Quando ero bambina, nel palazzo di fianco a casa mia c’era una specie di fabbrica. In verità era uno stanzone chiuso da una saracinesca, in cui stavano stipati una decina di cinesi. Non li vedevi uscire mai. Con ogni probabilità lì dentro lavoravano e vivevano, e l’unico segno della loro presenza erano i pesci che mettevano a seccare di fuori, sugli alberi, per l’ira dei miei vicini di casa.
Per anni, la faccia dello sfruttamento del lavoro è stata questa; era un problema che riguardava sempre gli altri, mai noi. Altri gli sfruttatori, altri gli sfruttati. Ci vivevamo gomito a gomito, ma non ci interessavamo a loro: erano diversi, con noi non avevano niente a che spartire.
Poi, un giorno di ottobre, muoiono cinque donne, quattro operaie e una ragazza, la figlia dei proprietari della piccolissima fabbrica. Erano italiane, lavoravano per 4 euro l’ora, e lo facevano in una stanza del tutto identica a quella nella quale, quando avevo dieci anni, i miei vicini di casa cinesi consumavano vite completamente dedicate al lavoro. D’improvviso, non sono più gli altri. D’improvviso, siamo noi.
Con gli anni, le tutele sul posto di lavoro, quelle tutele per ottenere le quali persone, nei due secoli scorsi, hanno dato la vita, si sono assottigliate sempre di più. Non solo il lavoro in nero, ma anche forme di sfruttamento legale: per una persona della mia età è all’ordine del giorno avere contratti senza ferie pagate, senza malattia e con un versamento di contributi a dir poco irrisorio. Per tacere poi della mancata tutela della maternità, delle paghe da fame, del precariato perenne. A guardar bene, esiste una consistente fetta della popolazione, italiana e non (ha importanza?), che lavora in condizioni non dissimili da quelle di una fabbrica dell’800. Com’è potuto succedere? Un pezzo alla volta, come sempre, un’erosione costante e che non accenna a fermarsi.
Davanti al dolore del proprietario dell’opificio che ha perso la figlia, e che si ripeteva “è colpa mia”, uno dei mariti delle vittime ha risposto: “No, non è colpa tua, tu almeno gli avevi dato un lavoro”.
Vorrei riflettere a fondo su questa frase. Sulla mentalità che sottende, sulla disperazione che implica. Stare chiuse per 14 ore in una stanza priva dei requisiti minimi di sicurezza a confezionare maglioni per 4 euro l’ora, 4 euro l’ora, ripeto – per fare un paragone, per il mio primo lavoro part time mi pagavano un rimborso spese di 8 euro l’ora, e lavoravo non più di cinque, sei ore a settimana – viene considerato un privilegio, e chi te lo elargisce, un benefattore.
Ecco, io vorrei che il sacrificio di quelle donne ci portasse due consapevolezza: la prima è che non dobbiamo smettere di indignarci per cose come questa, che non dobbiamo pensare “va così, del resto anch’io ho un co.co.pro., anche io ho gli straordinari non pagati, anche io ho dovuto firmare una lettera in cui dichiaravo di non fare figli per i prossimi due anni”. Non è normale. Non deve esserlo. E se questo è il prezzo per il nostro benessere, allora il gioco non vale la candela. Niente vale un prezzo del genere. Secondo, che si parte dal singolo: siamo noi che avalliamo certi comportamenti. Siamo noi che ci adagiamo sul detto” così fanno tutti”. No. Così fanno gli altri. Noi dobbiamo cercare di essere diversi. Noi dobbiamo rispettare le leggi e la comunità in cui viviamo, dobbiamo batterci per anche gli altri le rispettino. La legalità è la risposta, l’onestà è la risposta.