Archivi tag: polemiche

Reductio ad litteraturam

Non ho voglia di entrare nel polemicone sul Nobel a Dylan, perché è stato già detto tutto e si è comunque passati alla fase del tifo da stadio e dell’insulto, per cui no, grazie. Però, dopo aver come al solito fatto il test apposito di Zerocalcare :P , credo di voler fare una riflessione collaterale che ancora non ho letto in giro.
Da un bel po’ di tempo il termine letteratura ha smesso di indicare uno specifico modo di esprimere la propria creatività, ed è diventano un termine di valore. Letteratura è buono, è arte, è bello. Non esiste la cattiva Letteratura; se è Letteratura, è fatto per restare nelle menti e nei cuori per sempre. Non si tratta di raccontare una storia, e farlo tramite le lettere: no, se è Letteratura è immortale a prescindere. Ne consegue che se voglio esaltare il valore di qualcosa, gli devo dare un attestato letterario. Pensateci. Per poter finalmente dire che fumetto è bello, riesce a colpire profondamente il lettore, a farlo riflettere sull’esistenza, a restare con lui per tutto il resto della sua vita, l’abbiamo dovuto candidare al Premio Strega, che è un premio letterario. Per affermare, altrettanto giustamente, che ci sono musicisti che hanno fatto la storia, che i loro testi sono profondi e straordinari, abbiamo dovuto dare a uno di loro il Nobel per la Letteratura. È che non sono “solo fumetti”, non sono “solo canzoni”: sono Letteratura.
Capite l’implicazione di questo discorso? Che di bello e artistico al mondo evidentemente c’è solo la Letteratura. Tutto il resto è un po’ figlio di un dio minore, e ce lo possiamo scordare: tipo la musica per Dylan, o l’aspetto grafico, il tratto e la costruzione della vignetta per Zerocalcare.
Ecco, io mi domano se non sia un filo presuntuoso tutto ciò da parte dei letterati, e se non sia pure controproducente: per la letteratura, ammantata di un’aura mitica che inevitabilmente la porterà lontana dagli occhi e dai cuori del pubblico (e moltissimi dei Nobel per la Letteratura degli ultimi anni sono stati assegnati a scrittori decisamente non famosi, a volte abbastanza oscuri per i più), ma anche per il fumetto, la canzone e tutto il resto. Voglio dire, è giusto prendere una forma d’arte che ha nel suo DNA l’essere anche espressione della cultura popolare e metterci intorno una patina “intellettuale”?
Qualche tempo fa, in un’intervista che trovate in una delle riedizioni più recente de Le Rose di Versailles (il manga di Lady Oscar, per intenderci), all’autrice Ryoko Ikeda fu chiesto cosa ne pensasse del fatto che i manga sono diventati oggetto di studio all’università, e lei rispose così:

“È un’iniziativa che non mi trova molto d’accordo. La forza del manga è anche quella di essere una forma di cultura popolare, e quando si inizia a studiarla e ad analizzarla si rischia di farle perdere questa schiettezza. Quando un famoso museo richiese alcune delle mie tavole per esporle mi rifiutai, perché non ritengo che i manga siano opere da museo: per esempio anche il kabuki, quando cominciò a essere considerato un’arte invece che una forma d’intrattenimento popolare, finì per perdere il suo fascino e solo in tempi recenti ci si è resi conto di questo imperdonabile errore. Non voglio che i manga facciano la stessa fine.”

Uno può essere d’accordo o meno, ma secondo me vale la pena porsi la domanda.

