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Istantanee da Torino 2013

Dieci anni
Atterro al mio decimo Salone del Libro di Torino quasi in orario. E c’è anche il sole.
C’era il sole anche dieci anni fa. Pesavo diciotto chili più di adesso, non sapevo neppure esistessero le presentazioni dei libri, giacché, pur essendo una forte lettrice, non ne avevo mai vista una vita mia, e avevo passato tutto il tempo del viaggio a domandarmi se dovessi presentare un discorso o cosa.
Adesso come allora, non ho molto tempo per riflettere: arrivo, e mi getto nel turbine. Torino è così: una sospensione del normale flusso degli eventi, una bolla atemporale infilata nel quotidiano, un gorgo che ti attira e ti risputa fuori dopo due, tre, quattro giorni di fuoco. Un paio di incontri di lavoro, qualche intervista, e via al Lingotto.
Dieci anni fa, eravamo io, Sandrone e Marco Giusti. Essendo io una sconosciuta ventitreenne in sovrappeso, per di più autrice di fantasy, genere vituperatissimo, ci misero giustamente in un angolo della zona dedicata alla letteratura per ragazzi, praticamente davanti ad una specie di bancarella frequentata da frotte di bambini urlanti. Davanti a noi, una ventina di sedie, piene per metà. Farsi sentire era un’impresa, anche coi microfoni. In prima fila c’era seduto un mio detrattore, ed essendo io giovane e parecchio inesperta, il suo articolo mi aveva ammosciata tantissimo. Diciamo che con gli anni ho appreso a prendere un po’ più alla leggera le critiche negative, ma all’epoca non ero così zen.
Nonostante tutto, andò bene. Negli anni precedenti mi ero allenata a parlare in pubblico durante le assemblee d’istituto a scuola: una volta me ne avevano dette di ogni perché avevo espresso la mia contrarietà a continuare un’occupazione di cui stentavo a capire il senso. Figurarsi se adesso avevo paura di dieci persone e duecento bambini urlanti dietro. E andò bene. Fiammetta Giorgi mi disse che toccava ne facessi altre, perché era una cosa che mi riusciva, e per i due, tre anni successivi stetti sempre in giro, un fine settimana sì e uno no.
Oggi entro nell’area Bookstock e mi defilo. Nonostante non abbia una faccia conosciutissima, e non abbia foto sui miei libri, chi mi legge sa che faccia ho, e se comincio a firmare copie ora poi succede un casino, non riesco a far la presentazione, per cui meglio stare in disparte. Perché i dieci astanti di dieci anni fa adesso sono diventati trecento e passa. Un miracolo che è una delle prima domande che mi fanno nelle interviste, e cui io non so mai dare risposta. Semplicemente, non lo so. È andata così. Mi stupisco anch’io, guardate.
La presentazione all’Arena Bookstock è un grande classico: io, Sandrone e Fiammetta. Sono pochi gli anni in cui la formazione è stata diversa.
Entro, e c’è gente, certo, l’arena è piena, ma non più del solito. Non più dello scorso anno, per dire. Ci sono anche i volti amici, che per fortuna non mancano mai, ma ne manca uno che non riuscirò a recuperare neppure nei giorni successivi.
Comincio a parlare, cominciano le domande, tutto va come al solito. E intanto la gente aumenta. Si appoggia alle pareti dietro, si siede sulla moquette, avanza inesorabilmente verso il palco, fino a riempire tutto lo spazio dell’arena. È una cosa che esalta e spaventa al tempo stesso. Le mie presentazioni sono sempre andate bene, ma mai così bene. Non ne sono sicura, ma forse ho fatto anche più gente che a Lucca. E non ve lo sto dicendo per vanteria – o forse un po’ sì, la carne è debole :P – ma soprattutto per ringraziarvi. Dicevo proprio prima di partire che la scrittura è un mestiere solitario. Senza un po’ di solitudine, la cosa semplicemente non funziona. Ma, ad un certo punto, devi uscire dal guscio, e devi vedere l’effetto delle tue parole, o ti sembra di parlare al muro. Devi capire se è valsa la pena farsi ossessionare, e mettere le ossessioni su carta, se è valsa la pena correggere le bozze all’una di notte dopo tre ore di lettura continuativa, devi capire se la passione che ci hai messo è passata. E una sala colma è questo: l’unico premio vero cui uno scrittore può ambire. Più importante del riconoscimento della critica, del premio letterario, di qualsiasi altra cosa, perché non stai scrivendo per quella gente lì, stai scrivendo per i lettori. Almeno, noi di genere scriviamo per questo.
Per cui grazie. È stato faticoso e bellissimo. Fatiche così le farei a giorni alterni, e salterei un giorno giusto per riposarmi un pochino e godermela meglio il giorno successivo. Grazie per l’affetto e la passione, mi confermate che la via che ho scelto di percorrere magari è faticosa, ma porta frutti.
Il filo rosso di questi dieci anni passa per diciassette libri e centinaia di luoghi diversi, che ho visitato fisicamente o solo toccato coi miei libri, è un filo tortuoso e difficile da dipanare anche ai miei occhi, ma l’abbiamo tessuto insieme. Grazie per la fiducia. Grazie per le domande e le osservazioni. Grazie per la condivisione.
Mo’, però, mi aspetto almeno altri dieci anni così, eh? :P

