Archivi tag: recensioni

Lui è Tornato

Di recente ho letto un libro straordinario. In verità è in generale una buona annata, ho infilato molti bei libri di recente, ma di questo vi parlo non solo perché è molto bello, ma perché lo trovo necessario. Si chiama Lui è Tornato, di Timur Vermes. La trama è presto detta: Hitler si risveglia ai nostri giorni. Ha viaggiato nel tempo. Anche se sono passati quasi settant’anni dalla sua morte, però, non è molto cambiato, e il suo obiettivo rimane uno solo: il potere assoluto per sé e per la Germania. Cambiano solo i mezzi: stavolta, Hitler si imporrà con la televisione, diventando, udite udite, un comico. La sensazione di dejà-vu che molti di voi avranno è dovuto al fatto che la cosa, ahimé, è estramamente plausibile.
Innanzitutto, il libro è divertentissimo. Per ragioni di trama e sviluppo, lo associo ad un altro libro straordinario:
A Volte Ritorno. Lì tornava Gesù, qui sostanzialmente il diavolo, ed entrambi gli autori scelgono la via dell’umorismo e della satira per spiegarci questi ritorni.
Lui è Tornato è un libro appassionante, divertente, e la cosa non è affatto scontata, visto che tutto è raccontato dal punto di vista di Hitler, che parla in prima persona. Pensateci: l’autore riesce a farci appassionare ad un personaggio come Hitler, che, nell’immaginario contemporaneo, rappresenta la più forte incarnazione del male assoluto. Ed è proprio dalla sensazione di straniamento che si prova all’idea di parteggiare per Hitler che nasce la riflesione. Perché Lui è Tornato non è solo un libro divertente e appassionante: è soprattutto una riflessione spietata sui nostri tempi e sul rapporto tra masse e capo carismatico.
Ho letto un paio di interviste di Vermes, e lui sostiene che sostanzialmente la Germania non ha ancora fatto davvero i conti col suo passato nazista. La vulgata racconta di un Hitler cattivo che ha preso il potere con la forza, e addossa al dittatore tutta la responsabilità dell’accaduto. Peccato che Hitler divenne cancelliere con mezzi democratici, e che nessun dittatore può rimanere al potere senza l’appoggio di una fetta consistente della popolazione.
Ecco, Vermes svela il legame oscuro tra dittatore e folla, rivela a noi stessi un desiderio tremendo che ci abita tutti, quello di abbandonarsi completamente alle farneticazioni del Capo, che ci libera dal peso del dover pensare con la nostra testa e ci dà una descrizione del mondo rassicurante. Certo, il nazismo rappresenta per il popolo tedesco una ferita, e dunque la sua rinnovata affermazione non avviene così, senza qualcosa che renda sopportabile il ritorno di certi simboli. Pian piano la popolazione si riabituaall’idea di un Fhürer, al saluto nazista e alle deliranti teorie della razza grazie all’idea che, tutto sommato, sia solo ironia, che quello di Hitler sia un gioco. Pensateci: funziona davvero così. I contenuti più aberranti sono stati proposti recentemente sotto la patina della “libertà di satira”, e sono in tanti quelli che di fronte ad un Borghezio che disinfetta i vagoni del treno dove siedono le prostitute ride, dicendosi che è una provocazione, e intanto si dice che sotto l’eccesso c’è comunque un fondo di verità. Ecco, quando si fa così si scherza col fuoco. Negli anni ’30 molti pensavano di poter neutralizzare Hitler, e non lo prendevano molto sul serio quando diffondeva la sua ideologia. Hitler li ha schiacciati tutti.
L’Hitler del libro, come quello reale, del resto, non è un grand’uomo: è un poveretto che ciancia di cose che non capisce, prigioniero della sua delirante logica. Ma ha una sola, straordinaria capacità, e l’intelligenza per usarla: conosce la psicologia delle masse, e sa affascinarle. La chiave del suo trionfo sta tutta qua. Hitler fa leva sui sentimenti più oscuri che ci abitanto, sul desdierio di farci solo gli affari nostri, di schiacciare chi non ci piace, nell’illusione di poter bastare a noi stessi. La patina di civilizzazione che ricopre la nostra società è sottilissima, e Hitler la spazza via. Sotto, c’è ancora il razzismo, l’odio, il desiderio di appartenere a qualcosa, anche qualcosa di aberrante, ma che dia un senso superiore alle nostre vite.
Il percorso dell’Hitler di Vermes è terribilmente plausibile, e c’è gente che dopo il ’45 l’ha compiuto tutto con successo. Occorre essere vigilanti, perchè le società democratiche sono assai più vulnerabili di quel che si creda e basta poco per cadere. Vermes questo ce lo mostra chiaramente, spietatamente: sessant’anni di pace non bastano per far penetrare a fondo una vera cultura democratica. Più gli anni passano, più ci dimentichiamo come è potuto accadere quel che è successo, e le tecniche di manipolazione delle masse si affinano sempre più, in forme che spesso non siamo neppure in grado di riconoscere.
Io questo libro qua lo farei leggere nel scuole. S’impara di più su Hitler, il nazismo e la democrazia qua che in tanti libri di storia. Soprattutto Vermes decostruisce il mito, che è il primo passo per non farsi affascinare del demoagogo. Hitler è un populista, le sue capacità iniziano e finiscono nel saper tenere in mano la folla. Eppure basta. Perché siamo sin troppo sensibili al fascino della moltitutdine, all’idea che esista qualcuno in grado di dirci senza ombra di dubbio cosa è giusto e cosa è sbagliato. Perché forse la follia, ricorda Vermes nelle parole di Peter Ustinov, è l’assenza di dubbi, ed è una follia molto, molto comtemporanea.
Consigliatissimo.

Bonus
In quel di Cava, una settimana fa, ho fatto un’intervista coi ragazzi di Isola Illyon: eccovela qua. Io mi sono divertita molto a farla, spero vi divertirete anche voi a vederla :) .

11 Tags: , , ,

Lo Hobbit – Un film inaspettato

Premessa 1
Quando uscì La Compagnia dell’Anello, per me fu un evento di quelli da contare i giorni. Avevo quasi finito di scrivere le Cronache, aspettavo il film da quando era stato annunciato, ero in paranoia dura. Ricordo l’emozione, l’esaltazione, i commenti, le nottate sui forum.
Ecco, a dieci anni di distanza, per Lo Hobbit il mio hype era a zero spaccato. Mi ero vagamente interessata al progetto quando era stato annunciato, ma poi morta là. Non avevo visto neppure un trailer, prima di andare, ieri sera, a cinema. Il perché è presto detto: innanzitutto, Lo Hobbit non mi ha mai entusiasmata. L’ho letto con piacere, ma non mi ha fatto quell’effetto “wow!” del Signore degli Anelli. È decisamente più un libro per l’infanzia, e dunque è una bella favola, ma nulla di più. Di conseguenza, l’idea che Peter Jackson lo prendesse in mano e ci facesse Il Signore degli Anelli 2 – la Vendetta non mi entusiasmava. Ero certa che il prodotto sarebbe stato venduto come “il prequel del Signore degli Anelli” – e infatti così è stato – e la gente sarebbe andata a cinema convinta di ritrovare le atmosfere della trilogia. A quel punto, i casi sarebbero stati due: o in effetti Lo Hobbit diventava Il Signore degli Anelli, e in caso non mi interessava che venisse snaturato per trasformarlo in qualcosa di epico, oppure sarebbe stato la favola che è, e non mi interessava comunque perché io ho un debole per l’high fantasy, lo sapete tutti.
Queste dunque le premesse con cui mi avviavo a cinema.

