto impossibile in questo paese, dei consultori, e anche di quel diritto all’obiezione di coscienza dei ginecologi che ha di fatto svuotato ormai da dentro la 194. Ma parliamo, interroghiamoci, e non chiudiamoci necessariamente su posizioni ideologiche. Ricordo per altro che la 194 non “obbliga” ad abortire, così come una legge sul fine vita non obbligherebbe nessuno all’eutanasia: semplicemente stabilisce che ci sono cose più grandi delle leggi di uno stato, e che di fronte a cose del genere solo il singolo può stabilire quali siano, per lui i limiti della vita e della morte.

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Run you, fools!

Non accompagno Irene all’asilo da qualcosa come un mese. Prima la solita routine è stata sconvolta da alcune riunioni mattutine di mio marito, per cui dovevamo svegliarci tutti all’alba – relativamente all’alba, per me le 7.00 è l’alba – poi lei è stata male…E insomma, mi è andata a pallino la sincronizzazione à la Fantozzi che mi permetteva di riuscire, in un’ora, a: 1. svegliarmi, 2. fare colazione, 3. lavarmi, 4. vestirmi, 5. nutrire la prole, 6. uscire per andare all’asilo. Il risultato è che ieri ho fatto tardi. Erano le 8.45 e Irene ancora stava mangiando i biscotti, per cui l’ho presa di peso e l’ho portata a lavarsi. Lei ovviamente ha fatto una scena madre che levati sulla perdita dei “bibotti”; io le ho spiegato che glieli avrei dati dopo, ma mia figlia è decisamente per l’uovo oggi, e non si convinceva. Comunque. La lavo, la vesto, e dopo la vestizione del torero, come promesso, le do i due biscotti che c’erano sul seggiolone. Ci apprestiamo ad uscire.
Lei chiama l’ascensore tutta contenta, coi bibotti in mano. Entra, e succede la tragedia. Un pezzo di bibotto cade a terra. Io e Giuliano ci guardiamo per una frazione di secondo, e in quella frazione di secondo si svolge una muta conversazione.
“Cazzo…e mo’?”.
“E mo’ se lo vede sono guai”.
“Lo si butta, allora”.
“Lo si butta”.
tutto detto solo con lo sguardo. Fissiamo entrambi il biscotto.
«Lo butto giù per la tromba dell’ascensore» sentenzia Giuliano, ed esegue.
Purtroppo, però, la prole ha adocchiato il pezzetto di biscotto. Parte il ralenti: il piede di Giuliano spinge il biscotto verso l’abisso, il biscotto, con la sua consapevolezza biscottica, oppone una flebile resistenza, mia figlia, con gesto plastico, si estende braccio teso verso il biscotto. Non appena il biscotto varca la soglia dell’abisso, parte il “Nuooooooo!” disperato di mia figlia, e io ho un flash. Perché la scena è esattamente questa: biscotto…

e mia figlia

A quel punto, inesorabile, parte una mia risata incontrollata, mentre la figlia piange e il padre la consola guardandomi perplesso.
Non lo so, probabilmente noi scrittori fantasy abbiamo qualcosa di bacato nel cervello :P .

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Capelli bianchi e bianca neve

Ieri avrei voluto spendere qualche parola su Whitney Houston. Non ero esattamente una sua fan, ma a tredici anni ero innamorata – sì, proprio innamorata – di Kevin Costner, e conoscevo più o meno a memoria Guardia del Corpo, tipo il mio film preferito dell’epoca (adesso non riesco neppure a guardarlo per intero, come si cambia…). I Will Always Love You era una specie di inno, per me, mi ero anche fatta tradurre il testo dal babbo, perché io all’epoca studiavo solo francese. Comunque, i miei progetti di post si sono infranti sulla boccetta di integratore contro l’osteoporosi che mia figlia mi ha riportato, vuota, mentre stavo sorseggiando il caffè. Io e mia madre ce l’eravamo dimenticata per due minuti netti su un tavolo, e vuoi che Irene non la prendeva e si mangiava una pastiglia? No, ovviamente. Corsa in ospedale, flebo, tentativo fallito di somministrazione di carbone attivo – sembravamo tutti usciti da Mary Poppins, alla fine – sei ore in osservazione in pronto soccorso, e infine, alle 20.00, dimissione col responso che probabilmente no, Irene non si era mangiata la pastiglia, per fortuna sta bene, giusto tenetela in osservazione domani. Che sarebbe oggi. Quindi, nulla, io sono ancora un po’ stravolta, di parlare di Whitney Houston m’è passata la voglia, ma appena mi sono affacciata dalla finestra ho visto che c’è ancora un po’ di neve. Non tanta. Un po’. E allora, niente, vi lascio col mio ricordo di questi dieci, inediti giorni di vero inverno a Roma. So che al 90% sono foto orrende, ma tutto sommato esprimono quel sentimento di pura meraviglia che questa neve mi aveva gettato addosso, e mi andava di condividere con voi. Sperando che il prossimo inverno sia come questo.