la solita combriccola, insomma

La sala, comunque, ancora non era del tutto piena

Cosplay
Ho ricevuto parecchi commenti sul mio aspetto. Tipicamente positivi. Non sono mai stata una gran bellezza, come evidente dalle mie foto, d’altronde; anzi, diciamola tutta, ho passato la preadolescenza e l’adolescenza a considerarmi brutta, impressione avvalorata dai commenti che mi facevano alle medie, quando mi prendevano in giro per l’apparecchio ai denti. Il complimento è a tutt’oggi una cosa che mi imbarazza: non so che rispondere, una parte di me si domanda comunque “ma sta veramente parlando di me? O forse mi sta direttamente prendendo in giro?”.
Comunque, non era di questo che volevo parlare. Le mie mise al Salone, quest’anno, hanno previsto un uso massiccio del mio haori (ve lo ricordate? È la giacca giapponese vintage che ho comprato un po’ di mesi fa). La gente mi guardava e mi fotografava; devo dire che anche le scarpe vagamente ladygaghiane hanno riscontrato un certo successo, e una certa dose di curiosità, anche. Ma il top credo sia stato raggiunto alla festa cui ho partecipato (ne parlo più sotto); indossavo il solito tubino nero (quello di queste foto qua), con aggiunta di bolerino in pizzo e mezzi guanti sempre di pizzo nero. Completava la mise il rossetto rosso fuoco e questa collana qua. Non ho una foto del tutto, mi spiace, usate un po’ di fantasia. E devo dire che anche questa mise ha generato curiosità e vago sconcerto. E, nulla, ho realizzato che ormai l’estro del mio abbigliamento sta prendendo derive sempre più incontrollate. Sono sempre stata strana nel modo di vestire, ma forse, non so, credevo che sarebbe stata una cosa che sarebbe finita con l’adolescenza. E invece no. Continuo ad abbigliarmi come fossi in cosplay perenne. E non è una cosa forzata: no, è che io sono proprio così. Ho bisogno di mettermi roba che mi piace, che mi rispecchi, anche se è strana, buffa o fuori luogo. 9 volte su 10 sono vestita in modo incongruo rispetto all’evento: troppo sportiva quando occorrerebbe essere eleganti, troppo elegante quando occorrerebbe essere sportivi. Ma ho bisogno di avere addosso qualcosa che mi rispecchi, anche se è eccessivo, e poi la gente mi guarda e mi sento in imbarazzo (tipo in questa occasione). Alla fine considero anche questa un’espressione della mia creatività. Ormai sono il cosplay di me stessa :P .