Premessa 2
Io Lo Hobbit l’ho letto, ma qualcosa come dieci anni fa e una volta sola. Non ricordo niente. Ricordo che c’era un drago, e questo già bastava per me a dargli la sufficienza, un sacco di nani e Gollum. Basta. Quindi, non mi pronuncerò sulla fedeltà al libro, che tanto l’internet a quest’ora è già pieno di gente che ha sviscerato l’argomento da ogni punto di vista. Per altro, a me la fedeltà pedissequa non ha mai interessato più di tanto: si può essere infedeli alla lettera, se si è fedeli allo spirito.

La recensione
Cominciamo dicendo che l’ho visto in 3D e a 48 fps. Se volete sapere cos’è questa storia del 48 fps, andate qua. Io odio il 3D. L’ho apprezzato solo in Avatar. Siccome però qualcuno di cui mi fido aveva detto che valeva la pena, ho fatto uno sforzo e ho deciso di vedermi il film come Peter Jackson voleva, e mi sono dotata di occhialetti regolamentari.
Ora, il 3D de Lo Hobbit è fantastico, poco da dire. Nitido, luminoso, e soprattutto a tutto tondo. Non c’è quell’effetto piani di cartone sovrapposti, tutto ha davvero un volume, i volti sono spettacolari, e soprattutto non è tutto buio. La resa dei colori è sostanzialmente identica a quella che si ha nel 2D. Poi, vabbeh, narrativamente parlando è un 3D che non serve a nulla. È solo le bello da vedere. Attenzione se soffrite di claustrofobia e avete paura dell’altezza, come me: c’è da soffrire. Per dire quanto è realistico.
La tecnologia 48fps pare dovrebbe ridurre lo sfarfallamento del 3D nelle scene concitate: ecco, non ci riesce. Quando l’azione diventa frenetica, non ci si capisce un tubo, come tutti i 3D di questa terra. Senza contare che il realismo del tutto causa la nausea in molte riprese, stante la nota tendenza di Peter Jackson a farci di tutto, con quelle maledette telecamere…
Ma veniamo al 48fps vero e proprio. A mio parere, una tragedia. È tutto troppo vivido, più vivido del mondo reale, e per questo tutto assume un aspetto plasticoso e finto. A tratti mi sembrava di stare in un videogioco. Alcune scene facevano tantissimo documentario BBC in HD. Spiace dirlo, ma questa cosa ha abbattuto la mia capacità di entrare nel film. Tutta questa fluidità paradossalmente riduce l’immersione. Sembrerà strano, ma mentre quando vedo un film in 2D, con la sua fantastica granulosità, io entro nello schermo per le due ore di film e mi dimentico del resto, con questo 48fps sono stata quasi sempre fuori. Non so, la fluidità crea una specie di distacco con lo schermo, una sensazione di plasticosità continua che non aiuta molto la sospensione dell’incredulità.
Insomma, dal punto di vista tecnico, promosso a pieni voti il 3D, ma di questo 48fps non si sentiva proprio il bisogno. Poi, magari, è solo questione di abitudine, ma io l’ho trovato fastidioso e basta.
Veniamo però alla sostanza. A parte tutto, com’è ‘sto film?
È bello, dannazione. Ed ero prevenuta, eh? E son stata lì a dirmi “eh, ma questo attacco è troppo lungo”, “eh, ma quanto la tirano ‘sta scena dei troll” e via così, ma non c’è stato niente da fare. Funziona alla perfezione: ti diverti, l’azione sta dove stare, la riflessione anche, i personaggi hanno un’anima, e la Nuova Zelanda è tipo la cosa più vicina alla Terra di Mezzo che puoi trovare nel nostro mondo.
Spiace dirlo, ma Peter Jackson, assieme probabilmente a Guillermo del Toro – che infatti ha messo più di uno zampino in questo progetto – sono gli unici in grado di dare credibilità ai film fantasy. Sono gli unici che li sanno fare, banalmente. Sono passati dieci anni e nessuno, nessuno è riuscito a fare qualcosa di vagamente paragonabile per profondità, divertimento e coinvolgimento, al Signore degli Anelli. Tranne Peter Jackson. E questo, non so a voi, ma per quel che riguarda me mi riempie di tristezza.
Lo Hobbit è e al contempo non è Il Signore degli Anelli. Le atmosfere sono le stesse, molte location, giustamente, sono identiche. Un po’ meno piacevole sono le scene prese di peso dalla trilogia e infilate qua (l’attacco sul Caradhras, il “consiglio di Elrond”, persino alcune battute). Qui, in realtà, è questione di gusti: ci sarà chi apprezzerà questo solido ponte gettato verso Il Signore degli Anelli, e chi, come me, lo troverà un po’ troppo autocelebrativo. La cosa è così spinta che alla fine La Compagnia dell’Anello è, narrativamente parlando, sovrapponibile a Un Viaggio Inaspettato: stessi snodi di trama, negli stessi punti, stessa gestione del ritmo. Ma, nonostante questo, Lo Hobbit non è una mera riproposizione con meno verve de La Compagnia dell’Anello. È semplicemente un tassello del medesimo mosaico, e l’impressione di deja vu non c’è praticamente mai. Io non so come sia possibile questo miracolo, ma, vi giuro, funziona così.
Lo Hobbit non è Il Signore degli Anelli, vi dicevo, perché, pur mettendo dentro cose che nel libro non c’erano – o almeno così mi dice il mio esperto di fiducia – il film mantiene un andamento più scanzonato de La Compagnia dell’Anello. Tra l’altro, onore a Peter Jackson che pur avendo gente conciata così nel film, non indulge eccessivamente nella caratterizzazione da nano puzzone e beone (vedi alla voce “rutti e scorregge di Gimli a Edoras”). I nani sono divertenti, ma non sono macchiette. Ognuno c’avrà il suo preferito, io mi sono appassionata al non-nano, evidentemente frutto di un amplesso probito tra una nana e un elfo (usa anche l’arco…). Nonostante il film racconti un’avventura (e non una disperata missione per salvare la Terra di Mezzo), non manca di epos. Insomma, c’ha tutte le sue cosine a posto, e diverte, soprattutto, diverte!
Colonna sonora superlativa, chevvelodicoaffà, il tema dei nani è meraviglioso, e interpretazioni straordinarie. Il doppiaggio mi pare tolga qualcosa, in effetti sto pianificando di andarmelo a rivedere in inglese (e in 2D…), ma nulla di davvero fastidioso.
Insomma, in sintesi: non è un’esprienza totalizzante come La Compagnia dell’Anello, ma è un film fatto davvero bene, un fantasy come si sperava se ne sarebbero fatti tanti, dopo Il Signore degli Anelli, e invece non ci fosse Peter Jackson il genere sarebbe già morto. Come ho già avuto modo di dire su Twitter, gli do un bell’8 e 1/2. Se poi lo paragono ai film fantasy usciti in questi dieci anni, gli si dovrebbe dare 10. Io ve lo consiglio, ma vedetelo in 3D 48fps solo se siete davvero curiosi di scoprire questa nuova tecnologia.