4 Tags: , ,

Carne

Ricordo che da bambina avevo problemi con Il Venerdì di Repubblica. All’epoca era un settimanale piuttosto diverso da quel che è oggi, c’erano parecchi più reportage e, in un periodo in cui le immagini non ci bombardavano da ogni parte senza tregua, puntava molto sulle foto. E siccome anche all’epoca c’erano guerre insensate in ogni dove, era pieno di immagini di morte. Ricordo che i miei se ne lamentavano spesso. Oggi c’è un’attenzione decisamente maggiore, nei media generalisti, all’esposizione di cadaveri in foto, ma all’epoca non era così.
Il sangue e le viscere esposte, però, esercitano da sempre sulla gente un fascino oscuro, e, nel frattempo, l’immagine non è più monopolio di chi fa foto di mestiere o è giornalista: con internet e i social network l’immagine è diventata patrimonio comune, che chiunque può prendere, modificare, creare e condividere. Così, mentre sui media generalisti le immagini dei morti sono scomparsi, i social network ne sono pieni zeppi.
In questo periodo, per esempio, FB è impraticabile. Tantissimi utenti condividono foto di bambini morti, si suppone palestinesi, o almeno come tali vengono esibiti, ma vai a sapere a quando quelle foto risalgono, o dove sono state scattate. L’obiettivo di chi condivide l’immagine è “sensibilizzare” il suo pubblico, e, in ultima analisi, spingerlo a “tifare” per la sua squadra. Perché se c’è un’opinione che agli occhi di molti serve a definirti come persona, questa è quella sul conflitto israelo-palestinese. Un’opinione sfumata non è ammessa; non vale che tu dica che è una situazione complessa e incancrenita. Devi dire da che parte stai, di qua o di là, e spiattellare morti in prima pagina è un modo per segnare chiaramente una linea, e dire a che fazione si appartiene.
Ora, a me questa roba dava fastidio quando ero bambina, ma continua a darmi fastidio oggi, forse anche di più. Nel frattempo sono diventata madre, e davvero non riesco a non vedere mia figlia in ogni ragazzino morto che mi sbattete in bacheca. Ma il problema non è soltanto la mia sensibilità. Il problema è che tipo di effetto sortisce un’immagine del genere, se davvero serve, e a cosa.
Un like non ha mai salvato nessuno, e i social network sono in assoluto il posto più autoreferenziale di Internet. Quel che nasce sui social quasi sempre rimane sui social, e non sortisce effetti sulla realtà. Quindi, l’immagine del bambino massacrato rimane là dov’è, in eterno per altro, mentre la persona che l’ha guardata al massimo si sarà commossa, schifata o si sarà fatta prendere da emozioni meno nobili e più morbose. Non credo che il bombardamento di immagini shock sposti di una virgola, ad esempio, il voto, o spinga la gente in piazza a manifestare, o ad andare a fare lo scudo umano in Palestina.
L’effetto di queste immagini è uno e uno solo: mostrare da che parte si sta. Sono uno “informato” perché so che in Palestina muoiono i bambini, e ve lo faccio vedere. Ricattatoriamente, cerco anche di portarvi nella mia fazione; voglio dire, chi può mettersi a discutere davanti all’immagine di un bambino morto? È umanamente impossibile. Se apro una conversazione con un’immagine shock, non voglio discutere, non posso farlo.
Quindi, se postate le foto per “sensibilizzare”, non serve a niente. Anzi, è ben noto che l’esposizione a immagini scioccanti desensibilizza, piuttosto. A furia di vedere morti ovunque mi abituerò ad essi, e la reazione non sarà più che un’alzata di sopracciglio. A meno che non si alzi l’asticella del buon gusto, mostrando roba sempre più gore, che è poi quel che la gente vuole. Ma questa è direttamente pornografia della morte.
Infine: ma è morale postare immagini del genere? Io non credo, e per un fatto semplicissimo: io mai vorrei che una foto del genere di un mio congiunto venisse condivisa col mondo. Non potrei tollerare che la persona che ho amato venga ricordata in eterno come un cranio spaccato, un’arto amputato, una testa tagliata. Sarebbe una violenza senza pari per me e anche per la persona morta. Ma qualcuno l’ha chiesto a quei genitori se volevano che la foto dei figli morti andasse sulle bacheche di mezzo mondo, sopra il “video che ha commosso il web” e sotto la foto di un gattino? Qui in occidente le foto dei bambini devono sempre essere oscurate, e solo i genitori possono autorizzarne la diffusione. Coi morti del medio oriente tutti questi scrupoli non ce li facciamo. È testimonianza.
Ora, per carità, c’è un filone intero di giornalismo che basa il proprio effetto testimoniale sull’esibizione dell’immagine, e non starò a questionarne la liceità, anche se, personalmente, gradirei che la morte venisse sempre rispettata (anche la famosa foto dei due abbracciati sotto il crollo della fabbrica indiana a me ha dato fastidio, per dire). Il problema è che è anche una questione di contesto. Una cosa è un giornale, un reportage che unisce parole e immagini, un’altra è una bacheca FB, in cui tutto si mescola a tutto, in cui dividere la cazzata dalla cosa seria è impossibile. FB non è il posto giusto, punto.
A volte mostrare ha un senso ed è necessario, ma l’esibizione di corpi così, un tanto al chilo, fuori contesto, e nell’ambito di un tifo da stadio per una cosa tragica non serve a niente. Tanto più che ci sono altri modi, secondo me, ti sensibilizzare le persone. Ve ne indico uno che mi ha molto colpita ieri.

http://frontierenews.it/wp-content/uploads/2012/02/vauro.jpg

Niente sangue, niente dignità dei morti calpestata; solo una domanda e una richiesta di empatia, che è l’unica cosa che va di noi davvero esseri umani.