Un'ora dopo, così ero in fila per andare a salutare Roberto Saviano...

Fiesta!
Poco prima di partire per Torino, fui protagonista sul mio profilo Facebook di questa discussione. No, davvero, in dieci anni di fiere non ero mai andata ad una festa. Non so perché. La verità è che sono sempre stata una donna davvero poco mondana. Anche da ragazzina. La discoteca, per dire, non mi ha mai attratta. Le feste cui partecipavo erano à la Caparezza (ve la ricordate, no? “Serate a tema ben accette, salame a fette spesse, vhs e se non bastasse su le casse”) e comunque non ho mai fatto più tardi delle 5.00, orario che ho fatto tipo tre volte in vita mia.
Solo che, poi, a Torino ad una festa mi ci hanno invitata davvero. E siccome l’invito era di un amico, e sapevo che avrei rivisto una persona cui devo tantissimo e che avevo gran piacere a reincontrare, sono andata. In cosplay da scrittrice dark-erotico-decadente, come vi dicevo. La cosa bella era Giuliano, in cospaly da Giuliano, invece, ossia jeans, giacca sportiva e camicia. La coppia più assortita dell’universo direi. Peccato che Cédric Villani è arrivato poco prima che me ne andassi, perché con lui al braccio avrei fatto un figurone :P .
Comunque. Sono andata. I primi venti minuti, lo ammetto, ho fatto l’effetto tappezzeria, che, stante l’abbigliamento, mi veniva anche bene, devo dire. Me ne stavo là, sottobraccio a Giuliano, senza capire bene il mio posto. È che io, in mezzo agli scrittori seri, mi sento sempre un po’ in imbarazzo. Mi domando cosa pensino di me, non so se sanno chi sono, non so proprio come tentare l’approccio. Poi c’è il dramma “gente che conosco ma non so se loro si ricordano di me, e comunque l’ho visti tipo per cinque secondi otto anni fa: li saluto o no?”. La soluzione, comunque, è banale: bicchiere di vino. Che a me ormai basta abbondantemente per abbassarmi quel tanto che basta i freni inibitori, e darmi quella leggera allegria che tanto mi piace, e non mi fa sentire lo stomaco felpato il giorno appresso. Ho fatto un po’ di conoscenze nuove, alcune inaspettate, ne ho riviste di vecchie, ho mirato da lontano Umberto Eco perché comunque non avrò mai il coraggio di avvicinarmi e anche solo stringergli la mano perché sono fatta così e amen. Ho rivisto Andrea Cotti, col quale ho lavorato ormai troppi anni fa, e continuo a ricordare con piacere e affetto sconfinato il periodo in cui mi ha fatto editing. Ho rivisto Massimo Turchetta, e finalmente gli ho detto quel grazie che gli dovevo da dieci anni. Insomma mi sono divertita. E chi l’avrebbe mai detto. Posso essere mondana anch’io. Però, mo’ non esageriamo, son pur sempre la pantofolaia che tutti conoscete: alle 23.00, i piedi distrutti dal tacco 12 e la fatica della fiera sul groppone, ciao a tutti e son tornata in albergo. Alle 23.30 già russavo. Un passo alla volta, via.