Neve a Roma

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Disco Irene

Quest’inverno si sta rivelando particolarmente difficile da gestire, in casa nostra. Irene è al suo primo anno di asilo, il che significa che sta prendendo praticamente tutte le malattie che circolano in questo periodo. Considerando che, a quanto pare, un bimbo malato è una specie di infallibile arma batteriologica, tutte le malattie che prende lei poi le prendiamo anche noi, tipicamente in forma aggravata. Il risultato è che da ottobre circa è un unico carosello: o sta male Irene, o sta male Giuliano, o sto male io. Non mi riesce di ricordare neppure una settimana in cui stessimo tutti bene. Per dire, adesso sono tormentata da una tosse orrenda che mi toglie ogni notte almeno due ore di sonno.
Ora, da quando le malattie del sistema respiratorio sono diventate nostre inseparabili compagne, abbiamo un amico che non ci lascia mai: il vaporizzatore. Per chi non sia mai stata incinta e non abbia mai avuto a che fare con bambini piccoli, il vaporizzatore è una specie di bollitore del thé incredibilmente rumoroso che sputa fuori vapore. Serve ad umidificare l’aria, il che, per motivi medici che mi sfuggono, dovrebbe essere in grado di aiutarti a combattere le infezioni delle alte vie respiratorie. Io lo odio. Fa casino, emette questa orrenda luce verde e si scassa con una rapidità angosciante. Credo sia il calcare dell’acqua di Roma. Gli ottura i tubi e inizia a gemere, a cacciare fuori poco vapore, fino alla morte. Che in genere è salutata da me con sollievo, nella speranza che ce ne siamo finalmente liberati. Speranza vana, perché il pediatra ci ha esplicitamente detto che lo dobbiamo usare sempre.
L’ultimo ha iniziato a dare segni di cedimento un paio di mesi fa, ma solo questa settimana abbiamo deciso di mandarlo in pensione. Così, ieri Giuliano rientra a casa contento con una busta di una nota marca di roba per bambini. Apro il bustone e dentro c’è l’ultimo ritrovato della tecnica: piccolo, di un rassicurante azzurrino, c’è un vaporizzatore a freddo. Ne ho sognato nelle lunghe notti passate a sentire quello classico che borbottava nella stanza accanto. È un vaporizzatore che non fa bollire l’acqua, quindi non la scalda, ma produce vapore tramite gli ultrasuoni. Se l’acqua non bolle, l’aggeggio non fa rumore. Il che significa ritorno a quelle belle notti silenziose che tanto mi mancano. Ho guardato lo scatolotto già innamorata.
L’abbiamo provato subito, ma guarda quanto bel vapore, e senti com’è silenzioso, e che bella lucina azzurrina che fa il led!
Insomma, ci piaceva. Arriva l’ora della nanna. Prendo Irene, facciamo tutto il rito del mettersi a letto – lava i denti, stura il nasino, medicina per la tosse, goccine nel naso, di’ buona notte ai quadri – quindi accendo il vaporizzatore e spengo la luce, pronta a cantare le consuete canzoncine della buona notte. E d’improvviso mi viene da cantare Bad Romance al posto della solita London Bridge is Falling Down. Perché la dolce e rassicurante lucina azzurra del led, a luci spente, diventa una specie di faro da discoteca psichedelico. Le sbarre del lettino producono ombre fantastiche sui muri, per altro la luce è diretta esattamente sul cuscino di Irene. Metteteci poi il vapore che scivola sul pavimento. Sembrava di stare ad un concerto di Lady Gaga. Irene si fa prendere dall’atmosfera, mi guarda perplessa e poi comincia a sgambettare allegra.
Strenuamente ho seguito la mia politica “canzoncine della buonanotte” ignorando l’atmosfera discotecara, e, quando ho messo giù Irene, ho sacrificato Biancaneve: ho preso la bambola e l’ho piazzata esattamente davanti la lucina led. Effetto concerto annullato.
Per il resto, nottata tranquilla, è davvero un attrezzo silenzioso. Però, io mi domando, se deve finire nella stanza di un bambino, perché accludere il faro azzurrino?

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Tanti auguri, Irene!