7 Tags:

Aridaje

Saprete che in questo periodo c’è una lodevole iniziativa in atto: il Maggio dei Libri. Si tratta di un’iniziativa di promozione della lettura. Qui trovate il sito con tutte le informazioni sulla varie iniziative. Ripeto, è una cosa bella, lodevole, e soprattutto necessaria, considerando quanta poca gente legge in Italia. E francamente mi spiace doverle muovere una critica, perché la situazione è così disastrosa che spararsi addosso tra di noi che di lettura viviamo non è esattamente la cosa migliore, ma tant’è.
Oggi ero in macchina, e alla radio ho sentito lo spot che pubblicizza l’evento. L’ho cercato per farvelo sentire, ma ho trovato solo la versione maschile, mentre quella in cui mi sono imbattuta io è quella femminile. Comunque, ve lo racconto: ci sono due ragazze che parlano. La prima si lamenta di aver avuto una brutta giornata, e per motivare la cosa cita una serie di incovenienti futili, tra cui la rottura di un tacco. L’altra racconta invece di aver vissuto straordinarie avventure, perché ha letto un libro. Frase finale: leggere fa crescere.
Qual è il problema? È duplice. Innanzitutto, tutti gli spot che ho sentito finora vertevano tutti su un’unico concetto: leggere, appunto, fa crescere. Ricordate lo spot del bambino che va in libreria e inizia a giocare con un libro come fosse un pallone da basket? Fa parte della stessa campagna, e si conclude più o meno allo stesso modo: leggi che cresci. Oppure, leggi che ti informi, leggi che ti arricchisci. Manca l’unica cosa che secondo me potrebbe attirare la gente che non legge: leggi che ti diverti. L’aspetto ludico della lettura non viene quasi mai messo in luce, né in queste campagne né, a parte lodevoli eccezioni, a scuola. Leggere è sempre una roba importante, senza la quale sei meno completo, meno uomo, verrebbe da dire, come se leggere fosse una pillola amara che devi mandar giù per essere in salute. Ma leggere è soprattutto bello, divertente, appassionante. Non si legge mica solo per imparare e per arricchirsi. Io leggo prima di tutto per divertirmi, per appassionarmi, commuovermi, spaventarmi con una storia. Invece no: a noi piace il cilicio e la gogna, se ti diverti non è cultura, è – ovvove! – intrattenimento.
Ora, lo spot radiofonico di sguincio coglie l’aspetto ludico: la tipa che legge dice di aver vissuto straordinarie avventure. Però poi la voce off ti spiega che non è quello l’importante: l’importante è che poi cresci, con buona pace di Peter Pan. L’altro poblema è la consueta contrapposizione oca donna colta. Di che può parlare quella che non legge? Ma di trucchi e scarpe, ovvio, gli argomenti frivoli per eccellenza. E io, che amo le scarpe col tacco e leggo in media 45 libri l’anno? Dove mi colloco? Oca o donna colta? Il tacco 12 mi rende meno colta? Devo abbandonarlo?
Ora, io lo so che essere sintetici, come uno spot richiede, e non cadere nello stereotipo è difficile, ma io sono un po’ stanca di tutte queste categorizzazioni, per cui se vesti in un certo modo sei scema e puttana, in un altro colta e impegnata, ma di contro sciatta e “inchiavabile”, come direbbero i nostri politici. Perché ci viene sempre chiesto di essere in un modo e non in un altro, invece che accettarci per quel che siamo, con tutte le contraddizioni che la natura umana implica? Mi piace truccarmi ma mi farei volentieri una partita di gioco di ruolo dal vivo con la spade di lattice: è un problema? Quando posso salgo anche sul tacco 14, ma ho un dottorato in astronomia: c’è qualcosa di sbagliato?
Vabbeh, magari sono io che mi attacco alle piccolezze. Spero quanto meno che questo papiellone un po’ acido vi abbia incuriosito verso l’iniziativa che, al di là della promozione che a me non è piaciuta, merita parecchio. Aprofittatene, comprate un libro, andate ad ascoltare un autore, divertitevi, soprattutto, coi tacchi o rasoterra, truccate o acqua e sapone, che il divertimento non ha etichette.

6 Tags: , ,

Disintossicarsi

Quando, nel 2000, entrai nel mondo della rete mi sembrava tutto meraviglioso. Fino a quel momento avevo ammorbato solo parenti e amici con le mie analisi prolisse di film e libri. All’improvviso potevo metterle per iscritto – cosa che mi dava una soddisfazione n volte maggiore – e discuterle con gente flashata almeno quanto me, se non di più. Ricordo i lunghi post scritti offline sul forum dei Cavalieri dello Zodiaco, l’ora online che mi concedevo col 56K, per evitare di spendere troppo, il primo “radical chic” che mi beccai sul forum di Repubblica, nel 2001, perché ero contraria all’intervento in Afghanistan.
Se guardo il rapporto che ho oggi con la rete, mi domando come può essere andata a finire così. La rete, nella mia vita, ha sostituito la tv. Non che la guardassi così tanto, ma l’ho spesso usata per svuotarmi la testa, riposarmi quando ero troppo stanca. Ho smesso di farlo quando ha iniziato a farmi incazzare per la pochezza devastante dei programmi che seguivo, e poi era appunto arrivato il nuovo giocattolino, quel web che prometteva meraviglie. Adesso, uso Internet sostazialmente per abitudine, e perché è l’unica cosa che mi vuoti davvero la testa. Stop. Non riesco più a ricordare quand’è stata l’ultima volta che ho fatto un uso proficuo della rete. Sì, qualche articolo interessante prontamente linkato su Facebook o Twitter, ma poi? Per il resto vuote discussioni infinite, in cui ognuno tiene il suo punto fino alla morte, senza che una volta, una sola, abbia visto qualcuno cambiare idea, o l’abbia fatto io. Oppure bufale a tonnellate, “condividi se hai un cuore”, così tante e in giro da così tanto tempo che occorrerebbero quattro vite per confutarle tutte. E poi sempre le stesse dinamiche ripetute all’infinito, prima gli applausi, poi gli sputi, le conventicole, il cinismo…ma pure basta.
Adesso, lo so, parte l’ovvia contestazione: che senso ha dire tutte queste cose su un blog, prodotto, se pure un po’ obsoleto, del web 2.0? È il solito snobismo da sinistra sempre perdente, che sputa nel piatto in cui mangia.
Lo confesso: sono dipendente. Non riesco più a immaginare la mia giornata senza la mia dose quotidiana di rete. Anche se ormai è più il tempo che passo ad incazzarmi e ad avvolgermi in discussioni inutili – e soprattutto ripetute all’infinito in tutte le salse – che a divertirmi. Come uno che fuma 40 sigarette al giorno, e non se ne gode più neppure una.
Probabilmente è colpa mia. Del carattere egocentrico di scrittrice, convinta che se si ha un’opinione la si debba condividere, o forse del lato di Internet sul quale mi sono concentrata con gli anni, quello dei forum prima, dei blog in mezzo, e dei social network poi. Ma inizio a credere di dover ripensare completamente il mio rapporto con la rete. Che così non funziona più, che così non mi diverto più e non mi è più neppure utile. Vorrei ritrovare il piacere dei primi tempi, in cui il tempo che si trascorreva connessi era limitato, e forse per questo le parole misurate, gli insulti meno onnipresenti, la banalità sotto il livello di guardia. Forse è un passato mitico che non è mai esistito, e sono io che con gli anni, invece di smussarmi, di diventare una placida riformista, divento sempre più radicale e intollerante verso un mondo in cui non mi riconosco più. Boh.
Restp convinta che un buon 80% del problema sono io e il mio modo di usufruire della rete, ma che sotto c’è anche un problema più generale dell’uso che abbiamo deciso di fare di questo strumento. Non sto invocando le leggi speciali, la chiusura del web e tutte le accuse che in genere si muovono a chi dice quel che ho appena detto io. Vorrei solo più consapevolezza, più riflessione, più educazione all’uso del mezzo. Tutte cose che non nascono né si sviluppano online, ma che si conseguono prima fuori, nella vita di tutti i giorni, e poi nel web.
Nel frattempo…non lo so. Si accettano consigli. Secondo voi come ne esco?