Incontri
Zero
Che sono una fan di Zerocalcare credo sia cognito in tutto l’orbe terracqueo. Non c’è vignetta del suo blog che non linki con passione, sua battuta che non conosca, suo libro che non abbia. Ho anche una dedica assolutamente meravigliosa, procacciatami dalla sempre fantastica Ros, che ormai dovrei eleggere a mia manager per gli incontri coi vipppppssss, perché mi sprona e mi aiuta a vincere la mia devastante timidezza in queste cose.
Quel che mi mancava era l’incontro live. E adesso ce l’ho. Sono andata a fargli la posta assieme a Rossella venerdì sera. Perdonami, Zero, ero consapevole che eri morto di stanchezza, e tutto sommato lo ero anch’io, ma son stata ugualmente spietata :P e ti ho tampinato. Perdonami anche se non sono riuscita a dirti tutto quel che penso della tua arte, che è fantastica, e mi calza addosso come un vestito fatto su misura, ma davvero non sono capace di esprimere quel che penso a parole. Mi viene molto meglio scrivere. Per cui spero passerai prima o poi di qua e leggerai queste quattro righe. Per altro, ci siamo fatti assieme una foto splendida, in cui entrambi sembriamo usciti da un funerale, e a me piace un sacco: non so, abbiamo delle facce diverse dal solito.
Tra l’altro, ho preso Ogni Maledetto Lunedì (su due), e ve lo consiglio tantissimo. Sì, principalmente è una raccolta su carta del suo blog, ma ad unire il tutto c’è una macrostoria che dà un senso diverso e più ampio a vignette che già conosciamo. E quella macrostoria – che è pure a colori – è così bella, è così devastantemente vera, che ognuno di noi ci si riconoscerà. Per certi versi, a me è sembrata la storia della mia vita, soprattutto nella parte finale. Ma è la storia della vita di tutti noi di questa mia generazione, credo. Ci hanno imbrogliati, sì, ma ci consoli sapere che è l’imbroglio più vecchio del mondo, quello che anche noi, un giorno, saremo chiamati a perpetrare sui nostri figli. È la vita, che è sempre più grande di noi, e prima di contemplarla in tutta la sua smisurata e spaventosa grandezza è necessario prepararsi, è necessario credere che sia una cosa semplice. Grazie, Zero, di tutto.

commemoriamo il caro estinto

ZeroZeroZero
A inizio aprile sono andata alla prima presentazione di ZeroZeroZero di Saviano. Anche in questo caso, credo sia cognito in ogni dove che Saviano è uno dei miei scrittori preferiti, del quale apprezzo praticamente l’opera omnia (oltre a possederla tutta). Non l’avevo mai visto dal vivo, e quindi sono andata. In quell’occasione, rimediai anche la firma sul libro.
A Torino ho bissato. Stavolta volevo presentarmi. Che è una cosa semplice, da fare, basta dire un nome. Ma se mi conoscete un pochino, capirete che per me è un’impresa titanica, avvolta da mille dubbi, intessuta di insidie. No, non dite niente. Lo so che è una cosa stupida, ma è più forte di me.
Così, ancora in vestaglia giapponese (grazie a Davide Gigli per la calzante definizione :P ) – abbigliamento che avevo tenuto per le interviste del mattino e per le foto che mi avevano fatto qualche ora prima (a proposito di chiusure del cerchio: mi ha fotografato di nuovo colui che realizzò le mie prime foto ufficiali) – e per altro con le scarpe lady gaghiane, mi sono avvicinata allo stand Feltrinelli dove sapevo avrebbe fatto una firma copie. Stand che era una bolgia infernale. Per fortuna c’era una fila, e mi sono disciplinatamente messa in coda con gli altri.
In fila la situazione devo dire ha raggiunto esiti paradossali: a parte l’immagine di questa tizia in haori con gli zepponi in fila manco dovesse andare ad una festa in discoteca, è passato anche qualche mio lettore, per cui ho fatto qualche foto e qualche firma. Tra l’altro in fila c’era una mia lettrice, e così ho passato l’ora e un quarto di attesa parlando un po’ con lei e con le persone che mi stava intorno. E lì ci siam dette una cosa ovvia, ma sempre bella quando ci pensi: che i libri uniscono. È bella questa condivisione di passione, questa staffetta che passa da scrittore a lettore e poi da lettore a lettore. Ho perso il conto delle cose meravigliose – e anche terribili, ma che mi hanno formata come persona, che mi hanno insegnato tanto – che sono riuscita a toccare coi miei libri: luoghi e persone che mai sarei riuscita a raggiungere altrimenti, realtà distanti, a volte solo nello spazio, ma altre anche nell’esperienza di vita. E Saviano, per altro, è una di queste cose.
Comunque, ve la faccio estremamente breve. È stato davvero bello riuscire a infine a presentarmi, ci siamo anche fatti una foto assieme che ho spammato un po’ in ogni dove. È che è una cosa che speravo di fare da molto. Certo, al solito non sono riuscita a dire un miliardesimo di quel che avrei voluto, ma ormai so di essere più forte nello scritto che nell’orale, e molte di quelle cose sono riuscita a scriverle, quanto meno, ed è già qualcosa. Certo, spero prima o poi di poter fare una bella chiacchierata, ma già l’abbraccio che ci siamo scambiati è stato importante per me. Ho un’ammirazione sconfintata per l’altrui talento, e quando va a braccetto con la forza e il coraggio è la cosa più bella in assoluto.

