Ricordo che da bambina avevo problemi con Il Venerdì di Repubblica. All’epoca era un settimanale piuttosto diverso da quel che è oggi, c’erano parecchi più reportage e, in un periodo in cui le immagini non ci bombardavano da ogni parte senza tregua, puntava molto sulle foto. E siccome anche all’epoca c’erano guerre insensate in ogni dove, era pieno di immagini di morte. Ricordo che i miei se ne lamentavano spesso. Oggi c’è un’attenzione decisamente maggiore, nei media generalisti, all’esposizione di cadaveri in foto, ma all’epoca non era così.
Il sangue e le viscere esposte, però, esercitano da sempre sulla gente un fascino oscuro, e, nel frattempo, l’immagine non è più monopolio di chi fa foto di mestiere o è giornalista: con internet e i social network l’immagine è diventata patrimonio comune, che chiunque può prendere, modificare, creare e condividere. Così, mentre sui media generalisti le immagini dei morti sono scomparsi, i social network ne sono pieni zeppi.
In questo periodo, per esempio, FB è impraticabile. Tantissimi utenti condividono foto di bambini morti, si suppone palestinesi, o almeno come tali vengono esibiti, ma vai a sapere a quando quelle foto risalgono, o dove sono state scattate. L’obiettivo di chi condivide l’immagine è “sensibilizzare” il suo pubblico, e, in ultima analisi, spingerlo a “tifare” per la sua squadra. Perché se c’è un’opinione che agli occhi di molti serve a definirti come persona, questa è quella sul conflitto israelo-palestinese. Un’opinione sfumata non è ammessa; non vale che tu dica che è una situazione complessa e incancrenita. Devi dire da che parte stai, di qua o di là, e spiattellare morti in prima pagina è un modo per segnare chiaramente una linea, e dire a che fazione si appartiene.
Ora, a me questa roba dava fastidio quando ero bambina, ma continua a darmi fastidio oggi, forse anche di più. Nel frattempo sono diventata madre, e davvero non riesco a non vedere mia figlia in ogni ragazzino morto che mi sbattete in bacheca. Ma il problema non è soltanto la mia sensibilità. Il problema è che tipo di effetto sortisce un’immagine del genere, se davvero serve, e a cosa.
Un like non ha mai salvato nessuno, e i social network sono in assoluto il posto più autoreferenziale di Internet. Quel che nasce sui social quasi sempre rimane sui social, e non sortisce effetti sulla realtà. Quindi, l’immagine del bambino massacrato rimane là dov’è, in eterno per altro, mentre la persona che l’ha guardata al massimo si sarà commossa, schifata o si sarà fatta prendere da emozioni meno nobili e più morbose. Non credo che il bombardamento di immagini shock sposti di una virgola, ad esempio, il voto, o spinga la gente in piazza a manifestare, o ad andare a fare lo scudo umano in Palestina.
L’effetto di queste immagini è uno e uno solo: mostrare da che parte si sta. Sono uno “informato” perché so che in Palestina muoiono i bambini, e ve lo faccio vedere. Ricattatoriamente, cerco anche di portarvi nella mia fazione; voglio dire, chi può mettersi a discutere davanti all’immagine di un bambino morto? È umanamente impossibile. Se apro una conversazione con un’immagine shock, non voglio discutere, non posso farlo.
Quindi, se postate le foto per “sensibilizzare”, non serve a niente. Anzi, è ben noto che l’esposizione a immagini scioccanti desensibilizza, piuttosto. A furia di vedere morti ovunque mi abituerò ad essi, e la reazione non sarà più che un’alzata di sopracciglio. A meno che non si alzi l’asticella del buon gusto, mostrando roba sempre più gore, che è poi quel che la gente vuole. Ma questa è direttamente pornografia della morte.
Infine: ma è morale postare immagini del genere? Io non credo, e per un fatto semplicissimo: io mai vorrei che una foto del genere di un mio congiunto venisse condivisa col mondo. Non potrei tollerare che la persona che ho amato venga ricordata in eterno come un cranio spaccato, un’arto amputato, una testa tagliata. Sarebbe una violenza senza pari per me e anche per la persona morta. Ma qualcuno l’ha chiesto a quei genitori se volevano che la foto dei figli morti andasse sulle bacheche di mezzo mondo, sopra il “video che ha commosso il web” e sotto la foto di un gattino? Qui in occidente le foto dei bambini devono sempre essere oscurate, e solo i genitori possono autorizzarne la diffusione. Coi morti del medio oriente tutti questi scrupoli non ce li facciamo. È testimonianza.
Ora, per carità, c’è un filone intero di giornalismo che basa il proprio effetto testimoniale sull’esibizione dell’immagine, e non starò a questionarne la liceità, anche se, personalmente, gradirei che la morte venisse sempre rispettata (anche la famosa foto dei due abbracciati sotto il crollo della fabbrica indiana a me ha dato fastidio, per dire). Il problema è che è anche una questione di contesto. Una cosa è un giornale, un reportage che unisce parole e immagini, un’altra è una bacheca FB, in cui tutto si mescola a tutto, in cui dividere la cazzata dalla cosa seria è impossibile. FB non è il posto giusto, punto.
A volte mostrare ha un senso ed è necessario, ma l’esibizione di corpi così, un tanto al chilo, fuori contesto, e nell’ambito di un tifo da stadio per una cosa tragica non serve a niente. Tanto più che ci sono altri modi, secondo me, ti sensibilizzare le persone. Ve ne indico uno che mi ha molto colpita ieri.
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Niente sangue, niente dignità dei morti calpestata; solo una domanda e una richiesta di empatia, che è l’unica cosa che va di noi davvero esseri umani.