Credo di averlo già detto parecchie volte, ma la scuola m’ha cambiata per sempre. Qundo ero studentessa (non unversitaria, l’università poi scombina tutto), per me l’anno finiva e ricominciava a settembre. I tre mesi di vacanza estiva erano una cesura netta, avevo quell’esaltante impressione che durante quel periodo succedesse di tutto, e che tutto avvenisse in una specie di sospensione del tempo. L’estate era fuori dal flusso normale delle cose, e quel che vi accadeva faceva parte di una timeline parallela. Lasciamo perdere che il massimo che succedeva era poi di andare al mare in Campania invece che in Calabria, o che m’innamorassi di uno che si chiamava Giovanni e faceva il militare piuttosto che Peppino, di professione animatore. Tutto era particolare, nella mia fantasia.
Poi, appunto, è arrivata l’università, e la mia prima estate da aspirante fisico la passai a preparare Analisi I nell’Hortus Conclusus di Benevento. L’11 settembre il mondo cambiò, e realizzai che un’epoca della mia vita era finita. L’unica cosa che non cambiava era che per me a settembre iniziava l’anno nuovo.
Sarà perché amo il freddo, sarà perché adoro l’autunno, ma settembre rimane per me il mese del ritorno alla vita. Mi piace sentire il traffico che riparte nella città, dopo gli scenari post-apocalittici dell’agosto romano. Che ha i suoi vantaggi, per carità – piacerebbe a tutti metterci 40 minuti per andare da un capo all’altro della città – ma ha un che di morte, di abbandono, che non mi piace mai davvero. Mi piace il primo acquazzone di metà agosto, mi piace quando, non appena sorge l’arcobaleno, senti chiaramente che non fa più caldo come prima della pioggia, e capisci che sei al giro di boa. Mi piace quella mattina di settembre in cui cogli per la prima volta una nota di freddo nell’aria. Nonostante la città che ricomincia a girare, c’è una nota intima e raccolta, in quel brivido mattutino. In genere lo coglievo al paese di mia madre, dove per altro arrivava prima. Sentivo quel brivido, e capivo che presto l’aria avrebbe iniziato a profumare di legna.
Il mio corpo vive meglio col freddo, la mia mente lavora più alacre, mi sembra di essere un meccanismo arruginito che riprende lentamente ad andare. È, appunto, la vita che ricomincia.
Da questo punto di vista, ieri è stata la giornata perfetta d’inizio autunno.
Mi sveglio, e stare a poltrire qualche minuto a letto, prima di andare a preparare la colazione, ha tutto un altro gusto se oltre alle lenzuola c’è la prima leggera coperta. Apro le finestre, ed entra un bel vento fresco, che mi costringe a tirare fuori dall’armadio qualcosa per coprirmi. E tra le mani mi è capitato il coprispalle che indossavo in ospedale quasi quattro anni fa, quando nacque Irene. Il cielo bigio, la pioggia fine, l’alternarsi di schiarite e scrosci. Mancavano solo le castagne. A sera, poi, i tuoni e l’acquazzone, e l’”Ooohhh” ammirato di Irene mentre le facevo vedere la pioggia sotto il lampione, mentre il cielo s’illuminava di lampi.
Non starò a cercare di difendere la pioggia, che a tanta gente non piace per molte ragioni comprensibilissime. Non cercherò di convincere nessuno della bellezza dei colori dell’autunno e del rigore dell’inverno. Per me sono le stagioni migliori. E sono contenta che, lentamente, stiano arrivando.
E, come dicevo settimana scorsa, autunno, è tempo di presentare. Quest’anno parteciperò a Pordenonelegge, in quel di, appunto, Pordenone. L’appuntamento è mercoledì 18 settembre alle 10.30, al Palaprovincia di Largo San Giorgio: saremo io, Francesco Gungui e Sandrone Dazieri a discettare di fantasy. Se passate da quelle parti, fateci un salto.