Quello che ho tralasciato
Tanto, tantissimo. I tre giorni di Torino durano come settimane, mesi di tempo normale. Succedono molte cose, tanti sono i volti, tantissimi i ringraziamenti. Tutti non ci entrano, neppure in un post chilometrico come questo. Facciamo che è come se avessi ringraziato tutti coloro che hanno resi questi giorni così particolari, anzi, questi anni così indimenticabili. Spero sarete con me ancora; questa è solo una tappa, il cammino continua.

P.S.
Scusate la sbadataggine; le prime due foto sono di Rossella Rasulo, così come quella assieme a Zerocalcare. La foto di me nell’acquario (:P) è di Giuliano, mentre quella con Roberto Saviano me l’ha scatta Serafina Ormas.

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ZeroZeroZero

Per lungo tempo, soprattutto quando ero ragazzina, ho avuto una specie di idiosincrasia per la saggistica. A quindici, sedici anni, non riuscivo a considerare i saggi esattamente “libri”: ok per i testi divulgativi di Asimov, che aprirono la strada alla passione per l’astrofisica, ma il resto ai miei occhi era ammantato di una patina di generale noia. Io volevo storie. Non spiegazioni.
Ecco, se a quindici, sedici anni mi fossi imbattuta in ZeroZeroZero, che all’epoca, ovviamente, non esisteva neppure nella mente dell’autore, avrei cambiato idea radicalmente. Lo pensai di Gomorra, la prima volta che lo lessi – e in quel caso fu una vera e propria folgorazione – lo penso di ZeroZeroZero: Saviano ha trovato il modo di fare una sintesi perfetta tra la letteratura e la saggistica. Ha inventato un nuovo genere. I suoi libri sono appassionanti come la narrativa, ma ti spiegano cose del mondo come la saggistica. Sta in questo la loro forza, sta in questo la loro grandezza.
Confesso che mi sono avvicinata a ZeroZeroZero, qualche tempo fa, con un certo timore. Credo sia la sindrome da opera seconda, solo che mentre io non ce l’ho avuta come scrittrice (anche perché vai a capire qual è la mia opera seconda…La Missione di Sennar? Le Guerre del Mondo Emerso? Nashira?), a volte ce l’ho come lettrice. Quando il primo libro di un autore mi folgora, poi ho paura che il secondo non mi farà lo stesso effetto. Se poi tra il primo e il secondo passano anni, mi intimorisco ancora di più. Anche perché non è che io sia tipo tanto da amare gli scrittori, quanto i singoli libri. Tranne luminose eccezioni, ovviamente.
Ecco, ho aperto ZeroZeroZero con questo timore in fondo al cuore, e già dopo le prime tre pagine mi sentivo a casa. Era un tipo di narrazione che riconoscevo, che avevo amato, e nella quale sprofondo. Storie nuove, prospettive più ampie, ma la stessa capacità di sporcarsi con quelle vicende, e al tempo stesso sporcare il lettore, avvincerlo, fargliele sentire proprie.
Breve riassunto per chi non sapesse: ZeroZeroZero parla di cocaina, come si intuisce anche dall’eloquentissima copertina. E per parlare di questo gigantesco elefante che ci troviamo nel salotto, ma che schiviamo come non ci riguardasse, sceglie al contempo l’unità e la molteplicità: da un lato, il filo conduttore è l’idea che la cocaina sia il lato oscuro dell’esistenza. Sta dietro. Basta guardare in trasparenza, e appare: dietro la crisi, dietro il benessere, dietro il funzionamento delle nostre società. La molteplicità sta nella via scelta operata per raccontare questa realtà altra: le storie. ZeroZeroZero inanella quadretti, che nella loro specificità, e al tempo stesso universalità, dicono più di mille analisi. Ho sempre pensato che raccontare sia un atto seminale, nato insieme all’uomo, in qualche modo fondante e demiurgico: il racconto ci resistuisce a noi stessi, ci definisce, e al tempo stesso, con la sua capacità di avvincere, è il sistema migliore per veicolare un contenuto. Le storie di ZeroZeroZero ti incollano alla pagina come la miglior narrativa popolare, ti restano dentro quando hai chiuso il libro, ti spingono a cercare facce, volti e corpi, dopo (per dire, una mattina mi sono chiesta che faccia avesse Natalia Paris). E proprio per questa loro straordinaria capacità di restarti dentro, sono più efficaci di qualsiasi dibattito, di qualsiasi dossier nel farti penetrare questo lato oscuro della vita. Capisci delle cose, molte cose, cose importanti, leggendo ZeroZeroZero, ma al tempo stesso ti diverti, ove con la parola, al solito – lo ripeto sempre, perché mi rendo conto che essere fraintesi è facile – non intendo “ci facciamo due risate”, quanto piuttosto ti appassioni, hai voglia di leggerne ancora, sei catturato dalla narrazione. È una lettura – entro i limiti di questa definizione di divertimento che ho appena dato – piacevole. Nel senso che ci entri dentro, e non ne esci fino all’ultima pagina, e poi qualcosa ti resta comunque appiccicato addosso, e non andrà mai più via.