P.S.
Sì, lo so, sarà l’ottordicesimiliardesimo post su questo blog sull’argomento. È che devo avere dei problemi alla memoria a breve termine, perché, nonostante sia a contatto con la pochezza dei cintenuti di certi web da svariati anni, resto basita ogni volta. Starò invecchiando male…

21 Tags: ,

Non è un gioco

Ieri sera ho registrato la puntata di Presa Diretta dedicata al Metodo Stamina, e oggi pomeriggio me la sono guardata. Per carità, tutto è perfettibile, e io poi sapevo già più o meno tutto – ma perché avevo attinto a duecento fonti differenti in questo anno e passa in cui ho seguito tutta la vicenda, in tv nessuno mai aveva messo tutto insieme e con tale chiarezza – ma devo dire che c’è un abisso, un abisso tra il modo in cui Iacona e il suo team ha trattato questa storia e quello usato dalla gran parte di altre trasmissioni televisive che se ne sono occupate prima. Poco spazio al patetismo spicciolo, all’inquadratura del bambino malato, se non per la splendida parte finale, in cui finalmente il dolore viene trattato con dignità e rispetto, molto più a dati, fatti e pareri. Soprattutto tanta scienza. Se vi siete persi la puntata, vi consiglio di rivedervela qua. E secondo me le cose più significative, più tremende, le dicono proprio Vannoni e Andolina. Questo per tutti quelli che “il complotto, Big Pharma, la scienza ufficiale”.
Mi sono interessata alla faccenda Stamina pressoché da subito, da quel primo articolo che colsi su Repubblica, anno domini 2011, in cui si diceva che a Brescia i NAS avevano costretto ad interrompere un trattamento con le staminali. Come molti, credetti si trattasse di una questione di ricerca scientifica e delle controverse norme che regolano quella sulle staminali, ma mi accorsi ben presto che si parlava di tutt’altro.
Stamina mi interessa perché credo rappresenti l’immagine di ciò che in futuro accadrà sempre più spesso. Viviamo in tempi in cui la scienza è sotto attacco, in cui nessuno sa più cos’è il metodo scientifico, e la cosa non viene considerata una vergogna, anzi. Viviamo in tempi in cui l’ignoranza non viene più considerata una condizione da colmare e correggere, ma qualcosa portatore di una verità ulteriore e più profonda di quella che si può ottenere con la scienza: la verità del buon senso, della chiacchiera da Bar Sport, del “io non sono medico, fisico, meterologo, però…”. E questo capovolgimento non può che condurre a esiti come quello di Stamina, accelerati da questo strumento che ancora non siamo in grado di sfruttare al massimo delle suo potenzialità: la rete. Credevamo che il web ci avrebbe fatti tutti più consapevoli, informati e colti. È diventato la cassa di risonanza di ogni bufala possibile e immaginabile, proparlata all’infinito con un click, un caos multiforme in cui la notizia attendibile sta di fianco alla cazzata bella e buona, e in cui capire cosa è vero e cosa non lo è è diventato impossibile. Mettete insieme queste due cose e avrete Stamina. Non che prima queste cose non succedessero. Ma si sperava avessimo ormai gli anticorpi per combatterle. Non è così.
La scienza, è ovvio, non dà tutte le risposte. Ci sono persino domande che non ha senso porre alla scienza. Ma ci sono ambiti in cui solo la scienza può darci le risposte. L’ho detto un sacco di volte, lo ripeto: la scienza è uno dei pochi ambiti umani in cui si hanno criteri di verità univoci, in cui è possibile stabilire un metodo che permette di discernere le fantasie dalla verità. Perché vogliamo sputarci sopra?
Può sembrare innocuo far girare su FB per l’ennesima volta la bufala dei vaccini che causano l’autismo. Non lo è. Con un semplice click non si fa altro che diffondere disinformazione, sostenere l’ignoranza di cos’è la scienza, come funziona e che risultati ci ha fatto ottenere da quando esiste. E i frutti li vediamo ora: preparati dalla composizione ignota iniettati a malati gravi, gente che si cura il cancro con l’aloe, ricomparsa di epidemie di malattie che si speravano debellate.
È la nostra salute, la nostra vita a essere in pericolo. Ogni singola volta che preferiamo il sentito dire al rigore della scienza, il “ma al cugino di mio fratello pare abbia funzionato” al test in doppio cieco.
Pensateci, per favore. Pensateci perché non è un gioco. Non lo è mai stato, ora meno che mai.

