Visto che siamo sotto le feste, e sulla carta tutti dovremmo avere più tempo per lo svago (tutti tranne me, io non ho mai tempo, per definizione), inizio una piccolissima serie di post in cui vi consiglio roba da vedere/leggere. Per la verità adesso ho in mente solo due cose, ma magari nel prosieguo ne troverò altre.
Dunque, ho finito da pochi giorni 22/11/’63, l’ultimo libro di Stephen King. Piccola premessa: non sono una fan sfegata di King. Di lui ho letto It, che mi è piaciuto mediamente, Il Gioco di Gerald, che invece avevo apprezzato di più, e Notte Buia, Niente Stelle, che mi aveva davvero catturata. Nonostante il mio giudizio su quanto di suo ho letto sia più che positivo, non sono una fan. Solo che, circa un paio di settimane fa, mi sono imbattuta appunto in 22/11/’63, e…niente, è così bello da far male, e sono sicura che, se siete lettori forti, avete capito cosa intendo.
Ci sarebbe da dirne a pacchi sull’ultima fatica del Re. Io mi concentrerò su un paio di punti che mi hanno particolarmente colpita.
Il gusto per l’affabulazione
La prima cosa che colpisce di King, è la straordinaria capacità di narrare. Le sue storie sono dotate di quella forza dirompente e irresistibile che solo i grandi narratori sono in grado di imprimere. Inizi a leggere, ed entri in un altro mondo. Si viene catturati, non si riesce letteralmente a staccare gli occhi dalla pagina. E questo indipendentemente dall’argomento che King sta trattando, perché lui saprebbe avvincerti anche con la lista della spesa. Saper raccontare è un dono, o ce l’hai o non ce l’hai, e lui ce l’ha, al massimo grado. I personaggi diventano rapidamente i tuoi migliori amici, ti interessa di loro, ti sembra di conoscerli da sempre, vivi e soffri con loro. Appena apri le pagine, non ha più alcuna importanza dove tu sia e cosa tu stia facendo: tempo un paio di parole, e sei – nel caso di 22/11/’63 – nell’America degli anni Sessanta.
Io questa capacità “artigianale” – e sapete che artigianale in questo contesto ha per me un significato estremamente positivo – io gliela invidio dal profondo. Tra l’altro, da grande qual è, King è perfettamente consapevole dei suoi strumenti, nonché di quel che sta facendo, o non direbbe quanto segue, per tramite del suo protagonista.
“Da insegnante, ho sempre insistito sulla semplicità. Che si tratti di narrativa o di saggistica, conta solo una domanda, e una risposta: «Cosa accade?» chiede il lettore. «Questo… E questo… E anche questo», risponde lo scrittore.
Ecco. Io questa cosa qui probabilmente la scriverò a caratteri cubitali sul soffitto della mia stanza da lettore. Due righe, e c’è riassunto quel che fa uno scrittore di genere. Non c’è veramente altro da aggiungere.
La banalità del Male…
Per quanto possa capirne, in base ovviamente al mio vissuto, a me sembra che il libro porti avanti un discorso per nulla banale sul Male. Certo, lo si può considerare un libro di fantascienza, anche se gli elementi del genere stanno tutti in apertura e in chiusura del libro, o, forse, più a ragione, una struggente storia d’amore. Ma sotto sotto, si parla di Male, come del resto in tutti gli altri libri di King che ho letto. In particolare, della banalità del Male. Male incarnato innanzitutto da Oswald. Un ometto, per come ce lo dipinge King – e per come con ogni probabilità era – compresso da una madre ossessiva, ciecamente idealista, incapace di ribellarsi davvero, vigliacco. E questo acuisce l’orrore del suo gesto. Kennedy non è morto in seguito ad un complotto, non è stato colpito da un grand’uomo. Kennedy è stato ucciso da un piccolo uomo, perché quasi sempre sono i piccoli uomini ad essere capaci di gesti tremendi. Tutto il resto della fauna del libro è popolato da un’ampia galleria di cattivi il cui tratto saliente è la meschinità: meschino è Frank Dunning, la simpatica canaglia rubacuori agli occhi del mondo, capace di sterminare l’intera famiglia a colpi di martello, meschino è un altro personaggio, di cui taccio il nome per non fare spoiler – e in un libro così il gusto per la trama fa parte del godimento complessivo, e chi sono io per rovinarlo a chicchessia? – all’apparenza un nevrotico incapace di nuocere, che invece trova la forza per vendicarsi sul mondo nel peggiore dei modi. Il Male si incarna sempre nel vicino simpatico, nell’uomo qualunque, in ultima analisi in chiunque, noi stessi compresi. E in chi compie il Male non c’è niente di eroico o grande: solo infinita piccolezza.
