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Fuori

Questa settimana siamo stati tutti male. Io, Giuliano e Irene. Sbattuti a letto per tutto il tempo, ciondolanti tra le coperte, il divano, e il tavolo della cucina.
Col cervello a mezzo servizio, senza contare la prole in mood fastidioso in giro per casa, scrivere mi era impossibile. L’unica cosa che potessi fare era guardare la tv o votarmi a santo Internet. Dato che in camera da letto non ho Sky, ho passato quattro giorni a vagare online come un’anima in pena. E di cosa si parla in questi giorni? Soltanto di elezioni, ovvio. Tizio voterà la fiducia a Caio? E se non lo fa? Sì, ma se Sempronio si alza durante le votazioni…
Tutta la giornata così, a non far altro che leggere questa roba qui, attaccando briga con chiunque, mossa da una specie di coazione a dire la propria, sempre e comunque.
È stato abbastanza allucinante. Una specie di discesa agli inferi dell’inutilità: tanto, possiamo stare a discutere da qui all’eternità, la chiacchiere stanno sempre a zero, la verità non esiste se non quella che stabilirà il parlamento tra qualche giorno. Fine.
Con questo non voglio dire che la discussione politica sia inutile. Ma dodici ore al giorno di rete impazzita è più di quanto una persona normale possa tollerare. La rete è tutto e il contrario di tutto, e il posto ove eminentemente si capisce che parlare, parlare, parlare non porta da nessuna parte. Sebbene serva, ad un certo punto. Ma non così tanto. E non senza un po’ d’azione.
Così, stamattina ho preso le quattro forze che mi sono rimasta e sono andata al mercato che fanno da un paio di settimane davanti all’asilo di Irene. Pane, uova bianche, borraggine, mele annurche, formaggi di ogni genere e tipo. Un bel cielo bianco compatto, un po’ di gente in giro, freddo e un’atmosfera rilassata. Un bagno di realtà. Oltre che un po’ di aria fresca per i miei polmoni, che ogni tanto ci vuole.
Ora vedo tutto sotto un’altra prospettiva. Tornata a casa, c’era anche il mio yukata che mi aspettava. Tutto bene, insomma.
È che a volte occorre farsi una vita fuori.

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Risi e bisi

Mi rendo conto che di recente questo blog è pieno di post vagamente moralistici in forma di simil-invettiva. Forse sto invecchiando troppo rapidamente, non so. Ma oggi ve ne tocca un altro. Eh sì.
Come sapete, vivo in modo abbastanza intenso i social network. Ho un rapporto di amore-odio con Facebook, e un discreto apprezzamento per Twitter. Semplicemente, il secondo sono riuscita a tenerlo sotto controllo (seguo 100 persone, tutta gente che mi interessa, ho una timeline che mi piace molto), il secondo mi è esploso tra le mani. Comunque. Ho notato una cosa: che questa storia dei post in 140 caratteri, come ho già accennato qualche giorno fa, stimola l’Oscar Wilde che c’è in noi. Tutti stan lì con la fregola da aforisma, e, dato che lo spazio è piccolo, si presta benissimo alla battuta arguta, che è quella che quasi tutti gli utenti ricercano. Il risultato è che un buon 70% di Facebook (parlo di FB perché lì seguo un miliardo di persone, il campione è più ampio, ma molti stati vengono da Twitter) è pieno di battutine più o meno riuscite, di sarcasmo e cinismo. La cosa che mi inquieta è che ci sono battute su tutto. Ma proprio tutto tutto.
Si dimette il Papa. Via di meme, scherzi, battute più o meno salaci.
Pistorius uccide la fidanzata. Via di osservazioni divertite, scherzi e crasse risate.
Il problema è che poi quasi mai alla reazione di pancia segue una qualche riflessione più approfondita. Ma è davvero lecito ridere proprio di tutto?
Mi rendo conto che la questione è annosa e vecchia. Rispunta fuori ad ogni passo, ogni volta che qualcuno si sente offeso da una battuta. E via di inappropriate citazioni di Voltaire, inni alla libertà di espressione e via così. E questi discorsi, in passato, li ho fatti anch’io. Solo che ora mi viene da ripensarci. E, certo, la libertà di espressione è una conquista assolutamente fondamentale, qualcosa da difendere con le unghie e coi denti. Ma che una cosa si possa fare non significa che poi la si debba fare. Libertà è anche capire consapevolmente quando fermarsi.
Prendiamo il caso Pistorius. Ma che senso ha ridere su una ragazza di ventinove anni uccisa a colpi di pistola dal fidanzato? Serve a qualcuno, al di là della risata momentanea? Non finisce per sminuire la gravità dell’evento? Ed è necessario diminuirne la portata?
Voglio dire, ridere del potere è giusto, è anzi necessario. La democrazia funziona anche se non si tiene per sacro il potere, ma lo si destruttura con una risata che ne svela tutta la meschinità. Ma ridere della violenza sulle donne, dell’ennesimo femminicidio – perché di questo sembra si tratti, del “delitto passionale”, ossia di un uomo che ritiene una donna sua personale proprietà – serve alla causa?
Mi si dirà: la risata non deve servire. A volte il riso è solo riso. Ti tira su la giornata, e si passa avanti. Ecco, a me spaventa proprio questo. Che leggo di Pistorius, mi faccio una risata, e passo avanti. Come non ci fosse un problema nella nostra società, come non fosse necessario interrogarsi sul perché di certi gesti.
E allora no, non credo che si possa ridere di tutto. O meglio, possiamo anche ridere, ma poi dobbiamo anche riflettere, o facciamo il gioco del nemico: credere che tutto sia uguale, che nulla conti.
Due sono i problemi della rete, per come è strutturata oggi: la rapidità e l’eterogeneità. Dentro c’è di tutto, spesso giustapposto senza soluzione di continuità, in un marasma in cui è impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è importante dalle sciocchezze: le foto dei gattini di fianco al bimbo dilaniato dalle bombe. E proprio perché c’è tanta roba, la fruizione deve essere rapida, epidermica. E anche le battute che ho letto in questi giorni lo sono. Non lasciano spazio ad una riflessione. Vivono del qui e dell’ora, e non lasciano spazio per altro.
Chissà, forse è solo colpa delle battute. Perché ce ne sono certe, che pur trattando di vita e di morte, di santi e fanti, riescono a stimolare una riflessione, a capovolgere la nostra visione delle cose. Chissà. Intanto, mi piacerebbe che certa gente, prima di sfornare l’aforisma delle 11.00, si fermasse qualche secondo a pensare a quel che sta dicendo, a come lo sta facendo, e al contesto. Ma, si sa, la rapidità è più divertente, e costa molta meno fatica.