31 Tags: , , ,

Embè? + news su Orologi Senza Tempo

Come al solito, entro nella polemica del momento con quel comodo ritardo di tre o quattro eoni che mi contraddistingue. È che durante le feste mi piace starmene per i fatti miei, godermi la pace quiete domestica e prendermi un po’ di riposo dalla rete.
Vabbeh, comunque, la polemica del momento, se seguite le vicende del web dovreste saperlo, sono gli auguri di morte a Bersani. Ora, sarà che sto in rete dal 2000 e rotti, sarà che ho visto nascere e morire i blog, Myspace, visto nascere Facebook e Twitter e via così, ma tutte queste storie non solo non mi stupiscono, ma iniziano anche un po’ ad annoiarmi.
Le riflessioni che voglio fare sull’argomento, sono sintentiche e sono sostanzialmente la tre. La prima è: embé? Cioè, voglio dire, dov’è l’elemento di novità in gente che insulta online? Ormai la rete sembra servire solo a quello: siccome siamo tutti frustrati nella vita di ogni giorno, per fortuna c’è la rete che mi permette di sfogarmi a costo zero. Tra l’altro, questa degli haters è la storia più vecchia del mondo: quando saltano le convenzioni sociali – e in rete questo accade, perché c’è l’anonimato e comunque l’insulto viene percepito come qualcosa di privo di conseguenze – la gente si comporta in modo bestiale, senza offesa per le bestie, che molto spesso son meglio di noi. Non mi stupiscono quindi gli auguri di morte: sono cose che succedono tutti i giorni, online, e sono frutto del particolare clima che si è instaurato in rete.
Seconda cosa: nonostante il web 2.0 sia tra noi già da un bel po’ di anni, sembra che la gente non abbia ancora chiaramente capito come funziona. Quel che scrivi in rete è virtualmente immortale, e lo possono leggere tutti. La maggior parte degli utenti, invece, si comporta come se i suoi messaggi potessero essere letti da quattro gatti e fossero effimeri. Me ne accorgo dal quantitativo di gente che fa gaffes di vario genere nei propri stati FB e Twitter, o che ad esempio mi insulta senza accorgersi che sono taggata in quello specifico post. Io probabilmente esagero, ma mi comporto sempre come se mi leggesse il pubblico più ampio immaginabile (anche perché più di una volta miei post o tweet sono arrivati ben più lontano di quanto immaginassi). Può non sembrare, ma quel che posto è ponderato, e finora mi sono pentita di pochissime mie esternazioni online. Mi pare però che questo non sia l’atteggiamento dell’utente medio, che invece parla senza filtro alcuno, come se davvero stesse scrivendo sul diario personale.
Ultimo: non si può pensare che il clima generale di odio e insulto che anche la politica ha contribuito a creare non dia i suoi frutti. Ormai il confronto politico non esiste più: esiste solo lo scontro, basato il più possibile su accuse, recriminazioni e palesi insulti. Forse chi li scrive e li pronuncia in pubblico pensa che si tratti solo di parole, che verba volant e morta là. Invece le parole hanno sempre un peso, sedimentano, modellano il dibattito pubblico. La gente le recepisce e le assorbe, e si adegua, non vede granché differenza tra la metafora dello slogan “i politici sono tutti morti” e augurare davvero la morte ad un politico malato. È la potenza delle narazioni, questa, una cosa che ci dimentichiamo pressoché sempre. Occore stare attenti a quel che si dice, sempre, perché non è vero che tutto passa, non è vero che sono solo slogan e parole vuote.
Comunque, sono tutte cose già dette da altri e meglio di me. Ma mi andava di ribadirle, via :) .
Piuttosto, a proposito di parole che – si spera – possano cambiare le cose, come forse saprete questo sabato ho partecipato all’edizione invernale del Cavacon. Nello specifico, ho partecipato alla presentazione di Orologi Senza Tempo, l’antologia fantasy che ha come scopo la raccolta fondi per la ricostruzione della Città della Scienza. Qui un breve post che vi ricorda cosa è accaduto quasi un anno fa a Bagnoli. Qui, invece, la registrazione della presentazione. Sono piuttosto balbettante, lo so, ma questo è un progetto cui tengo davvero molto, che sento parecchio, e quindi l’emozione non manca.
Infine, a questo link è possibile preordinare l’antologia, che sarà in fumetteria da marzo, e in libreria da giugno. Vi ricordo che gli autori partecipanti sono Francesco Falconi, Barbara Baraldi, Cecilia Randall, Leonardo Patrignani, Emma Romero, Emilio Zagara e io, ovviamente. La copertina è di Paolo Barbieri. E insomma, prendetelo, è l’occasione per fare una piccola cosa, e cercare di riprenderci quel che il rogo di Bagnoli ci ha tolto. E poi è bella, giuro :P .

