Innanzitutto, visto che domani la presentazione è sul presto, ve la ricordo oggi: per chi vuole/è in loco, ci vediamo domani 18 settembre, ore 10.30, al Palaprovincia di Largo San Giorgio per una discussione sul fantasy assieme a Francesco Gungui e Sandrone Dazieri, il tutto nella cornice di Pordenonelegge. Vi si aspetta!
Ieri confesso di aver seguito a spizzichi e mozzichi la diretta delle operazioni di recupero della Costa Concordia. Non mi sembrava di fare un gran peccato, ma la rete non era molto d’accordo: le battute ironiche o scandalizzate si sono sprecate un po’ per tutto il giorno.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: la spettacolarizzazione di tutto ciò che è ruotato e ruota ancora intorno all’incidente della Concordia non si può che deprecare. Sono morte delle persone, l’inseguimento ai parenti delle vittime e ai sopravvissuti per far loro domande dal profondo significato giornalistico del tipo “come si sente?” sono l’ennesima mancanza di rispetto nei confronti dell’altro che è un segno caratteristico di questi tempi. Ma.
Ma sembra che molti non abbiano compreso appieno il senso dell’operazione che, vivaddio, si è conclusa con successo ieri. Ho sentito parlare di operazione banale e cose del genere.
Lo ammetto, la fisica ti combina qualcosa al cervello, non lo so, e buona parte del mio interesse per la faccenda riguardava gli aspetti meramente tecnici e ingegneristici. Non era affatto un’operazione banale, perché le incognite erano moltissime (una nave non è fatta per star sdraiata su un fianco per 20 mesi, l’acqua di mare corrode il metallo, e le forze cui è stato soggetto lo scafo durante tutta la manovra di sicuro non erano quelle per le quali era stata progettata per resistere) e si è trattato dunque di un successo senza precedenti. Nessuno aveva mai fatto prima una cosa del genere (non con una nave di quelle dimensioni, se avete mai fatto una crociera o avete visto una di quelle navi in porto capite cosa intendo), e ci siamo riusciti.
Ed ecco il senso che dicevo, il significato simbolico di queste venti ore che, mi par di capire, agli italiani siano passate indifferenti.
Dopo il disastro della Concordia, con tutto quello che ha significato anche in termini di danno d’immagine all’estero – oltre alla tragedia umana, che viene prima, ovviamente – si trattava di riparare, di far qualcosa di grande e farlo assieme. Si trattava di restituire il Giglio ai suoi abitanti e all’Italia tutta, si trattava di mostrare che è possibile aggiustare le cose, che sappiamo farlo anche noi. Dopo tonnellate di cose abbandonate a se stesse negli anni – i terremotati di ogni luogo, e soprattutto L’Aquila, ad esempio, completamente lasciata al suo destino – finalmente ci prendevamo le nostre responsabilità agivamo e lo facevamo con successo. E non è poco. Pensate alla retorica stratificata negli anni, presso gli italiani stessi, prima ancora che presso chi ci guarda all’estero: l’italiano disorganizzato e furbo, pasticcione, il “queste cose noi non le sappiamo fare”, il “può succedere solo in Italia”. E invece abbiamo realizzato un’opera d’ingegneria assolutamente inedita, abbiamo girato il colosso, non ci sono stati ulteriori danni ambientali. E siamo i primi a farlo. Siamo orgogliosi? No. Ce ne frega pressoché nulla. Preferiamo andare avanti con le polemiche: “solo in Italia possono fare una diretta di venti ore su come girare un pezzo di ferro”, ignorando che i giornalisti accreditati al Giglio vengono da tutto il mondo.
Io non ho mai creduto al patriottismo, al senso di appartenenza alla terra e alla nazione, mi sembrano cose buone solo per tracciare un confine tra noi e loro e farci guerra. Ma credo al senso di appartenenza ad una comunità civile, che assieme lavora per un comune progresso, che abbia ricadute su tutti. E questo senso di comunità ci manca completamente. Sarà la nostra storia, saranno i campanilismi, o sarà solo l’abitudine a considerarci peggio di chiunque altro, a vedere tutto buio. Ma ieri, pur nella tragedia, nell’errore, nella morte, è successa una cosa bella. Senza isterismi, senza spettacolarizzazioni, ci sarebbe da rallegrarsi. Si può fare, insomma. Si possono fare tante cose se ognuno fa onestamente la sua parte e s’impegna.
Forse il busillis è qua. Nessuno la vuola fare, la sua parte. Fa fatica. E anche sperare è un salto nel buio: e se poi va male? E se mi sono solo illuso?
Non so, tutto questo mi fa un po’ di tristezza. Come l’immagine venuta alla luce stamattina all’alba, di quelle cabine distrutte dalla forza della pressione, in cui un tempo la gente s’è divertita, ha passato momenti di gioia, e in cui qualcuno, 20 mesi, è morto. Ma non tutte le forze sono ineluttabili, ogni tanto ce lo dovremmo ricordare.