Intendiamoci, è un libro che colpisce allo stomaco e colpisce duro. Ci sono cose che non avrei voluto leggere, orrori inenarrabili che avvengono nel mondo, e la coca che finisce sui nostri tavoli gronda morte e sangue, ma la verità è così: dura, scomoda, e quando la sai, pensi che forse sarebbe stato meglio non sapere affatto. Ma senza verità non c’è libertà. Come puoi essere libero se non sai quali meccanismi guidano l’economia che ti dà da mangiare e ti affama? Come puoi essere libero se non sai il vero potere dove sta, chi lo amministra e in base a quali logiche?
E la cosa che mi ha stupita è che gran parte di queste storie sono roba vecchia, almeno dieci o venti anni. Non tutte, ovvio, ma molte sì. Storie che di sicuro saranno state già raccontate, che sono in dossier polverosi che però nessuno legge mai. La forza di ZeroZeroZero è di metterle in una forma tale che ci appaiano come quel che sono: cose che ci riguardano. Siamo noi. È il nostro mondo.
Un’osservazione collaterale che mi è venuta spesso alla mente leggendo il libro. È incredibile – anche se non particolarmente sorprendente, a pensarci bene – quanto l’economia criminale sia sostanzialmente il capitalismo portato alle sue estreme conseguenze: l’economia della cocaina segue esattamente le regole dell’economia “pulita”, ma scevra di tutti i legacci etici e di tutte le leggi. È capitalismo nella sua essenza più vera, nudo e crudo. L’economia criminale dice tanto, tantissimo, di quella legale. E infatti non c’è crisi, nel mondo della cocaina. Si può quasi dire che l’economia criminale è un liberismo davvero senza regole, è il capitale che obbedisce solo a se stesso, e si alimenta da solo, senza vincoli e legami.
Fin qui, direi, la parte meramente saggistica. Ma ZeroZeroZero è anche letteratura. C’è una ricerca stilistica, ad esempio, che a me è parsa evidente soprattutto nei capitoletti “Coca #”, che in qualche modo intercalano la narrazione, permettono di tirare il fiato e sono, sostanzialmente, riflessioni. Ma, soprattutto, c’è un continuo tentativo di ricavare una riflessione generale dalle storie particolari, una riflessione sulla nostra natura di uomini. Probabilmente è proprio per questo che le storie di ZeroZeroZero sembrano riguardarci così tanto: perché l’autore ci scava dentro alla ricerca di quel seme di umanità che è comune a tutti noi. Che sia l’oscurità che abita nel profondo di ogni individuo, che si tratti di un meschino bisogno di potere, di una disperata ricerca di rivalsa, o all’opposto il tentativo di essere migliori, la voglia di riscattare il mondo, o anche solo poter guardare la verità in faccia. È una galleria di personaggi umani, troppo umani, nei quali, spesso con sgomento, ci rispecchiamo. Sarei finito così anch’io se la mia storia fosse stata diversa? Avrei fatto la stessa scelta, io, in quella sitauzione? Da dove vengono il male, la ferocia, questo spasmodico bisogno di potere?
Insomma è un libro bello. È un libro necessario, per carità, ma soprattutto è bello. E ve lo consiglio per questo. Perché io me lo sono centellinato, perché a mezzanotte, dopo una delle mie giornate tipo piene di roba fino ai capelli, mi dicevo “vabbeh, dai, un altro capitolo”, e non è una cosa che mi capiti spesso, ormai, perché in fila dal dottore, leggendo, sono finita per venti minuti in un altro mondo, e non sentivo la gente intorno a me. E non vi fate scoraggiare dalla prima cinquantina di pagine forse un po’ ostica: io, almeno, ho fatto fatica a orientarmi con tutti quei nomi e quei fatti che si rincorrevano tra le righe, ma la cocaina è così, è labirintica e tentacolare. E comunque, quello è il prezzo da pagare per l’ingresso, e vi assicuro che vale completamente la pena.