3 Tags: , , , ,

Gaia

Domani partirà Gaia. Ve lo dico io, perché dubito fortemente che su qualsiasi quotidiano di diffusione nazionale, o peggio ancora al tiggì, ne sentirete parlare. Eppure Gaia è un satellite frutto del lavoro ventennale e più di un consorzio europeo, cui l’Italia ha contribuito con gran dispiego di mezzi e persone. All’interno del consorzio di analisi ed elaborazione dei dati che verranno prodotti da Gaia, l’Italia è seconda come contributo solo alla Francia. E non si tratta di una missioncina così, di secondo piano: Gaia intende produrre la mappa più accurata mai realizzata della nostra Galassia. Si propone di mapparne e analizzarne l’1% del contenuto in stelle (1 miliardo di stelle su i 100-200 miliardi che compongono la Via Lattea). Per darvi un’idea, la precedente missione simile, Hipparcos, ha prodotto un catalogo con circa 2.5 milioni di stelle.
Gaia in sostanza produrrà una mappa 3D della nostra galassia, nella quale non solo sarà indicata la posizione delle stelle con una precisione mai raggiunta prima, ma in cui saranno presenti anche distanza e moti propri (spostamenti effettivi, non dovuti alla rotazione della Terra) delle stelle. È una cosa importantissima, perché ogni lavoro scientifico che riguardi il cielo ha bisogno di una mappa del genere per potersi confrontare con i lavori precedenti, in modo da confermare o confutare precedenti scoperte o farne delle nuove. Praticamente tutti gli astrofisici passano per l’uso di mappe del genere nel loro lavoro.
Tra l’altro, Gaia guarderà tutto il cielo, quindi riuscirà anche a fare altre cose, oltre a produrre la mappa che vi dicevo: vedrà moltissimi oggetti differenti, studiati un po’ da tutte le branche dell’astrofisica, e, per esempio, andrà anche a caccia di pianeti extrasolari. Insomma, è una cosa davvero grossa.
Io ci ho lavorato per un anno e mezzo, dal 2006 al dicembre del 2007. Il progetto era ancora agli inizi, molto di quel che feci allora è stato completamente rivoluzionato in seguito, ma comunque servì a capire meglio i problemi con cui avevamo a che fare. Mi occupavo dell’analisi dati di tutte le sorgenti sovrapposte: come si fa a separare la luce di due stelle molto molto vicine, che si sovrappongono? È un problema tipico dell’analisi dati della fisica stellare, e all’Osservatorio di Roma – e al connesso gruppo di fisica stellare dell’Università di Tor Vergata – c’è una scuola molto abile nel risolverlo. Gaia proponeva problemi nuovi, visto che non produrrà proprio immagini di stelle tonde, ma disperderà la luce delle singole sorgenti su piccoli spettri a bassa risoluzione (ossia disperderà un pochino la luce delle sorgenti, dividendo le varie lunghezze d’onda, proprio come capita quando si fa passare la luce del sole attraverso un prisma e si ottiene l’arcobaleno). Poi ci ha lavorato Giuliano, quindi ho continuato a seguire la missione tramite lui e i miei colleghi che hanno continuato a essere coinvolti nel progetto.
E insomma, dopo svariati rinvii, Gaia domani parte da Kourou, nella Guyana Francese, una base dell’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea. Il lancio di un satellite è sempre un momento estremamente delicato, tante cose possono andare storte, e quindi c’è sempre molta tensione. Quasi cinque anni fa assistetti al lancio di Plank, e fu un’esperienza davvero emozionante. Domani spero di riuscire a seguire la diretta online. Se siete interessati anche voi, la faranno qua.
Insomma, a dispetto di tutto e tutti, in condizioni di precariato, malpagati e soprattutto malvisti dalla società, che preferisce discettare di roba tipo Stamina o la bufala dei vaccini che fanno venire l’autismo, l’Italia continua a fare scienza di alto livello. E lo fa nel silenzio e nell’indifferenza generali, perché l’abisso culturale in cui questo paese si trova, e che media e governo cercano in tutti i modi di mantenere, abbiamo perso persino la capacità di interessarci a queste cose, o di capirne l’importanza. La gran parte dei ricercatori italiani, soprattutto se under-quaranta, è precaria, ma nel senso che va avanti con assegni di ricerca da un anno, e il cui rinnovo non dipende quasi mai dal lavoro svolto o dalle capacità, ma dal fatto se ci siano o meno i fondi per la ricerca, e i fondi ci sono o mancano per mere questioni politiche. Sono queste le condizioni nelle quali la scienza italiana lavora, ed è ancora una scienza di primo piano a livello mondiale.
Io spero che un giorno ci accorgeremo di quanto sapere, quanta intelligenza stiamo buttando alle ortiche. Di quanto stiamo correndo a perdifiato verso un nuovo medioevo che porterà conseguenze nefaste per tutti noi. Io, nel frattempo, getto i miei semini, sempre più convinta che occorra cambiare le cose una testa alla volta, e anche se ne hai cambiate solo dieci, o due, sono due teste in più per un mondo migliore.
Good luck, Gaia, and have a good journey.