30 Tags: , , ,

Manzoni come King

Ho inaugurato l’anno nuovo con una rilettura de I Promessi Sposi, lettura che in questi giorni si avvia alla sua conclusione. Non è la prima volta che lo leggo; l’ho già fatto un paio di volte in passato, dopo averlo studiato a scuola. È che a me è sempre piaciuto, anche quando lo studiavo. Sarà che ho trovato professori che me l’hanno fatto apprezzare, o sarà la mia naturale propensione ad un certo modo di far narrativa che andava per la maggiore nell’800, ma non mi annoiavo a studiarlo – anzi! – e lo rileggo sempre con piacere. E devo dire che quest’ultima rilettura mi ha confermata nell’ottima opinione che ho di questo libro che la maggior parte degli italiani vede come il fumo negli occhi. E invece, ragazzi, il Manzoni dà una pista a tanti narratori moderni, e sulla gestione del ritmo e sulla capacità di commuovere e divertire. Perché, e forse questo non viene evidenziato abbastanza a scuola, I Promessi Sposi è divertente. Eh già. Altro che le solite pippe sulla Provvidenza, e la religione, e la storia…Manzoni si diverte molto a scrivere, e il lettore si diverte di conseguenza molto a leggere. Pensateci: dentro c’è veramente tutto. C’è l’amore contrastato, ovviamente, ma c’è anche la passione illecita (la monaca di Monza), il “male metafisico” (l’Innominato), la morte (la peste), il perdono (e qui l’elenco sarebbe parecchio lungo), la redenzione (da Fra’ Cristoforo all’Innominato, per dirne solo due). Il tutto raccontato con un gusto per la pura narrazione, un amore per la storia e per i personaggi che a me fa venire in mente – e mi sa che qualcuno inorridirà – Stephen King. Sì, lui. Voglio dire, siamo al capitolo IV, è appena successo il patatrac, la tensione è alta, e incontriamo Fra’ Cristoforo. Manzoni che fa? Capitolo intero di digressione sulla storia del personaggio. Roba che, se non sei bravo, il lettore chiude il libro e morta lì. E invece la digressione ci sta, appassiona, trova un suo senso compiuto e nella cornice complessiva del romanzo, e nel singolo episodio. Stessa cosa dicasi per la storia della monaca di Monza, che prende ben due capitoli. Oggi, ovviamente, non si usa più di interrompere la storia con interventi diretti dell’autore come quelli che fa Manzoni. Oggi, che so, la storia della monaca verrebbe fuori con un bel flashback. Resta però il fatto che la digressione appassiona. Io adoro la storia di Gertrude; è uno di quei racconti in cui l’acutezza di Manzoni nel raccontare l’essere umano viene fuori con una vivezza, e pure con un mestiere, che non ha eguali. O come la parte sull’Innominato. Appena si inizia a parlare di lui, il tono del racconto vira bruscamente: tutto, in quel che lo riguarda, parla di un Male superiore, di ben altra caratura rispetto a quello sciocco, capriccioso, di Don Rodrigo. La valle in cui vive è intrisa essa stessa di un’atmosfera cupa, tremenda, che il lettore coglie a volo.
Non starò a dilungarmi sulla perfezione di certi passi, sui quali in genere ci si sofferma abbondantemente a scuola. Il “La sventurata rispose”, punto e a capo, è il perfetto esempio della misura, della grandezza di una narrazione che, pur affondando a piene mani in una materia “patetica”, quasi mai scantona nel retorico spinto. Dice più quel punto e a capo di tante parole. È un vuoto significativo che il lettore riempie dei più oscuri sottintesi. Comunque, per inciso vi segnalo un passo dalla notte dell’Innominato che mi sembra veramente splendido – a me l’Innominato è sempre piaciuto un sacco –

Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava”

Cioè. Tutto straordinario. Il ritmo, la scelta delle parole, tutto. Una frase che per altro spiega in due righe e mezzo l’Innominato.
Un’altra cosa che ho notato specie in quest’ultima lettura è l’ironia. Noi abbiamo quest’immagine pallosissima di Manzoni, come un tizio basettone col cipiglio severo, fissato con la religione, e invece dalle pagine de I Promessi Sposi viene fuori di continuo il ritratto di un uomo ironico. L’ironia, nel libro, è ovunque. Nei continui incisi che l’autore si permette, nei commentini sui personaggi, nel riferirsi ai “venticinque lettori” – ha ragione Eco, ne vuole venticinque milioni -, nei tanti ritratti di personaggi minori. E dietro si intravede un piacere della narrazione, un divertimento del racconto che io trovo modernissimo. Per dire, ogni volta che Don Abbondio compare in scena io vedo distintamente Manzoni che sghignazza. Ci sono parti che sono evidentemente più lunghe di quanto la narrazione richiederebbe – il monologo interiore di Don Abbondio in marcia verso la casa dell’Innominato – che stanno lì solo perché Manzoni si stava divertendo troppo. A volte ti verrebbe la voglia di essere nato duecento anni fa per conoscerlo, questo autore volpone, che non si nega nessun becero trucco per ingraziarsi il lettore e divertirlo, che ha un controllo assoluto sulla trama, che tratteggia personaggi memorabili. Ed è tutto straordinariamente moderno. È questo che ho scoperto: che I Promessi Sposi si possono leggere come si legge un Murakami, un King, un autore di genere. Che non è un libro paludato e noioso come troppo spesso si crede, che è un trattato di buona scrittura da cui abbiamo tutti da imparare, che ha attraversato duecento anni e passa di storia restando fresco e godibile come il primo giorno. Per cui vorrei consigliarvi di non chiudere la mente, quando a scuola vi fanno studiare Manzoni. Rischiate solo di perdervi una gran storia e un gran libro.

27 Tags: , , , ,

Merlin

Col nuovo record di quattro – dico QUATTRO – anni di ritardo, verso la fine dello scorso anno mi sono avvicinata a Merlin, la serie BBC sulle avventure dei giovani Merlino e Artù. L’ho fatto con una certa dose di scetticismo; sembrava una cosa molto nella media, nulla di particolare. Però ero un po’ orfana di roba da vedere, mi serviva qualcosa di leggero e divertente e Merlin sembrava fare al caso mio. Per altro, mi aveva già incuriosita l’anno di uscita, perché Edimburgo, che visitai proprio in quel periodo, era piena di manifesti col faccione di Colin Morgan.
Al momento sono alla visione della seconda serie, più o meno metà – visione rigorosamente in inglese, perché ogni tanto l’accento british fa veramente bene alle orecchie – e quindi direi che la fase di beta testing è conclusa e si possono tirare le somme. Intendiamoci, è un prodotto medio sotto tutti gli aspetti: nulla di eccezionale sul fronte delle interpretazioni, anche se non c’è nessuno che sia proprio cane, fatta forse eccezione per un Lancillotto decisamente monocorde, nulla nella sceneggiatura che faccia gridare al miracolo, nessun soggetto particolarmente ispirato, e soprattutto effetti speciali da serie televisiva, ossia le bestie, fatta eccezione per il drago, si vedono poco, e quel che si vede non è un granché. Però. Però, ragazzi, io mi sto appassionando. Quei 45 minuti la sera che dedico alla visione mi rilassano, mi rimettono in pace col mondo. Perché se c’è una cosa in cui Merlin eccelle è il ritmo: non ti annoi mai. Nelle puntate succedono sempre un bel po’ di cose, non ci sono momenti di stanca, gli autori sanno quando buttarla sull’ironico e quando invece fare più i seri. L’impressione generale è di un prodotto perfettamente cosciente dei propri limiti, ma anche dei propri punti di forza. Inutile attendersi le psicologie complesse di un Games of Thrones o l’irriverenza di un Misfits. Qui ci si diverte con una rivisitazione simpatica dei grandi classici dell’high fantasy. L’assenza di presuntuosità, l’impressione che gli autori sappiano sempre esattamente quel che stanno facendo e l’onestà complessiva del tutto rendono la serie straordinariamente piacevole da vedere. Voglio dire, nulla di immancabile, non è quella roba che ti fa urlare al capolavoro o genera dipendenza, ma dove sta scritto che uno abbia sempre voglia di capolavori, no?
Per altro, tutti i limiti della serie non significano che a volte non si affondi un po’ di più con le trame; ci sono state un paio di puntate della prima stagione – penso a The Beginning of the End, The Moment of Truth o To Kill the King – in cui certi temi un po’ più “pesanti” vengono affrontati in modo non banale. C’è poi una certa ambiguità di fondo che anima alcuni personaggi, e che non viene mai del tutto risolta, ma anzi indagata in modo interessante: penso a Uther, o Morgana. Anche l’immancabile triangolo che inizia a intravedersi nella seconda stagione non è poi così stantio quanto si potrebbe credere.
Insomma, ripeto, non vi dico “vedetevelo perché è imprescindibile”, ma se un domani aveste voglia di una cosa leggera da vedere in scioltezza, ve lo consiglierei di certo.