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Dall’altra parte del cancello

La ragazza con gli stivaloni e il berretto si avvia da sola verso la libreria. Non pensa di fare in tempo, non pensa neppure di riuscire ad entrare. Davanti alla polizia schierata ha il tentatvio di chiedere se dentro ci sono ancora posti liberi per la presentazione di ZeroZeroZero di Roberto Saviano. Poi, semplicemente, si accoda a quelli che entrano. Prende due copie del libro alla cassa – è in missione anche per conto della mamma – e se le stringe al petto tutto il tempo, mentre in piedi, di lato al palco, segue tutta la presentazione.
Vedete, nonostante di lavoro faccia la scrittrice, non è che ha mai visto molte presentazioni, se non quelle degli amici più cari. Questa è la prima in cui è solo e semplicemente una fan.
Ascolta tutto, annuisce, perché tante cose le pensa anche lei, o semplicemente le sembrano terribilmente vere. Ed è contenta di star là, tra la folla, a fare una cosa che la fa tornare là dove tutto è iniziato: lettrice, quello che non deve mai smettere di essere, per continuare a fare quel che fa.
Quando tutto finisce, decide di prendere il coraggio a due mani e fare una cosa che non ha mai fatto: si mette in fila per la firma copie. Anche se aveva detto non l’avrebbe fatto, perché a casa c’è la bimba coi nonni, e non vuole far tardi. Ma si mette in fila, ed è una fila chilometrica.
Aspetta appoggiandosi qua e là, perché la scelta degli stivaloni, sebbene con un tacco non proprio proibitivo, è stata un po’ infelice. La caviglia che si è slogata mesi prima fa un po’ male. Fa caldo, ed è stanca, ma è contenta. In fin dei conti, sta provando a fare i conti con una sua paura, la stessa che, nel 2004, all’inizio dell’avventura, la fece tirar dritta davanti a Umberto Eco, autore del suo libro preferito, perché, semplicemente, non aveva il coraggio di stringergli la mano.
Arriva il suo turno che la libreria s’è quasi svuotata. A Saviano vorrebbe dire tante cose, ma nonostante agli occhi di tutti sembri una discreta faccia tosta, in certe cose è estremamente timida. Si fa firmare le due copie – per sé e per la mamma – e si concede al massimo una stretta di mano, e un ringraziamento, davvero sentito, per tutto, il cui calore spera passi attraverso il contatto dei palmi, e il tono della voce, magari.
La ragazza con gli stivaloni e il berretto riprende giacca e borsa, si avvia verso l’esterno.
Un piccolo passo, si dice, magari la prossima volta spiccico qualche parola in più…
Esce, e se ne va nel vento della città, sulla strada quasi deserta.

