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Non ricordo se fosse estate o inverno. Probabilmente febbraio, la prima sessione di esami, all’epoca, era in quel periodo lì. Lo scritto era andato molto bene, del resto avevo studiato e capito la materia. Metodi matematici della fisica, si chiamava. L’orale, insomma, era tranquillo. Sapevo tutto, davvero.
Mi svegliai già agitata. In teoria l’esame doveva esserci la mattina, ma quando arrivai, non ricordo per quale ragione, me lo spostarono al pomeriggio. Si trattava solo di rimandare per qualche ora, ma per me fu una tragedia. L’ansia iniziò a salire incontrollata. Avevo paura, non so neppure io di cosa, ma ne avevo a pacchi.
Quando mi sedetti davanti al professore, ero uno straccio. Due ore di ansia mi avevano distrutto i nervi. Avevo difficoltà a scrivere perché mi tremava la mano. Mi ricordo il pennino sottile, storto, che graffiava incerto la carta. Iniziai a impappinarmi da subito, mi confusi, le idee mi scappavano dalla testa. Il professore iniziò ad innervosirsi, e più lui si innervosiva più io andavo nel pallone. Speravo solo in una fine rapida e indolore, che sembrava invece non arrivare mai. Prima della fine scoppiai in lacrime.
Il professore mi mise 28, ma attaccò una paternale infinita sul fatto che era incredibile che non avessi studiato, che se solo mi fossi impegnata avrei potuto prendere 30, che non avevo voglia di fare niente. Io inghiottivo amaro i a capo chino, mentre pensavo a quanto avevo studiato – tanto, come sempre – per quel maledetto esame, e quanto nulla di tutta quella fatica fosse trapelato. Dannata ansia. Quando uscii dallo studio giurai che non sarebbe mai più successo, non avrei mai più permesso alle mie maledette paturnie di interferire a tal punto con la mia vita.
Era quasi dieci anni fa.
Adesso, mi separano quattro ore ore circa dalla prima difesa della mia tesi di dottorato. Non posso dire di essere tranquilla. Ma non posso neppure affermare di essere davvero in ansia. E non è perché sono convinta di avere la preparazione perfetta, quella non ce l’ha mai nessuno, o sono certa che andrà tutto bene. È solo che, non lo so, dopo dieci anni ho probabilmente imparato a farci i conti. Non è la prima volta che presento il mio lavoro davanti ad una platea. L’ho fatto per la mia tesi, l’ho fatto nei vari congressi cui ho partecipato. Conosco ormai quel vuoto allo stomaco, quella sensazione di lingua felpata, la paura, che al momento del dunque, quando il pubblico è schierato e le luci sono abbassate, diventa semplicemente energia. Ecco. Ho imparato come fare.
Da quel giorno di febbraio, non mi è mai più capitato di rimanere congelata per l’ansia. Alcuni esami sono andati alla grande, altri meno, qualche volta sono stata brillante, altre ho sparato qualche cazzotta di troppo. Ma non mi è mai più capitato di balbettare come allora.
Forse è vero che poi uno alla fine cresce…

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