P.S.
Per favore, no spoiler nei commenti, per chi stesse seguendo la cosa in contemporanea con il Regno Unito. Ok, la storia la sappiamo tutti, ma Merlin si prende un fracco di licenze poetiche sulla versione classica del mito di Artù, e tutto sommato io non ho voglia di scoprire in anticipo come la storia prosegua.

39 Tags: , ,

Spartacus: sangue, sesso e morte

Mi rendo conto che è fatto la figura della peracottara – come si dice a Roma – nel promettervi consigli per gli acquisti che poi non vi ho dato, ma adesso che sono in vacanza ho meno tempo libero di prima. Tra questa insana passione per la pasticceria – per inciso, visto che si parla in giro di questa roba qui, io non faccio e decoro dolci perché mi sento dentro chissà quale vocazione a far la donna di casa, ma perché è un modo come un altro per esprimere la mia creatività, al pari dei libri, dei disegni, delle foto, e delle ottanta altre cose che faccio in vita mia – Irene, marito e Ragazza Drago 5 sono sempre a far qualcosa. Solo adesso, forse, ho trovato un momento per parlarvi del mio secondo consiglio per gli acquisti.
Con colpevolissimo ritardo di due anni – e dopo aver superato l’angoscia nel vedere una cosa in cui recita un attore morto da poco – ho scoperto Spartacus Blood and Sand.
Ora. Indubbiamente non è una cosa per tutti i palati, sicuramente richiede da parte dello spettatore un abbandono di cui non tutti sono capaci, ma una volta entrati nello spirito, dentro c’è veramente tutto quello che uno può volere.
La storia è quella, arcinota, di Spartaco, il gladiatore trace che fece vedere i sorci verdi alla Roma repubblicana, protagonista di una ribellione di schiavi che fu una cosa piuttosto grossa. La prima serie si concentra sulle origini: la cattura di Spartaco, la sua condanna a morte, la sua folgorante carriera da gladiatore e infine la decisione di ribellarsi.
Innanzitutto, Spartacus è un prodotto nel quale l’estetica è parte del godimento complessivo, ed è un elemento dello sviluppo al pari della sceneggiatura. Quest’estetica ha un debito fortissimo nei confronti di 300: esaltazione dei corpi nudi, principalmente maschili – e quando nudi intendo proprio nudi, ci sono un bel po’ di volatili in bella vista :P – ritratti principalmente nel gesto atletico, molto spesso in ralenty, fotografia curatissima, sangue a tonnellate e iperviolenza. La cosa interessante è che però il tutto è al completo servizio della storia. La fotografia laccata, l’ossessione per i corpi ha una sua gustificazione nell’economia della narrazione, e rimanda direttamente al tipo di società che Spartacus mette in scena: una società in cui l’apparenza e i soldi sono tutto. La Roma di Spartacus è un posto in cui tutto è immanente, gli dei sono un mero pretesto e tutto si riduce al qui ed ora, un presente che deve essere consumato in fretta e con voracità. Non conta chi realmente si sia, ma quanto si vale: ogni persona ha un prezzo, e per raggiungere i proprio scopi non c’è nulla di illecito. Un affresco che ho trovato interessante, vividissimo, e tutto sommato anche piuttosto attuale.
Di contro, c’è Spartacus, che fin dall’inizio si oppone a questa visione. Per lui ogni persona ha un valore in sé, che prescinde dal mero valore monetario, ogni esistenza è preziosa e la vita non si riduce ad una estenuante ricerca del piacere del momento, bensì si deve spendere per qualcosa di più grande. La sua ribellione dunque non è più solo mera vendetta: è la sua visione della vita che si scontra con quella dei romani.
Ottimi sceneggiatura, regia e soggetto. La regia lascia il segno, piena com’è di scelte originali e azzeccate (una su tutte: i primi piani insistiti, mentre dietro l’azione si sposta di luogo e tempo, dando l’idea del tempo che passa). I dialoghi sono curati e spesso assai belli, il ritmo viene sempre gestito in modo egregio, frenando quando necessario, accelerando quando si deve accelerare, e praticamente senza momenti di noia. I personaggi sono a tutto tondo, proprio perché calati in un contesto che alla fin fine ha tantissimo del fumetto: i combattimenti sono sempre esagerati, con elementi spesso direttamente gore, sangue e profusione e morti come se piovesse. Eppure i personaggi sono veri, intensi, si soffre e si gioisce con loro, anche per quelli più ignobili. E di ignobili ce ne sono a palate.
Su tutti, svetta il viscidissimo Battiatus, perfettamente accoppiato con la perfida moglie Lucrezia. Impossibile non tifare per la loro spudorata scalata al potere. Spartacus porta ad un nuovo livello la trama di intrigo: le congiure ordite da Battiatus sono quanto di più machiavellico visto sullo schermo, la sua capacità di cadere – quasi – sempre in piedi, di volgere a proprio favore anche le sciagure, di non fermarsi davvero davanti a niente ne fanno un personaggio indimenticabile.
Le note negative? Innanzitutto la gratuità di un buon 40% dei nudi. Sembra ci sia tipo un tetto minimo di ette e culi da far vedere a puntata, e gli autori se ne inventano di ogni per mostrare seni e piselli al vento. Va bene, la società dissoluta, i costumi liberi e quel che ti pare, ma certe volte è veramente troppo. Tipo quando Licinia deve scegliere un maschera da indossare per il suo incontro clandestino con un gladiatore, e non trova di meglio che farne provare un tot a tipo dieci schiave nude. Perché? Era necessario? Anche no. Ora, non è che mi scandalizzi per un paio di nudi, ma la pretestuosità di alcuni di essi è semplicemente irritante, così com’è irritante qualsiasi elemento di trama che sia messo lì non per effettiva necessità, ma solo per stimolare i bassi istinti dello spettatore.
Infine, ci sono alcuni snodi di trama gestiti non proprio al meglio: tutto sommato, la carriera di gladiatore di Spartaco resta un po’ ingiustificata, soprattutto dopo uno snodo di trama sul quale non mi dilungo perché è spoiler. Ma nel complesso tutto funziona come un meccanismo perfettamente oliato, tra ottimi interpreti e una trama outrée.
Resta una grande incognita per il futuro: può Spartacus sopravvivere senza Andy Whitfield e senza Battiatus (e questo qui non è un gran spoiler, ve lo dico)? Whitfield era veramente perfetto. L’attore che è stato chiamato a sostituirlo sembra non avere una caratteristica che invece mi piaceva molto nello Spartacus di Whitfield: era sì un cristone muscoloso e pompato, ma anche fisicamente spiccava sugli altri gladiatori e su Crixos in particolare: bastava guardarlo, e capivi a volo che non era solo uno che mena. McInthyre invece sembra Ken il Guerriero. Per il resto, la seconda stagione – non conto il prequel Gods of Arena – deve rifondare il prodotto dalle basi: ormai il patatrac è successo, la componente di intrigo andrà a farsi benedire, e anche l’arena per forza di cose sarà meno presente. Funzionerò tutto lo stesso? Non lo so, spero di sì, perché la prima stagione, devo confessarlo, mi ha davvero esaltata. Un bel prodotto divertente, ben fatto, appassionante. Ce ne fossero di più…