5 Tags: , ,

La scrittura, la sofferenza, la morte

No, non vi preoccupate, il post è molto più allegro del titolo :P . Però mi andava di parlare di una vexata quaestio che è tornata in auge con – sì, ci sto tornando su, lo ammetto – Masterpiece: l’artista e la sofferenza.
Questa storia dell’artista che soffre me la sento ripetere da quando ero bambina, assieme a “chi è più sensibile soffre di più”. Come tutti i bambini, ci ho creduto moltissimo, e l’ho fatto fino a pochi anni fa, quando ho capito che “sono sensibile, per questo sto male” era diventato un alibi per sentirmi meglio degli altri e crogiolarmi in tutte le mie insicurezze senza far niente per risolverle, superarle o almeno metterle nella giusta prospettiva. Questo per inquadrare il discorso in una cornice più personale.
Credo che presso la nostra società ci sia un equivoco di fondo: quest’idea che l’artista sia un essere superiore agli altri. Siccome anni di romanticismo ci hanno insegnato che chi soffre è nobilitato, l’artista, nella percezione comune, ha da soffri’. La prima puntata di Masterpiece lo dimostra chiaramente: tra concorrenti che cercano di aderire il più possibile allo stereotipo, e giudici che cercano di cucirglielo addosso, è tutta un’esaltazione dello spirito tormentato dell’artista, fragile e disperato, che s’ammazza di cirrosi epatica prima dei quaranta, che dopo fa brutto.
Solo che io non credo sia così. Esistono sicuramente fior di studi che individuano collegamenti tra la malattia mentale e la genialità, ma si parla appunto non di spleen, ma di malattia. Perdonatemi se stento a credere che la morte per suicidio di chi soffre di depressione bipolare sia rubricabile sotto “sofferenza esistenziale”: è come morire di cancro, il tremendo esito di una malattia che ha tra i sintomi i pensieri suicidiari. Comunque, come in tutte le cose che coinvolgono la mente, non c’è un rapporto uno a uno tra malattia mentale e tendenze artistiche: non è che tutti gli artisti sono matti e viceversa.
Inoltre, la sofferenza è semplicemente un’esperienza umana, che intride in modo più o meno profondo le vite di tutti. La differenza tra l’artista e chi fa un altro lavoro sta semplicemente nella capacità del primo di esprimere questa sofferenza in forme che la rendano intellegibile, condivisibile dal pubblico. Tutto qua. È come saper cantare, saper cucinare da dio, essere bravo ad aggiustare cose. Un talento non dissimile da altri, e che per altro si sposa a volte – come è normale che sia – a personalità magari non limpidissime, a un carattere francamente di merda, magari. Da cui l’importanza di separare l’arte dalla vita dell’artista. Esempio classico, Céline che era antisemita, la Riefenstahl e il ruolo che ha giocato nell’affermazione del nazismo.
Poi, considerando che io mi ritengo sostanzialmente un artigiano della parola, forse non sono la più titolata a parlare di arte e sofferenza. A me piace raccontare storie, e lo faccio da ben prima che avessi chiaro cos’è la sofferenza spirituale. Però, secondo me, dire che l’arte nasce sempre dalla sofferenza è una generalizzazione che, al solito, riduce la molteplicità della realtà ad una serie di modelli che ci aiutano a non aver troppa paura della complessità. Sennò, se ti accorgi di avere un minimo di talento, vedi di infilarti in situazioni di grande sofferenza e sarai il prossimo Baudelaire.
Quel che credo serva per scrivere è forse uno sguardo più acuto, curioso, direi, sulla realtà, sulla vita e sulle persone. E serve saper vivere con intensità, nel bene e nel male, e quindi boh, forse i periodi down per uno scrittore sono più down del normale, ma anche i periodi up sono più up. Io personalmente, dopo anni di piagnistei, ho realizzato di essere una persona perfettamente nella media: un po’ ansiosa, con una tendenza vaga allo sbalzo d’umore che però con gli anni ho imparato a controllare, e la vita più splendidamente normale del mondo. E, vi voglio rassicurare: non dovete soffrire come cani per fare i narratori come me :P .

P.S.
Due aggiornamenti sui miei spostamenti: a parte la mia partecipazione al Salon du Livre e de la Presse Jeuness di questo fine settimana, di cui vi renderò conto meglio domani, ci sono due nuovi appuntamenti a Roma.

Giovedì 5 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Piazza Cola di Rienzo
ore 17.30
Firma copie

Sabato 7 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Centro Commerciale Roma Est
ore 17.00
Firma copie

Dai, che ne abbiamo di occasioni per vederci ;)

12 Tags: , , ,

È tutto così

L’altro giorno Giuliano mi ha raccontato di una discussione sulla rappresentazione del femminile sui media che ha avuto a lavoro. Non si stava parlando di un episodio particolarmente eclatante, di uno di quegli episodi cui ormai siamo abituati: che so, l’uomo di potere e la donna che fa la graziosa assistente, roba del genere. La cosa interessante era la polarizzazione della discussione: di qua le donne, che hanno fatto notare la natura sostanzialmente sessista della rappresentazione, di là gli uomini che minimizzavano. E allora mi è venuta in mente una riflessione: per un uomo capire tutti questi discorsi sulla rappresentazione dei generi dev’essere davvero complicato. In fin dei conti, un uomo vive fin da piccolo in un mondo in cui gli viene spiegato e mostrato con abbondanza di esempi che da grande potrà essere tutto quel che vuole. Gioca con camion, razzi, costruzioni, tutto ciò che desidera. Quando gli chiedono cosa farà da grande ha a sua disposizione un ampio ventaglio di risposte, nessuno gli dice cosa deve fare e l’unico limite è astenersi da tutto quanto sia troppo “femminile”: no alle bambole, no a cose come “voglio fare il ballerino”, no ai vestiti da femminuccia. Si tratta comunque di poche regole, di pochi ambiti preclusi. Il resto, è tutto a disposizione. Per lui è assolutamente naturale vedersi rappresentato in posizione di potere, protagonista di avventure e situazioni divertenti, perché i cartoni animati pullulano di personaggi maschili che fanno qualsiasi cosa.
E una donna? La bambina si guarda in giro e tutti i personaggi dei cartoni animati che fanno cose fighe e avventurose sono maschi. I personaggi femminili sono quasi tutti leziosi e fanno cose da femmina: il massimo della sperimentazione (e, beninteso, sono lietissima che ci sia almeno questo) è la dottoressa che cura i giocattoli. I giocattoli “da femmine” contemplano sempre il colore rosa e coinvolgono sempre cose che hanno a che fare con la bellezza (la bambola da acconciare e vestire, ad esempio) o la cura (il bambolotto per far la mamma). Razzi, macchinine e cose del genere vengono tipicamente associate ai maschi. Gli viene sottilmente inculcata l’idea che per una femmina è importante essere bella e ammirata, e tutti inteneriscono se, alla domanda “cosa vuoi essere da grande?”, risponde “la ballerina” o “la principessa”.
Del resto, anche quando sarà più grande cosa vedrà in giro, nelle pubblicità, ad esempio, o in televisione? Donne che fanno gli accessori estetici. Nelle pubblicità delle macchine, ad esempio, tutte fallocentriche, concentrate nel mostrare le doti prettamente “maschili” del prodotto, tipo quella pubblicità orrenda del tizio che andava a prendere la morosa davanti all’asilo, con tutti gli altri padri con la prode in collo che lo guardavano invidiosi. E, del resto, alle fiere automobilistiche non manca mai la modella con la coscia al vento accanto al prodotto. Ma per vendere qualsiasi cosa è necessaria la gnocca, fateci caso. Vendi il prosciutto, e metti un culo di donna. Vendi un giornale, altra chiappa in bella vista. Tutto così, affinché il messaggio sia chiaro.
Quindi, il problema non è l’esempio di sessismo mild; non ci sarebbe alcun problema a mostrare un uomo in una situazione di potere e una donna che fa da contorno (entro certi limiti, ovviamente, e mi par di capire che il caso in discussione che ci stesse dentro assai ampiamente). È che quello è l’unico modello. Dove ti giri e ti volti è tutto così. Il problema è la pervasività della cosa, penetrata così a fondo nella nostra mentalità che ci sembra ormai normale.
Stamattina, ad esempio, leggevo questo. E mi sono resa conto che, per il solo fatto che a parlare fosse un uomo, la frase “ero vestito in un certo modo e allora me la sono cercata” assumeva ai miei occhi un aspetto grottesco che in bocca ad una donna non mi avrebbe fatto. E io sono stata cresciuta in un ambiente il più possibile attento alla parità di genere.
Io capisco che è difficile andar contro tutto quello che ci viene insegnato fin da quando siamo in fasce. Ma occorre fare uno sforzo, e andare oltre il “vabbeh, stai esagerando”, perché dietro c’è un quadro assai più ampio.