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‘A pupimma misteriosa

Dicono che le madri capiscono sempre i loro figli quando lallano. Il che, in linea di massima, è vero, in effetti. Un buon 90% delle parole che dice mia figlia le capisco, mettendo insieme i pezzi di quel che le ho detto io, quel che fa all’asilo, e usando un sacco di inventiva per quel che resta. Solo che non sempre funziona. A volte, certi misteri restano insoluti.
Tipo una settimana fa, mentre le stavo pulendo il culetto sul fasciatoio, Irene mi guarda e mi fa: «’A pupimma!».
Io non ci faccio granché caso. La stragrande maggioranza delle sue frasi sono “dadada” senza un particolare senso. Per cui replico distratta: «’A pupimma, sì, patatina».
Solo che il giorno dopo la scena di ripete. Stavolta interrogativa.
«’A pupimma, sì?».
Io, dopo un istante di perplessità, cambio discorso: «Guarda questo culozzo tutto pulito!».
Solo che la storia si ripete tutte le mattine.
«’A pupimma?» e indica verso la finestra. O guarda il lampadario. Ed è evidente che vuole da me una risposta.
Per cui capitolo.
«Ma che è la pupimma, Irene?».
Mi guarda.
«’A pupimma».
Beh, in effetti è ineccepibile.
Attimo di vertigine. Mi sento finita ne “L’uomo che non capiva troppo”, memorabile sceneggiato radiofonico di Greg & Lillo. O forse mia figlia legge “‘Mlana”.
Scuoto la testa.
«Irene, mi indichi la pupimma?».
Dito che vaga verso sinistra. Dove si stende la distesa dei dieci metri quadri o giù di lì della sua stanza. Può essere qualsiasi cosa.
«Ok, Irene, con metodo. È nella tua stanza la pupimma?».
«’A pupimma!».
«Lo prendo per un sì. Ma sta solo nella tua stanza?».
«Tutto pupimma».
Oddio. L’invasione delle pupimme.
«Insomma, Irene, pupimma everywhere».
Questa non la capisce, e mi guarda perplessa.
Comunque. La preparo la porto all’asilo, tutto come sempre. Poi, incontro mia madre per fare un po’ di compere natalizie. E le racconto della pupimma misteriosa.
«È la volpina» mi fa senza fare una piega.
Io giro la testa in una scena à la Regan de L’Esorcista.
«Cioè?».
«Cioè hai visto che lei ha i calzini gommati».
«Sì».
«C’è una volpina disegnata sopra. Quando glieli metto, il pomeriggio, glielo dico sempre: “Guarda la volpina!”. La volpina. ‘A pupimma».
E io ho un flash. La mia cucina. Campo sempre più stretto sul frigorifero, poi su una delle calamite: “Una mamma sa molto, ma una nonna sa tutto”.
Mamma 0, nonna 1, palla al centro.

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Semplicemente mamma

Ho cominciato a capire cosa significa oggi per la società essere madre quando ho smesso di allattare. L’allattamento mi piaceva, e avrei voluto continuare fino al sesto mese di Irene, ma purtroppo lei non cresceva e io di latte ne avevo poco. Così sono passata al latte artificiale. Nonostante nessuno intorno a me, pediatra compreso, abbia mai fatto un commento sul mio smettere di allattare, mi sono sentita in colpa. Perché, mentre all’epoca di mia madre si preferiva di gran lunga il latte in polvere, oggi sembra che il latte artificiale sia il male. Iniziai a pensare che avrei esposto Irene alle malattie, che da grande sarebbe diventata obesa, e chissà quali altre tragedie. Perché essere madre (mai essere padre, e la cosa è significativa) al giorno d’oggi non ti viene presentato come una scelta di vita valida quanto un’altra, ma come una missione: la missione di allevare figli sani e perfetti, che un giorno salveranno il mondo.