8 Tags: , ,

Consigli di lettura: 22/11/’63

Visto che siamo sotto le feste, e sulla carta tutti dovremmo avere più tempo per lo svago (tutti tranne me, io non ho mai tempo, per definizione), inizio una piccolissima serie di post in cui vi consiglio roba da vedere/leggere. Per la verità adesso ho in mente solo due cose, ma magari nel prosieguo ne troverò altre.
Dunque, ho finito da pochi giorni 22/11/’63, l’ultimo libro di Stephen King. Piccola premessa: non sono una fan sfegata di King. Di lui ho letto It, che mi è piaciuto mediamente, Il Gioco di Gerald, che invece avevo apprezzato di più, e Notte Buia, Niente Stelle, che mi aveva davvero catturata. Nonostante il mio giudizio su quanto di suo ho letto sia più che positivo, non sono una fan. Solo che, circa un paio di settimane fa, mi sono imbattuta appunto in 22/11/’63, e…niente, è così bello da far male, e sono sicura che, se siete lettori forti, avete capito cosa intendo.
Ci sarebbe da dirne a pacchi sull’ultima fatica del Re. Io mi concentrerò su un paio di punti che mi hanno particolarmente colpita.

Il gusto per l’affabulazione
La prima cosa che colpisce di King, è la straordinaria capacità di narrare. Le sue storie sono dotate di quella forza dirompente e irresistibile che solo i grandi narratori sono in grado di imprimere. Inizi a leggere, ed entri in un altro mondo. Si viene catturati, non si riesce letteralmente a staccare gli occhi dalla pagina. E questo indipendentemente dall’argomento che King sta trattando, perché lui saprebbe avvincerti anche con la lista della spesa. Saper raccontare è un dono, o ce l’hai o non ce l’hai, e lui ce l’ha, al massimo grado. I personaggi diventano rapidamente i tuoi migliori amici, ti interessa di loro, ti sembra di conoscerli da sempre, vivi e soffri con loro. Appena apri le pagine, non ha più alcuna importanza dove tu sia e cosa tu stia facendo: tempo un paio di parole, e sei – nel caso di 22/11/’63 – nell’America degli anni Sessanta.
Io questa capacità “artigianale” – e sapete che artigianale in questo contesto ha per me un significato estremamente positivo – io gliela invidio dal profondo. Tra l’altro, da grande qual è, King è perfettamente consapevole dei suoi strumenti, nonché di quel che sta facendo, o non direbbe quanto segue, per tramite del suo protagonista.

“Da insegnante, ho sempre insistito sulla semplicità. Che si tratti di narrativa o di saggistica, conta solo una domanda, e una risposta: «Cosa accade?» chiede il lettore. «Questo… E questo… E anche questo», risponde lo scrittore.

Ecco. Io questa cosa qui probabilmente la scriverò a caratteri cubitali sul soffitto della mia stanza da lettore. Due righe, e c’è riassunto quel che fa uno scrittore di genere. Non c’è veramente altro da aggiungere.

La banalità del Male…
Per quanto possa capirne, in base ovviamente al mio vissuto, a me sembra che il libro porti avanti un discorso per nulla banale sul Male. Certo, lo si può considerare un libro di fantascienza, anche se gli elementi del genere stanno tutti in apertura e in chiusura del libro, o, forse, più a ragione, una struggente storia d’amore. Ma sotto sotto, si parla di Male, come del resto in tutti gli altri libri di King che ho letto. In particolare, della banalità del Male. Male incarnato innanzitutto da Oswald. Un ometto, per come ce lo dipinge King – e per come con ogni probabilità era – compresso da una madre ossessiva, ciecamente idealista, incapace di ribellarsi davvero, vigliacco. E questo acuisce l’orrore del suo gesto. Kennedy non è morto in seguito ad un complotto, non è stato colpito da un grand’uomo. Kennedy è stato ucciso da un piccolo uomo, perché quasi sempre sono i piccoli uomini ad essere capaci di gesti tremendi. Tutto il resto della fauna del libro è popolato da un’ampia galleria di cattivi il cui tratto saliente è la meschinità: meschino è Frank Dunning, la simpatica canaglia rubacuori agli occhi del mondo, capace di sterminare l’intera famiglia a colpi di martello, meschino è un altro personaggio, di cui taccio il nome per non fare spoiler – e in un libro così il gusto per la trama fa parte del godimento complessivo, e chi sono io per rovinarlo a chicchessia? – all’apparenza un nevrotico incapace di nuocere, che invece trova la forza per vendicarsi sul mondo nel peggiore dei modi. Il Male si incarna sempre nel vicino simpatico, nell’uomo qualunque, in ultima analisi in chiunque, noi stessi compresi. E in chi compie il Male non c’è niente di eroico o grande: solo infinita piccolezza.

…e il Male ontologico
Nonostante il Male si incarni in individui qualsiasi, spesso particolarmente meschini, per King il Male esiste come forza a sé stante, che percorre la storia come un ruscello sotterraneo. Anche questo è un tema che ho ritrovato nel resto della produzione di King. Torna la Derry di It, ad esempio, come un luogo contaminato nel profondo dal Male. E Dallas stessa appare come una città corrotta da forze più antiche e potenti dell’uomo, che nell’ombra attendono per ghermirci. Perché se la responsabilità dei gesti resta comunque dell’uomo che li compie – nessuna reale pietà per Oswald o per Dunning, perché potevano comunque scegliere, e non l’hanno fatto – è questa corrente maligna che dà la spinta decisiva, quella che trasforma l’uomo qualunque in un mostro. Il monda appare così un posto in bilico, in cui alcuni individui sono sempre prossimi al punto di rottura, e in cui il Male può manifestarsi all’improvviso. King sembra volerci dire che esistono luoghi che più di altri risentono di questa corrente, posti intrisi fin nel midollo di qualcosa di oscuro. Ed è proprio questa sua visione del male a renderlo il maestro dell’orrore: King è il cantore dell’orrore del quotidiano, del male che si annida in mezzo a noi, in noi. Era così in Notte Buia, Niente Stelle, è così, se possibile con ancor più forza, in questo libro.