…e il Male ontologico
Nonostante il Male si incarni in individui qualsiasi, spesso particolarmente meschini, per King il Male esiste come forza a sé stante, che percorre la storia come un ruscello sotterraneo. Anche questo è un tema che ho ritrovato nel resto della produzione di King. Torna la Derry di It, ad esempio, come un luogo contaminato nel profondo dal Male. E Dallas stessa appare come una città corrotta da forze più antiche e potenti dell’uomo, che nell’ombra attendono per ghermirci. Perché se la responsabilità dei gesti resta comunque dell’uomo che li compie – nessuna reale pietà per Oswald o per Dunning, perché potevano comunque scegliere, e non l’hanno fatto – è questa corrente maligna che dà la spinta decisiva, quella che trasforma l’uomo qualunque in un mostro. Il monda appare così un posto in bilico, in cui alcuni individui sono sempre prossimi al punto di rottura, e in cui il Male può manifestarsi all’improvviso. King sembra volerci dire che esistono luoghi che più di altri risentono di questa corrente, posti intrisi fin nel midollo di qualcosa di oscuro. Ed è proprio questa sua visione del male a renderlo il maestro dell’orrore: King è il cantore dell’orrore del quotidiano, del male che si annida in mezzo a noi, in noi. Era così in Notte Buia, Niente Stelle, è così, se possibile con ancor più forza, in questo libro.
Il Destino
E infine, il Destino, da cui davvero non si può prescindere, in un libro che parla di viaggi nel tempo. Ripeto, la responsabilità resta sempre e totalmente del singolo, nessuno dei “cattivi” è in realtà costretto a fare quel che fa. Al contempo, però, il libro sembra suggerire che esiste un piano più grande, del quale siamo tutti chiamati ad essere attori attivi. Le cose vanno come devono andare, insomma, anche se nessuno di noi è una marionetta.
La visione dell’argomento è interessante, e anche il modo in cui il viaggio nel tempo viene presentato. All’inizio, la buca del coniglio che conduce al ’58 sembra la macchina del tempo perfetta: basta tornare indietro, e tutto si ristabilisce esattamente com’era, dunque i guai prodotti nel passato possono facilmente essere aggiustati. Inoltre, il viaggio dura nel presente sempre due minuti. E invece…e invece sta a voi scoprire come e perché le cose non sono così semplici.
In conclusione
Probabilmente è il libro dell’anno, di sicuro uno dei migliori che abbia letto negli ultimi tempi. Ho aperto il 2011 leggendo King, e sono ben lieta di chiudere l’anno con questo 22/11/’63, che è un vero capolavoro. È l’affresco di un’epoca irripetibile della storia, è una straordinaria storia d’amore, è un viaggio al centro del cuore oscuro che ogni uomo ha in sé. È un libro che insegna più di molti manuali di storia, e al tempo stesso ci dice così tanto sulla nostra natura di uomini, sul senso del nostro cammino su questa terra.
Ve lo consiglio dal profondo del cuore, e sono certa che se lo leggerete non ve ne pentirete, ma vi farete un gran regalo.