È sempre colpa della madre. Se partorisci con l’epidurale, non ti attaccherai al bambino, perché il dolore serve a formare questo legame. Se non allatti a richiesta tuo figlio avrà problemi affettivi da grande. Se non lo mandi subito al nido ti starà attaccato alle gonne fino a diciotto anni. Anzi no, se la mandi la nido ti verrà su bisognoso di affetto.
Qualsiasi cosa la madre faccia, avrà ripercussioni drammatiche sul futuro del figlio: l’errore non viene più percepito come qualcosa di inevitabile, connesso al processo che forma l’immagine che una donna ha di sé come madre. No, è una tragedia. E per avvalorare la cosa, si sventolano studi di vario genere, ignorando che la maggior parte di essi si contraddicono l’un l’altro, o sono basati su campioni statisticamente insignificanti.
Ecco, alla fine è successo che ho smesso di stare a sentire le sirene dei libri, dei siti dedicati, delle riviste specializzate. Perché credo che un figlio possa avere qualche chance di venir su equilibrato solo se le persone che si occupano di lui stanno bene prima di tutto con se stesse. E una madre terrorizzata dall’idea di sbagliare non sta bene con se stessa.
Mi piacerebbe che questa storia della maternità venisse desacralizzata. Basta. Far la madre non è una missione, non è un lavoro che annulla qualsiasi cosa la donna sia stata prima del parto. Far la madre è prima di tutto uno dei mestieri più praticati al mondo. E siccome in giro non vedo torme di psicopatici, ma al più gente maleducata, direi che è un mestiere accessibile a tutti, e che gli errori, inevitabili, forse fanno più bene che male.
Dare la vita ad Irene è stata probabilmente la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia. Non pensavo sarebbe stato così bello. Ma Irene ha aggiunto molto alla mia vita, non ha annullato tutto quello che ero prima. Io sono ancora la moglie, la scrittrice, l’appassionata di fumetti, libri, telefilm e cinema, l’astrofisica, spesso anche la ragazzina. E ciascuna di queste figure è uscita modificata dall’incontro con Irene, ma continua ad esistere in me. E io non mi sento, non mi voglio sentire in missione per conto di dio. Io sto facendo quel che mia madre, che mia nonna, che migliaia di donne prime di me hanno fatto, con alterni successi, magari, ma quasi sempre riuscendo ad educare adulti pronti alla vita. E non sono sola. C’è mio marito, che pesa nella vita di mia figlia esattamente quanto peso io, che fa proprio quel che faccio io, la lava, le dà da mangiare, le cambia i pannolini, la ama. Non perché sono donna e l’ho portata in grembo nove mesi, penso di avere su di lei maggiori diritti di Giuliano, o credo che il nostro rapporto sia diverso o più profondo. Le differenze che c’erano tra me madre e lui padre sono finite quando ho dato l’ultima spinta, quel giorno freddissimo di quasi due anni fa.
Mi piacerebbe un mondo in cui la madre è sostenuta nelle sue scelte dalla società: un posto dove quella che partorisce appesa ad una corda cantando in sanscrito sia considerata madre esattamente quanto la donna che partorisce in ospedale con l’epidurale. Un mondo in cui si aiuti la donna a trovare la sua dimensione come madre, senza che le si imponga dall’esterno un modello preconfezionato cui sia tassativo adeguarsi. Sogno un mondo in cui una madre è esattamente identica ad una donna che non ha mai avuto figli. Ma mi rendo conto che la tolleranza non aiuta a vendere libri, e terrorizzare la gente è molto più utile al sistema che renderla libera.
Io, comunque, nel mio piccolo combatto la mia battaglia quotidiana, affidandomi ai consigli delle persone cui voglio bene e imparando insieme ad Irene questo nuovo mestiere.

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Il primo giorno

La giornata comincia male. Suona la sveglia alle 7.30, e io e Giuliano rinveniamo quei tre secondi bastevoli a dirci
“Mpf…fai la colazione tu…”
“no..tu…groan…”
per poi tornare tra le braccia di Morfeo. Quando rivengo, sono le 8.00. E alle 8.30 e io e Irene dobbiamo essere pronte per uscire.
Bevo latte freddo senza caffè, ingurgito due fette biscottate così, al volo, mentre Giuliano sveglia la pupa e la sfama.
Come Dio vuole, alle 8.25 siamo pronte. È un giorno importante, perché oggi Irene va all’asilo nido per la prima volta. Io l’ho un po’ pompata, partendo da mercoledì a dirle che andrà in un posto bellissimo con tanti bimbi.
Arriviamo, ed è una pipinara, come si dice da queste parti. Genitori, bimbi, alcuni urlanti. Irene tiene botta. S’è lamentata che la abbia tolto di mano il “cappeio”, il mio cappello nero, ma guarda tutto curiosa e non vuole più stare in braccio. Qualche foto, poi arriva una maestra che mi dice che posso entrare. Un bacetto al papà, e siamo dentro. Metto giù Irene e lei semplicemente si dimentica di me. Va dagli altri bambini, si fionda sui giocattoli, si fa coccolare a biscotti. Le maestre sono piacevolmente sorprese.
“Senta, ma…che ne dice di uscire? È tanto tranquilla…”.
Esco dal recinto dei bimbi e mi metto fuori dalla porta. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Vagolo per il giardino, navigo con l’iPhone, sto con le orecchie a punta a studiare le vocine che vengono da dentro, per distinguere la sua voce. Fuori, bambini che sorridono, bambini che piangono, bambini che invocano la mamma e il papà.
Passano i minuti e nessuno mi viene a chiamare. Ogni tanto sento la maestra che chiama Irene. La maestra a intervalli regolari esce e mi dice che sta andando alla grande.
Dopo un’oretta rientro. Lei è alle prese coi pentolini. Mi guarda dandomi approssimativamente per scontata: ah, qua sei? Resto qualche altro minuto, e mi beo a vederla che gioca. Poi la maestra mi dice che possiamo andare, e che domani staremo un po’ di più.
Irene tutta contenta fa ciao ciao a tutti i bimbi, e continua con le maestre, le altre mamme e qualsiasi altro essere vivente le si pari davanti. Io le stampo un bacione grandissimo sulla guancia. Esco con un sorriso a ventisei denti (me ne mancano cinque, lo sapete). Dio come sono orgogliosa…