Il Destino
E infine, il Destino, da cui davvero non si può prescindere, in un libro che parla di viaggi nel tempo. Ripeto, la responsabilità resta sempre e totalmente del singolo, nessuno dei “cattivi” è in realtà costretto a fare quel che fa. Al contempo, però, il libro sembra suggerire che esiste un piano più grande, del quale siamo tutti chiamati ad essere attori attivi. Le cose vanno come devono andare, insomma, anche se nessuno di noi è una marionetta.
La visione dell’argomento è interessante, e anche il modo in cui il viaggio nel tempo viene presentato. All’inizio, la buca del coniglio che conduce al ’58 sembra la macchina del tempo perfetta: basta tornare indietro, e tutto si ristabilisce esattamente com’era, dunque i guai prodotti nel passato possono facilmente essere aggiustati. Inoltre, il viaggio dura nel presente sempre due minuti. E invece…e invece sta a voi scoprire come e perché le cose non sono così semplici.

In conclusione
Probabilmente è il libro dell’anno, di sicuro uno dei migliori che abbia letto negli ultimi tempi. Ho aperto il 2011 leggendo King, e sono ben lieta di chiudere l’anno con questo 22/11/’63, che è un vero capolavoro. È l’affresco di un’epoca irripetibile della storia, è una straordinaria storia d’amore, è un viaggio al centro del cuore oscuro che ogni uomo ha in sé. È un libro che insegna più di molti manuali di storia, e al tempo stesso ci dice così tanto sulla nostra natura di uomini, sul senso del nostro cammino su questa terra.
Ve lo consiglio dal profondo del cuore, e sono certa che se lo leggerete non ve ne pentirete, ma vi farete un gran regalo.

22 Tags: , , ,

Game of Thrones

Finalmente, eccomi a parlare con un po’ di calma di Game of Thrones. Chi ha visto la mia intervista di martedì, già sa la versione breve del tutto. I tempi televisivi però non mi hanno permesso di approfondire il giudizio, che, ve lo anticipo, è un po’ più complesso.
È innegabile che Game of Thrones sia un prodotto che rasenta la perfezione. La fotografia è qualcosa di straordinario, per dire. Ottima la regia, solida e ben scritta la sceneggiatura. Sulle interpretazioni, abbiamo in realtà un po’ di alti e bassi, ma i bassi non sono poi così bassi e gli alti sono vette assolute. Tyrion è il mio personaggio preferito della saga – io ho letto solo il primo libro, dove per primo intendo in realtà i primi due dell’edizione italiana – evidentemente ho una predilezione per i nani :P (vedi alla voce Ido…), è Peter Dinklage è assolutamente straordinario, lui è Tyrion, anima e corpo. Già solo la sua voce mi ha dato i brividi la prima volta che l’ho sentita, e Sean Bean è Sean Bean, pure lui è un Ned perfetto. Bravissima anche Emilia Clarke, una Dany convincente, forte e fragile al tempo stesso, così come Harry Lloyd, un Viserys magistrale. Mi cascano un po’ invece Cersei (perché quella perenne aria da mal di pancia?) e soprattutto Jon Snow; spiace dirlo, ma Kit Harigton è tipo l’uomo meno espressivo della storia. Il casting, comunque, è in generale di alto livello, anche se Sansa è brava, ma poco bambolina di porcellana e Catelyn ha troppo l’aria da operaia. Menzione di merito alla sigla, una delle cose più belle viste di recente, e per la musica, fantastica, e per l’animazione, meravigliosa. Per altro l’idea di far vedere la mappa del mondo durante la sigla è veramente una genialata.
Tutto perfetto, quindi? M’è piaciuto un sacco e morta là? No. Perché, nonostante l’altissimo livello del tutto e la considerazione che evidentemente non si poteva trasporre A Song of Ice and Fire in modo migliore, la serie non mi ha appassionata davvero. In un paio di episodi mi sono trovata lì a sbadigliare, e comunque il grado di coinvolgimento che ho provato per i vari personaggi non è stato particolarmente elevato. Intendiamoci: mi è piaciuta, ma non mi ha entusiasmata. Il motivo è presto detto: non sono una grande estimatrice dei libri. Non è un caso che mi sia fermata a Game of Thrones e non abbia proseguito. Anche qui: riconosco il genio di Martin, la capacità di creare personaggi credibili, un mondo coerente, ma quel genere lì che fa lui non mi appassiona. L’impressione generale che ho avuto dalla lettura è stata di un’enorme digressione che non arrivava mai al punto. Uno legge il prologo oltre la Barriera e si esalta, pensando che a breve si scatenerà l’inferno. Invece no. Invece l’azione si sposta sugli intrighi intorno al Trono di Spade. Idem con patate per l’Inverno: “winter is coming” ma tutto sommato non arriva mai. Ora, io capisco che le pedine vadano disposte sul campo, e che ci voglia del tempo. I pezzi però, per i miei gusti, si muovo a lentezza straziante. Tutto molto bello, per carità, ma lento. Senza contare che Martin segue da vicino una decina o forse più di personaggi, alcuni dei quali, almeno fin dove sono arrivata io, possono risultare poco interessanti al lettore. Il risultato era che ogni tot pagine dovevo sopportare punti di vista ai quali ero pochissimo interessata. L’altra cosa che non mi piaceva particolarmente era il fatto che l’azione fosse relegata off screen: esempio classico, il primo scontro tra Rob e l’esercito dei Lannister. Ora, che nella serie televisiva la battaglia venga omessa lo posso anche capire: le scene di massa costano, quindi mi sembra ragionevole che per risparmiare le si salti. Ma nel libro francamente non capisco bene perché per una volta non possa vedere eserciti che si picchiano, tanto più che c’è un discreto climax intorno alla suddetta battaglia. Preciso, è probabilmente una questione di gusti personali, non sto parlando di difetti assoluti, ma di “difetti rispetto al mio gusto”, ecco.
Ora, la serie televisiva ricalca in modo incredibilmente fedele il libro di Martin, e dunque ai miei occhi soffre degli stessi problemi. Non succede granché, per dire, alla Barriera, e gli eventi sono diluiti su un lungo arco narrativo. Al contempo, snodi che erano trattati egregiamente nel libro nella serie sono un po’ poco riusciti: non è del tutto chiaro perché Dany si trasformi da vittima del fratello in regina consapevole e forte. Nel libro la cosa era evidente, qui sembra che il punto di svolta sia la scoperta di una nuova posizione del Kamasutra col marito.
Comunque. La bellezza della confezione alla fine la vince, e seguirò sicuramente anche la serie successiva. Però non è una di quelle cose per le quali il mio hype sia particolarmente alto. L’unica cosa positiva è che A Clash of Kings io non l’ho letto, quindi quanto meno la trama sarà nuova, per me.
Perfetto, è tutto. Adesso linciatemi pure :P

P.S.
In coda vi segnalo anche una simpatica intervista che ho fatto con la Testa e il Corpo di Chiara Gamberale, per il programma di Radio2 Io, Chiara e L’Oscuro. La trovate qua.