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Yogurt

Sono un po’ preoccupata. Sto lentamente ma inesorabilmente maturando un senso di generale noia nei confronti della rete. Non credo sia questa la ragione per la quale frequento un po’ meno del passato questo posto, ma è un fatto che da un po’ di tempo, quando la sera mio dedico ai miei trenta minuti di svuotamento mente a mezzo rete, non so neppure più su quali siti navigare. Esclusi quei due o tre blog che seguo con piacere e passione, e ovviamente gli intramontabili siti che parlano di malattie mortali dalle quali ritengo di essere affetta un giorno sì e l’altro pure, il resto, come diceva Califano, è noja.
Bazzico il web dalla bellezza di dieci anni, ormai. Ricordo i primi tempi in cui me ne concedevo tipo dieci minuti al giorno, perché la connessione costava e non volevo gravare troppo sul bilancio familiare. All’epoca sembrava tutto bellissimo. Ricordo la passione smodata per i forum, che mi teneva incollata allo schermo a dibattere dell’ultima, favolosa puntata de I Cavalieri dello Zodiaco fino a notte fonda. Non mi sembrava vero di poter parlare di questa roba anche con gente che non fosse Giuliano.
Poi i forum m’hanno iniziato a rompere le scatole, e allora vai di blog. Grande passione anche lì, bello, fantastico, questa è la forma di comunicazione del domani…Poi niente, noia anche là. E adesso mi ritrovo a sbuffare mentre vagolo online, alla ricerca di qualcosa di interessante, o anche semplicemente nuovo rispetto al solito. Perché il dramma è questo: tutto si ripete identico a se stesso. Prendiamo la morte di Dalla (ma potrei dire, la Houston, o la Winehouse, o Micheal Jackson, uno qualsiasi che è morto negli ultimi cinque anni). Cominciano i primi omaggi, sui quali si fiondano rapidamente tutti anche quelli che non sanno chi cappero era Dalla ma comunque, a scanso di equivoci, cambiano l’avatar su Facebook. A questo punto, e sono passate tipo cinque ore dalla notizia del trapasso, arrivano quelli che “vi ricordate di Dalla solo ora, sono dieci anni che lo ignorate, mi fate schifo”, poi quelli “io lo ricorderò tra dieci giorni, quando non farà più figo”, infine gli ultimi: “ci avete scassato le palle co’ ‘sto Dalla, a me manco piaceva”. Il copione è così collaudato che avrei potuto predire a che ora ogni tipologia di internauta si sarebbe palesata.
Ormai, per me, è più o meno tutto così. Non c’è tweet che legga per il quale non mi salgano alle dita commenti acidi. Non c’è polemica in rete che non mi faccia sbuffare. È che credo che la rete sia la dimostrazione che tutti hanno una gran voglia di parlare, e nessuno di stare a sentire, probabilmente me compresa. Infatti ho un blog. E, tra l’altro, la società e le sue imposizioni sicuramente hanno fatto danni a palate, ma a volte ci hanno anche reso apparentemente persone migliori. Infatti, quando salta qualche convenzione sociale – e in rete salta il dover mettere la faccia sotto le nostre opinioni – improvvisamente si riveliamo per quel che siamo: gente meschina. Senza contare che in rete la tuttologia la fa da padrona: siamo tutti esperti di tutto perché abbiamo letto una pagina di Wikipedia. Ripeto, io per prima, eh?
Ora, non lo so se è un periodo, o se davvero tornerò a darmi al ricamo la sera :P . Forse è solo lunedì mattina e sono devastata dal bruciore di stomaco (tempi duri, quelli primaverili, per noi che soffriamo di problemi digestivi…). Ma forse è anche il momento per una riflessione critica sulla rete, su quel che è, su quello che vogliamo diventi. Perché, non lo so, ho l’impressione che stiamo per raggiungere un vicolo cieco.

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