P.S.
Ecco, solo per dirvi, la prossima volta che ci vedremo, che c’è poco da vergognarsi, che io sono peggio di voi :P .
La prossima volta, per inciso, sarà al Salone del Libro di Torino, il 17 maggio, ore 17. Sappiate che il 17 è il mio numero fortunato, per cui mi aspetto grandi cose. A presto i dettagli sul luogo.

P.P.S.
Il titolo del post è una citazione di una splendida canzone di Cristicchi, che però parla di tutt’altro.

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Torino, annessi e connessi

Allora, Torino si avvicina ed è il caso di fare un po’ il punto della situazione. Il mio incontro si terrà domenica 13 maggio, alle ore 18.30, all’arena Bookstock. Con me ci sarà anche Sandrone Dazieri. Seguirà poi la consueta firma copie. In linea di massima, io firmo tutto quel che mi portate, ma le ultime volte che sono stata a Torino la ressa era tale che sono stata a costretta a firmare un solo libro a persona. Ora, a priori non posso sapere quanta gente ci sarà (spero tanta :P ), ma considerate che potrebbe esserci la possibilità che vi firmi una sola cosa a persona.
Sempre per Torino, il blog Chrysalide ha intenzione di intervistarmi, e sta raccogliendo le domande dei lettori. I temi sono due: da una parte il digitale, che è anche il tema del Salone del Libro di quest’anno, e curiosità generali sui miei libri. Potete quindi andare sul blog e proporre le vostre domande. Domenica io risponderò, e le risposte verranno pubblicate suppongo la prossima settimana.
Infine, una cosa che non è direttamente connessa al Salone del Libro, ma si tiene comunque a Torino. La sera di mercoledì 16 maggio parteciperò alla nuova trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano, Quello che (non) ho. Inutile dirvi che sono onorata, contentissima, e terrorizzata, tutto insieme. Ma devo dire che nel complesso è una bella sensazione :) . La trasmissione ha una formula particolare: ognuno degli ospiti è invitato a presentare una parola che gli sta particolarmente a cuore. Come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti; in 1984, il libro di Orwell che vi stra-consiglio, la dittatura cerca di introdurre la Neo-lingua, un nuovo linguaggio larvato e incompleto che non conosca parole per esprimere i concetti di ribellione e libertà, affinché persino immaginare un mondo diverso sia impossibile. Ecco, le parole sono importanti, dobbiamo curarle, accudirle, e farle nostre. Qualche giorno fa ho commentato in risposta ad un’osservazione di Valberici che la risposta ai nostri attuali problemi è la cultura, e ridare un senso alle parole è il primo passo.
La mia parola non ve la dico :P , la scoprirete mercoledì se avrete voglia di sentirmi. Mi potrete vedere su La 7, ore 21.10. Intanto, potete andare sul sito del programma e inserire la vostra parola del cuore, e magari definirla.
Vi lascio con la canzone che ha ispirato il titolo del programma; è di De André, confesso che non la conoscevo, ed è molto, molto bella.

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