38 Tags: , , , ,

Segnalazioni varie

Al solito, scusate la lunga assenza. E anche l’ora tarda, direi, ma sono reduce dalla visione dell’ultimo episodio di Game of Thrones, di cui parlerò presto. Anyway, scrivo per tenervi un po’ aggiornati.
Ho fatto un paio di interviste per il Tg1 e il Tg2. Mi spiace, purtroppo non so dirvi esattamente quando andranno in onda, forse quella del Tg2 è già passata, quella del Tg1 potrebbe passare questa domenica. Comunque, se mi vedete da qualche parte, fate un fischio.
La mattina del 13, invece, verso le 8.10 o giù di lì sarò ospite della trasmissione Buongiorno Cielo, che passa, appunto, sul canale satellitare Cielo. Infine, la prossima settimana registrerò un breve podcast per la trasmissione di Radio2 Io, Chiara e l’Oscuro; lo troverete disponibile lì sul sito e sulla pagina Facebook del programma, poi vi fornirò i vari link.
Tutto qua. Settimana prossima è importante anche perché mi dedicherò anima e corpo alla preparazione della fatidica difesa della tesi di dottorato, che avverrà il 19 ad orario imprecisato: si comincia alle 10.30, siamo otto candidati e se si va in ordine alfabetico a me toccherà a notte, ma tant’è, i problemi del fare Troisi di cognome.
Ultima nota, non me ne sono bullata prima, me ne bullo ora: in quel di Milano, durante la presentazione che ho fatto alla fnac, ho conosciuto Paolo Attivissimo. Meraviglie del digitale, l’ho salutato come se tipo lo conoscessi da una vita. Anyway, proprio ieri ho finito di leggere il suo libro Luna? Sì, ci siamo andati!. Ora, il complottismo lunare non mi ha mai sfiorata manco di striscio per ovvie ragioni, e diciamo che nella mia testa si colloca nella scala di assurdità giusto sotto le scie chimiche. Ma diciamo che capisco che un profano possa lasciarsi tentare. In passato mi lasciai vagamente interessare dal complottismo sull’11/9, poi mi sono informata e morta lì. Ma, ripeto, posso capire che uno possa avere dei dubbi. Comunque, pur non essendo una che andava convinta di alcunché, ho trovato il libro veramente un sacco piacevole. Certe cose le sapevo, soprattutto quelle che attengono più specificamente al mio lavoro – per un po’ ho avuto a che fare coi satelliti, per dire, e ho amici che ci lavorano tutt’oggi e mandano astronauti nello spazio – certe altre no, ed è stato un piacere scoprirle. Ce n’è per tutti: aneddoti sulla corsa allo spazio, stralci di storia del periodo, curiosità di vario genere, ma anche spiegazioni chiare e divertenti su problematiche fisiche, chimiche, ingegneristiche. L’andamento a domande e risposte della seconda parte del libro rende il tutto molto snello e divertente. E poi ne viene fuori l’immagine netta e precisa di un momento storico, forse l’unico momento che davvero invidio alla generazione prima della mia: avrei pagato per vedere la diretta dell’uomo che metteva piede sulla luna. Mi accontento comunque dei neutrini superluminali, sempre se altri esperimenti confermeranno la cosa. Ma qualcuno dirà che era un complotto dei fotoni :) .
Insomma, io ve lo consiglio: è per gente curiosa, e curiosi lo siamo un po’ tutti, no? È la curiosità che muove la scienza, e in ultima analisi il mondo.
Bon, vi lascio, sperando di essere un po’ più presente la prossima settimana.

12 Tags: , , , ,

Imaginaerum

Ho conosciuto i Nightwish grazie a – indovina indovina – i miei libri. Indirettamente, eh? È che i miei libri mi hanno fatto conoscere Melissa, la creatrice del mio forum ufficiale, e Valberici. La prima mi regalò una compilation di canzoni metal, tra cui abbondavano quelle dei Nightwish, e già lì capii che la cosa poteva interessarmi. Molto. Poi, tipo nel 2006, per il mio compleanno Val mi regalò Dark Passion Play. E lì, lo dico, mi innamorai proprio. Ancora oggi lo sento piuttosto spesso.
Vabbeh, a farla breve, ho preordinato Imaginaerum, cioè, preordinato, mai fatto manco per i Muse. Ieri ho avuto i file sull’Air, sabato sera, rigorosamente al buio, mi sono sentita tutto il disco.
Ora, io dei Nightwish conosco sei canzoni del vecchio corso, e due album del nuovo, per cui non credo di poter dare giudizi granché esaustivi, però Imaginaerum e Dark Passion Play m’hanno fatto la stessa impressione. Li senti e sono proprio massicci. Pensi che chi li ha scritti ci ha messo dentro veramente tutto tutto tutto, che è tipo l’opera della vita, e dopo il nulla, perché che altro vuoi dire? E invece passano due anni ed esce il disco successivo. In cui dentro c’è di nuovo tutto tutto tutto, e meglio di così non credo, no. E via ad libitum, suppongo. Che dire. Tanto di cappello a Tuomas Holopainen. Questo per dire che Imaginaerum è qualcosa che ti investe, e ti chiede un coinvolgimento estremo. E, francamente, tutto il resto del power metal o come si chiama a fronte ci fa una figura meschina.
Questo non vuol dire che non ci siano cose che non mi sono piaciute. Trovo nel complesso il disco un po’ discontinuo, a volte eccessivamente aderente alla tradizione del gruppo – almeno per quel che conosco -, altre troppo diversa, troppo…boh, sperimentale, direi. Ad esempio, si inizia proprio nel solco di Dark Passion Play, e le prime due canzoni potevano tranquillamente stare nell’album precedente. I Want my Tears Back è proprio i Nightwish come uno se li immagina, è proprio quel che ti aspetti, così come Turn Loose the Marmaids (che però ad un certo punto sconfina inaspettatamente nel western). Intendiamoci, ad avercene di roba così. “Tradizionale”, ma splendida. Storytime è un capolavoro, poco da dire, per musica e testo, roba da sparasela fino a farsi sanguinare le orecchie. Va detto però che alcune cose ricordano proprio pezzetti di canzoni vecchie, e questo…uhm…spiace.
Poi, invece, c’è roba che ti lascia abbastanza spiazzato. Come il jazz di Slow, Love, Slow. O, anche se in misura minore, certe dissonanze di Ghost River, che non è esattamente una canzone di facile ascolto. Scaretale ancora più strana, sembra una canzone dei Muse di Citizen Erased o Unnatural Selection, che partono in un modo, poi stacco, canzone diversa, poi si ritorna al tema principale. Song of Myself non so, cinque minuti di parlato mi lasciano un po’ così, devo rifletterci.
Nota di merito per Annette Olsen. Sarà un’eretica, sarò che li ho conosciuti più a fondo con la sua voce, ma la preferisco a Tarja Turunen. Ha indubbiamente una voce più “banale” rispetto a quest’ultima, ma molto più duttile. E infatti, è cambiata parecchio tra questo lavoro e il precedente. Assume accenti molto adeguati a questi testi e queste musiche. Il rovescio della medaglia è che la voce in questo disco è più superflua di quanto non fosse nel precedente. Ho comprato la versione Deluxe, per cui ci sono anche tutte le canzoni in versione strumentale – come del resto nella versione che ho di Dark Passion Play -. Ecco, se nel disco precedente la musica da sola restava notevole, ma si sentiva che mancava qualcosa, qui la musica sta veramente in piedi da sola, ma benissimo.
Insomma, un disco disomogeneo, ma nel complesso di alto livello. Voglio dire, è il rischio che corri quando produci qualcosa di così denso: se ci infili dentro tutto, è ovvio che qualcosa ci sta un po’ a fatica. Però, che dire, affascina, coinvolge, e mi dà delle idee, che non ci sta per niente male. Credo di essere pronta per andarmeli a sentire anche dal vivo.
Vi lascio con una citazione da A Song of Myself, che dice veramente tutto

Paper is dead without words
ink idle without poem
all the world dead without stories

23 Tags: , , ,

Harry Potter e i Doni della Morte 2 – La Vendett…ah, no, quello era un altro film