13 Tags: , ,

Natura matrigna

Uno pensa che gli anni passano, le conoscenze si accumulano, e questo dovrebbe cambiare qualcosa nella testa della gente. Invece per certi versi siamo ancora legati a visioni del mondo medievaleggianti. Qualcuno dovrebbe farci su uno studio sociologico.
Mi riferisco al modo in cui l’uomo guarda alla natura. Ora, che la natura possa far paura non lo metto in dubbio: ne succedono di cose tremende, e la percezione è sempre di essere ospiti più o meno sgraditi (anche perché non facciamo molto per essere graditi, va detto). Però la natura è anche sede di meraviglia, e la molla che ha sempre spinto l’uomo a cercare di conoscere è proprio lo stupore di fronte a certi spettacoli del creato. Senza contare, poi, che abbiamo il cervello: l’intelligenza ci ha fatto fare passi da gigante nei secoli circa il nostro rapporto con l’ambiente, e tante cose delle quali era giusto aver paura secoli fa adesso dovrebbero al massimo stimolare uno stupore meramente scientifico. E invece no. Leggo infatti due notizie: i soliti terrori catastrofisti circa la cometa Ison e il raccapriccio della gente di fronte ad una pioggia, a quanto pare manco insolita, di tele di ragno. I media ci mettono il carico da undici: nel primo caso con un titolo completamente fuorviante rispetto al contenuto del pezzo, il secondo con assurdi toni dubitativi circa la natura del fenomeno, che è invece ben noto.
Io davvero non capisco. Non stiamo parlando di terremoti, uragani et similia. Stiamo parlando di una cometa, oggetto celeste di cui sappiamo vita, morte e miracoli da un bel po’, e di ragnatele. Ripeto: ragnatele. Invece di goderci lo spettacolo, deve sempre spuntare quello con le tesi millenaristico/complottiste, che si diffondono su FB e altri social network peggio di un cancro. Perché, ovviamente, fa troppa fatica controllare che la notizia abbia un qualche fondamento, o, peggio, mettere in moto il cervello e farsi due domande per capire se la cosa sta in piedi o no. Meglio il click compulsivo. Condividi e il mondo sarà un posto migliore.
Lo vado ripetendo da tempo, ma è un paradosso della nostra epoca che davvero non capisco: nonostante i vantaggi in termini di allungamento della vita media e miglioramento della qualità della stessa garantitici dalla scienza siano letteralmente sotto gli occhi di tutti ogni giorno, c’è un sospetto generale e diffuso nei confronti della stessa assolutamente inspiegabile. C’è nei media, che devono sempre buttarla là in termini di “lascienza ufficiale dice…ma noi pensiamo siano gli alieni”, c’è presso la gente, che preferisce aver paura e credere al complotto pluto-catto-giudaico piuttosto che credere che a volte una ragnatela è una ragnatela e una cometa è solo qualcosa di bello, da ammirare. Perché, vi svelo il segreto di Pulcinella, la scienza serve anche a non aver paura. L’ignoto fa spavento, ma 90 volte su 100 se sai con cosa hai a che fare la paura scompare. Non c’è ragione di aver paura di un’eclisse, di una cometa, di una scia bianca in cielo, perché sappiamo cosa sono e sappiamo che non possono farci male. Invece la gente preferisce star lì terrorizzata e affidarsi a soluzioni folkloristiche che potevano andar bene quando credevamo ancora agli unicorni, non adesso che sappiamo un bel po’ di cose sull’universo (non tutte e non la maggior parte, per carità, ma sufficienti per vivere tranquilli e sereni).
Niente. Parole buttate al vento. E non crediate che sia questione di lana caprina, non pensiate che “e vabbeh, lasciamo che la gente creda quel che voglia, i complottisti sono innocui” perché non è vero. Il disprezzo per la cultura scientifica ci fa tornare indietro di secoli; basti pensare alle recenti epidemie di morbillo dovute al fatto che la gente non fa più vaccinare i figli perché crede alla truffa di un medico che qualche decennio fa collegò i vaccini proditoriamente all’autismo.
La vita è un casino, definire criteri di verità in cose come il giusto e lo sbagliato, il bene e il male è un’operazione improba sulla quale si sono rotti la testa centinaia di filosofi nei secoli, e ancora non ne veniamo a capo. Nella scienza, vivaddio, i criteri di verità sono chiari, univoci e ripetibili. Perché diavolo non ci attacchiamo a questa unica certezza che abbiamo?

6 Tags: , ,