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Sento di dovervi una spiegazione

Non sono ancora in ferie.
Non mi è venuto a noia il blog.
Non mi è passata la voglia di scrivere.
Il motivo della mia scarsa presenza su queste pagine è un altro. Nelle ultime due settimane ho fatto vita da casalinga. La donna delle pulizie è in ferie, i miei anche, e quindi con Irene e con la casa devo sbrigarmela da sola. Confesso che non mi era mai capitato prima. A causa delle duecento cose che faccio nella mia vita (dottorato, scrittura, avere una vita sociale, varie ed eventuali) ho sempre avuto qualcuno che mi ha aiutata. Quando non c’era Irene riuscivo a dedicarmi più o meno da sola alla casa. Adesso, semplicemente, non ce la faccio. E quindi, vi dicevo, il tempo da dedicare ad altre cose si è drasticamente ridotto.
Devo dire però che mi ci voleva, proprio perché, nel bene e nel male, non me la sono mai cavata davvero da sola. L’immagine che avevo di me, prima di queste due settimane, era quella di una persona incapace di fare tutto, proprio tutto da sola, e dipendente dall’aiuto degli altri. Io sono sempre stata così. Non riesco a valutare il mio lavoro se non specchiandomi negli altri, e sono convinta sempre di non farcela da sola. E invece.
E invece, tra alti e bassi, è andata. Irene è stata male, siamo anche finiti al Pronto Soccorso, ma siamo sopravvissuti. Lei è guarita, ok, mi sono ammalata io, ma ovviamente questo non è un problema. Non ho dato fuoco alla casa, non ho montagne di panni da lavare che mi salutano la mattina, Giuliano ha sempre quelle tre o quattro camice pronte stirate e la pulizia di casa è su livelli accettabili. In più, con Irene ci divertiamo tanto, e con niente, e questa è la cosa più bella di tutte. Riesco anche, più o meno, a lavorare. Col libro nuovo fila liscio, con la tesi le cose sono un pelo più farraginose, ma non potrebbero non esserlo, dato che in genere lo slot temporale che dedico alla cosa adesso è occupato da Irene. Ma va, dannazione, va. Tranne che, appunto, ho meno tempo per curare il blog. Ma, francamente, voi barattereste la possibilità di giocare a nascondino con un figlio con un po’ di tempo in più sul blog? Ecco, appunto.
Lunedì Irene inizierà ad andare all’asilo, e le cose cambieranno di nuovo, vedremo come. Nel frattempo, ho fatto un piccolissimo passo per l’umanità, ma un bel passetto verso la conquista di un’autostima un po’ più salda.

P.S.
Sono tornata su Flickr. Ora che faccio più foto mi sembrava un buon modo per cercare di incentivarmi a migliorare, magari anche a studiare un po’, se trovo il tempo per farlo. Il link al mio spazio è sulla colonna destra del blog, sotto la dicitura Flickr, ma, se volete farci un salto subito, vi basta cliccare qui.

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Patti

Interno mattina. C’è una bella luce ambrata che entra dalla finestra.
Irene si rotola nel lettino come tutte le mattine.
Io: “Allora, patatina, andiamo a fare colazione?”
Irene: “tadatamaiketotolalabe”
Io: “Sì, dai, andiamo a fare colazione, su”
Irene, a pancia in giù, facendo la vaga: “Bibotti?” (trad.: Biscotti?)
Io: “sì sì, biscotti e anche un po’ di yogurt”
Irene, tirandosi su di scatto e tendendo le mani per farsi prendere in braccio: “Okkey!”

La si corrompe ancora con poco…

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