Ieri sono andata a vedere Harry Potter. Penso sia la prima volta che vado a vedere un film il giorno dell’uscita. Non che ci tenessi così tanto: è che per ragioni logistiche era meglio andarci il primo possibile, se non volevo perdermelo.
Vi avviso che ci saranno degli spoiler, per cui, se non avete letto il libro o se non avete visto il film, leggete a vostro rischio e pericolo. Premetto anche che il libro l’ho letto una sola volta quattro anni fa, e ricordo veramente poco, per cui prendete con le pinze i confronti con la pagina stampata che farò.
Dunque, direi che tanto il film precedente era lento, basato più sulla costruzione dell’atmosfera e sull’indagine delle psicologie, tanto questo è azione pura. Avrei preferito un mix un po’ più omogeneo, ma se ben ricordo anche il libro è fatto così, e dunque c’è poco da lamentarsi. Per il resto, il film tiene botta, gestisce bene le varie scene madri, si fa guardare nonostante la lunghezza e ha anche una serie di bei momenti.
Mi è piaciuto molto l’inizio. In fin dei conti, la parte 1 e la 2 sono sostanzialmente un unico film, e quindi è giusto che non ci siano riassunti, e che anzi ci sia la mera riproposizione dell’ultima scena del film precedente. Ma non è tanto questo ad essermi piaciuto, quanto quelle brevi inquadrature iniziali di Piton. Piton è probabilmente il mio personaggio preferito di tutta la saga: a differenza di altri non ho mai smesso di pensare che avesse le sue buone ragioni per fare quel che fa, e anzi ero certa che avesse ucciso Silente dietro esplicita richiesta di quest’ultimo. Ecco, trovo che aprire su di lui abbia il suo bel perché: in fin dei conti è la figura più forte del libro, il plot twist che lo riguarda è fondamentale nell’economia della storia. E insomma, quell’inquadratura iniziale ce lo mostra in tutta la sua desolante solitudine: il vero eroe di tutto il cucuzzaro, odiato da tutti, disprezzato, e il cui coraggio resterà tutto sommato misconosciuto. Per sua volontà, per carità, ma pur sempre misconosciuto.
Splendide anche le scene del suo passato, soprattutto quelle dell’infanzia. Le ho trovate da brividi. Poi il flashback si perde un pochino, forse perché un po’ troppo lungo, per tornare ai fasti iniziali col montaggio alternato di Piton che parla con Silente di Harry e Piton che trova il cadavere di Lily. E quel pezzo, splendido, riportato identico a com’è nel libro: Piton che evoca il patronus e Silente che gli fa “After all this time?”, e Piton risponde con un’unica, lapidaria parola: “Always…”. Più passa il tempo più penso che il lavoro dello scrittore sia più che altro di sottrazione. Una scrittura efficace non ha bisogno di troppe parole, ma di poche e dense battute. Il lavoro sta tutto là: trovarle, e renderle più affilate, più ricche di senso che mai. E quell’always da questo punto di vista è magistrale. Onore al merito di Alan Rickman, ovviamente, che è un attore straordinario; la mobilità del suo volto nelle scene con Lily fa da perfetto contraltare alla gelida compostezza che ha sempre avuto nell’arco di tutti e sei i film precedenti.
Capitolo morti. Come ben sapete, non ho mai apprezzato il modo sbrigativo con cui la Rowling ha gestito le morti dell’ultimo libro: ok, siamo in guerra, la gente muore a pacchi, ma che un personaggio come Lupin se ne vada via così, con due parole, senza che neppure ne vediamo la morte e senza una scena che lo pianga decentemente, ecco, mi lascia l’amaro in bocca.
Il film sceglie di non andare oltre il libro, per cui le morti di Fred, Tonks e Lupin avvengono comunque fuori scena. Però c’è una scena che è dedicata loro. Poco, per carità, un’inquadratura, che però ci mostra il dolore dei vivi, quello di Harry Potter, e in qualche modo dà un significato a quelle morti. Avrei preferito qualcosa di più esplicito, almeno per Lupin, che tutto sommato era l’ultima figura paterna di Harry, ma è già qualcosa.
Quel che mi ha lasciata perplessa è il 19 anni dopo: già nel libro quella scena non mi era piaciuta particolarmente, non so perché; probabilmente avrei preferito sapere cosa succedeva nell’immediato, piuttosto che in un futuro così remoto. Comunque, nel film la cosa viene peggiorata dalla faccia da mal di pancia di Harry, Ron, Hermione e Ginny. Uno si domanda: ma che diavolo l’avete sconfitto a fare Voldemort che 19 anni dopo la sua morta state ancora tutti lì a deprimervi? Davvero non si capisce perché i personaggi debbano essere così malinconici, sembrerebbero avere una vita felice, e, ok, i morti, ma sono morti di diciannove anni prima, si spera che uno in diciannove anni se ne faccia una ragione.
Per il resto, rimango dei buchi: lo specchio, segato dai film precedenti e miracolosamente recuperato qui senza uno straccio di spiegazione, elementi della biografia di Albus Silente buttati lì nella prima parte del film e dimenticati per strada, e, come nel libro, del resto, i doni della morte che non si capisce bene a cosa siano serviti, a parte la Elder Wand, ovviamente.
Ultima nota di demerito, lo vado dicendo da parecchio tempo ma me ne convinco sempre più: la versione cinematografica de Il Signore degli Anelli ha ammazzato il cinema fantastico. È che il risorgimento del fantasy a cinema è iniziato troppo col botto: i film di Peter Jackson sono dei capolavori sotto molti punti di vista, e hanno segnato da allora lo standard per i film a venire. Standard che purtroppo non tutti sono in grado di raggiungere. Il risultato? Il 90% delle pellicole fantasy uscite dopo la trilogia di Jackson la plagiano nelle battaglie. Pensateci. Dal 2002 è tutto un fiorire di battaglie spiccicate al fosso di Elm, almeno nella messa in scena. L’arrivo dei Mangiamorte a Hogwarts sembra l’arrivo degli Uruk-Hai a Helm. E, non so voi, ma io mi sono scocciata di battaglie tutte uguali, di regie dinamiche con telecamere a volo d’uccello sugli eserciti schierati, di miriadi di fuochi che illuminano il buio. Forse sarebbe ora di prendersi una pausa e ripensare il cinema fantastico, non lo so, ma qualche idea nuova nella resa delle battaglie non ci starebbe per niente male.
Comunque, nel complesso io l’ho trovato un buon film, che non getta via i buoni spunti del libro, ma non riesce neppure ad andare oltre la pagina stampata, probabilmente per troppa filologia. Ma lo sapete come la penso sulle trasposizioni cinematografiche, e non a caso Il Prigioniero di Azkaban è probabilmente il mio film preferito.
Ah, dimenticavo, il bacio tra Ron e Hermione: secondo me, molto buttato lì. Sono sei anni che i due ci girano intorno, a tutto si conclude con questo bacetto nella Camera dei Segreti. Non saprei dire perché realmente non mi è piaciuta, ma non mi ha detto niente.
Anyway, questi sono i miei due cents sulla questione. Mi rendo conto che per molti di voi – che siete ahimé più giovani di me… – l’uscita di questo film è stata un evento epocale, ma io avevo vent’anni quando uscì il primo Harry Potter, e se devo pensare ad un film che davvero ha segnato il mio immaginario, mi viene in mente il già stracitato Signore degli Anelli. Però devo dire che questa lunga cavalcata cinematografica tutto sommato ha colpito anche me, e un po’ di nostalgia per la fine di una saga così lunga resta. Ora la parola a voi: visto? Piaciuto? I commenti sono tutti vostri.

56 Tags: , ,