Quando la Boldrini è diventata presidente della camera e la Kyenge ministro, sono stata contenta. Conoscevo la Boldrini da quando lavorava per UNHCR e leggevo i suoi articoli su Repubblica, e per quel che riguarda la Kyenge mi piaceva l’idea che il governo prendesse atto dei mutamenti della nostra società dando voce anche agli italiani con origini estere. Quello che non mi aspettavo e che la cosa sarebbe diventata una cartina di tornasole che ci avrebbe rivelati a noi stessi. Infatti il razzismo e il sessismo latente di questo paese non è mai venuto a galla così prepotentemente da quando ci sono queste due figure ai vertici dello stato.
La Boldrini viene criticata sulla qualunque. Qualsiasi cosa dica, la gente c’ha da ridire: è figlia di papà, è una stronza terzomondista, è una femminista acida, e via così. Il punto, ovviamente, è che è una donna che non la manda a dire, che ha una sua politica e delle sue idee ben chiare. E, soprattutto, non tace sulla condizione della donna in Italia. L’ultima è la famigerata storia della donna nelle pubblicità, storia che ha condotto alla gaffe di Barilla, che ha poi offuscato completamente tutto il dibattito circa media e rappresentazione del femminile. Quasi tutti, davanti all’ovvia constatazione della Boldrini che la maggior parte delle pubblicità offrono un modello univoco della donna e spesso ne usano il corpo pretestuosamente, c’è stata l’alzata di scudi: esagerata, femminista castrante, e comunque i problemi sono ben altri. Ecco, se c’è una cosa che veramente non sopporto più è il benaltrismo. Non è mai l’ora di occuparsi di diritti: c’è sempre qualche altro problema più importante prima. Non è mai il momento di parlare di matrimonio omosessuale, di adozione, o di diritti delle donne. Ma mai mai. Viene tutto prima.
Ecco, no. Il tempo è qui e ora. Anche perché ha ragione chi dice che leggi più severe non fermano il femminicidio, mentre lo fa una cultura diffusa del rispetto. E da dove parte questa cultura diffusa? Dalla rappresentazione che della donna si fa. E la pubblicità conta, eccome. È da quando hanno pochi mesi che alle bambine si fa una capoccia così con le principesse, il rosa, i giocattoli da signorine e l’aspetto. Persino Irene, che gioca in egual misura con gru, camion dei pompieri e bambole, l’altro giorno mi ha indicato un cartone animato e mi ha detto: “Quello è il principe che mi vuole sposare”. Che non c’è niente di male, non fosse che modelli altri rispetto alla principessa o glieli proponiamo noi di famiglia o ci attacchiamo.
E la Kyenge? La Kyenge è donna e nera, quindi il male assoluto. Anche lei, qualsiasi cosa dica, sbaglia. L’ultima, nel suo caso, è la storia del genitore 1 e genitore 2 (scusate per l’articolo evidentemente di parte, non mi riesce di trovare un punto di vista equilibrato su questa storia, il che è molto significativo…), una polemica così pretestuosa e idiota che ci sarebbe da ridere, se non fosse che è sintomatica dello sfacelo socio-culturale di questo paese. La Kyenge, a domanda risponde che sarebbe favorevole alla sostituzione della dicitura “padre e madre” con “genitore 1 e genitore 2″ nei moduli di iscrizione all’asilo. La ragione è ovvia: non tutti i bambini hanno un padre e una madre. C’è chi ce ne ha uno solo dei due, chi ha due mamme o due papà. La proposta è stata immediatamente virata in “queste vengono in Italia a toglierci il diritto di farci chiamare mamma e papà”. Che è palesemente falso, ma sai, è una menzogna che fa titolo di richiamo sul giornale, per cui è stata ripetuta così tante volte da diventare verità. Una cosa è come vuoi farti chiamare a casa tua, un’altra è come i tutori legali di un minore vengano definiti su un modulo, un modulo, dannazione. Comunque, anche qui, il problema non è la proposta o la politica della Kyenge: è che la Kyenge viene dal Congo ed è nera. Punto. Infatti, sui social network la protesta scantona sempre nell’insulto razzista, così come in quello sessista per la Boldrini.
Siamo indietro, è questa la verità; siamo molto più razzisti di quanto vogliamo ammettere, molto più sessisti di quanto ci piaccia credere. Così tanto che basta pochissimo per tirare via quella patina di civiltà di cui ci siamo ammantati e rivelarci per quel che siamo: gente piccola piccola attaccata alla propria roba, strenuamento chiusa in una difesa ossessiva del proprio orticello e del suo piccolo mondo antico. Solo che il mondo intorno cambia, e noi rischiamo di non avere neppure gli strumenti per capirlo. Ci sono tante ragione per cui siamo finiti così, ma adesso ci ritroviamo affondati in un pantano che è prima di tutto morale e culturale. Le cose non cambiano perché non cambiamo noi, i nostri vertici sono il riflesso fedele di quel che siamo, di quel che sentiamo e pensiamo.
Poi, certe volte penso che forse da tutto questo può venire fuori del bene. La ferita infetta va aperta ed esposta, perché possa guarire. Forse ci farà bene guardarci in faccia senza ipocrisie, scoprire quanto ancora siamo legati ad idee vecchie e, si sperava, sepolte. Bisogna riconoscere il problema, per risolverlo. Io un po’ ci spero, anche perché non si può fare altrimenti, se si vuole andare avanti.