Mi rendo conto che di recente questo blog è pieno di post vagamente moralistici in forma di simil-invettiva. Forse sto invecchiando troppo rapidamente, non so. Ma oggi ve ne tocca un altro. Eh sì.
Come sapete, vivo in modo abbastanza intenso i social network. Ho un rapporto di amore-odio con Facebook, e un discreto apprezzamento per Twitter. Semplicemente, il secondo sono riuscita a tenerlo sotto controllo (seguo 100 persone, tutta gente che mi interessa, ho una timeline che mi piace molto), il secondo mi è esploso tra le mani. Comunque. Ho notato una cosa: che questa storia dei post in 140 caratteri, come ho già accennato qualche giorno fa, stimola l’Oscar Wilde che c’è in noi. Tutti stan lì con la fregola da aforisma, e, dato che lo spazio è piccolo, si presta benissimo alla battuta arguta, che è quella che quasi tutti gli utenti ricercano. Il risultato è che un buon 70% di Facebook (parlo di FB perché lì seguo un miliardo di persone, il campione è più ampio, ma molti stati vengono da Twitter) è pieno di battutine più o meno riuscite, di sarcasmo e cinismo. La cosa che mi inquieta è che ci sono battute su tutto. Ma proprio tutto tutto.
Si dimette il Papa. Via di meme, scherzi, battute più o meno salaci.
Pistorius uccide la fidanzata. Via di osservazioni divertite, scherzi e crasse risate.
Il problema è che poi quasi mai alla reazione di pancia segue una qualche riflessione più approfondita. Ma è davvero lecito ridere proprio di tutto?
Mi rendo conto che la questione è annosa e vecchia. Rispunta fuori ad ogni passo, ogni volta che qualcuno si sente offeso da una battuta. E via di inappropriate citazioni di Voltaire, inni alla libertà di espressione e via così. E questi discorsi, in passato, li ho fatti anch’io. Solo che ora mi viene da ripensarci. E, certo, la libertà di espressione è una conquista assolutamente fondamentale, qualcosa da difendere con le unghie e coi denti. Ma che una cosa si possa fare non significa che poi la si debba fare. Libertà è anche capire consapevolmente quando fermarsi.
Prendiamo il caso Pistorius. Ma che senso ha ridere su una ragazza di ventinove anni uccisa a colpi di pistola dal fidanzato? Serve a qualcuno, al di là della risata momentanea? Non finisce per sminuire la gravità dell’evento? Ed è necessario diminuirne la portata?
Voglio dire, ridere del potere è giusto, è anzi necessario. La democrazia funziona anche se non si tiene per sacro il potere, ma lo si destruttura con una risata che ne svela tutta la meschinità. Ma ridere della violenza sulle donne, dell’ennesimo femminicidio – perché di questo sembra si tratti, del “delitto passionale”, ossia di un uomo che ritiene una donna sua personale proprietà – serve alla causa?
Mi si dirà: la risata non deve servire. A volte il riso è solo riso. Ti tira su la giornata, e si passa avanti. Ecco, a me spaventa proprio questo. Che leggo di Pistorius, mi faccio una risata, e passo avanti. Come non ci fosse un problema nella nostra società, come non fosse necessario interrogarsi sul perché di certi gesti.
E allora no, non credo che si possa ridere di tutto. O meglio, possiamo anche ridere, ma poi dobbiamo anche riflettere, o facciamo il gioco del nemico: credere che tutto sia uguale, che nulla conti.
Due sono i problemi della rete, per come è strutturata oggi: la rapidità e l’eterogeneità. Dentro c’è di tutto, spesso giustapposto senza soluzione di continuità, in un marasma in cui è impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è importante dalle sciocchezze: le foto dei gattini di fianco al bimbo dilaniato dalle bombe. E proprio perché c’è tanta roba, la fruizione deve essere rapida, epidermica. E anche le battute che ho letto in questi giorni lo sono. Non lasciano spazio ad una riflessione. Vivono del qui e dell’ora, e non lasciano spazio per altro.
Chissà, forse è solo colpa delle battute. Perché ce ne sono certe, che pur trattando di vita e di morte, di santi e fanti, riescono a stimolare una riflessione, a capovolgere la nostra visione delle cose. Chissà. Intanto, mi piacerebbe che certa gente, prima di sfornare l’aforisma delle 11.00, si fermasse qualche secondo a pensare a quel che sta dicendo, a come lo sta facendo, e al contesto. Ma, si sa, la rapidità è più divertente, e costa molta meno fatica.