Archivi tag: scrittura

Quel che sto facendo

Viaggio. Parecchio. Questa settimana, tre città diverse. Mi sveglio in letti differenti, sotto luci diverse.
Prendo treni e provo a svenirci su, coinvolgendo ignari estranei che probabilmente racconteranno la cosa agli amici negli anni a venire (“e poi c’era ‘sta tipa strana, con un cappello, tutta bianca, che m’ha detto che se sentiva male e che se cascava per terra la dovevo aiutare. Ma io non lo so…”).
Cerco di perdere treni, ma poi recupero correndo per un chilometro sotto il sole, con almeno dieci chili di bagagli al seguito. Almeno faccio moto.
Mi sento grassa. Da qualche mese. Va così. È una delle numerose cose che nella mia vita seguono un andamento sinusoidale. Devo un po’ recuperare il controllo della roba che mangio, o semplicemente aspettare che passi.
Leggo i primi pareri su Nihal from the Land of the Wind, che ancora non è uscito (uscirà il 27 Maggio), ma gira già in versione cartacea per una serie di giveaway. E d’improvviso torno indietro di dieci anni. Non so se ne sono contenta o meno, di questo ritorno al passato. Credevo di aver già dato :P .
Leggo anche quelli su Pandora, per la verità. E pare vi stia piacendo. Son contenta, ci ho lavorato un sacco; ad un certo punto, ne ho praticamente riscritto due terzi.
Soprattutto lavoro. Un sacco. Su tanti progetti diversi. A volte provo a dire di no, ma poi, niente, alla fine capitolo. È che più passano gli anni più questo lavoro è parte integrante del mio modo di essere. Non è qualcosa che faccio, che pratico dalle 9.00 alle 18.00 e poi via, riposo. È quello che sono. Che probabilmente sono sempre stata. Non saprei esattamente come definirmi senza le mie storie. Non so se sia l’unica cosa che so fare, o se davvero so farla, comunque, ma di sicuro scrivere è un bisogno, prima ancora che un lavoro, un piacere, un divertimento.
Per cui, nulla, manco da qui perché lavoro un sacco. In compenso, ci si potrà vedere spesso dal vivo, che probabilmente è anche meglio :) .

17 Tags: ,

Cosa ci fa andare avanti

Uno dei primi problemi che mi sono posta, dopo essere passata dal lato di chi le storie le inventa, è stato capire quali soddisfazioni cercare nel mio lavoro. In sintesi, in seguito a quali particolari eventi o reazioni del pubblico avrei dovuto concludere che ero soddisfatta di ciò che stavo facendo. Può sembrare una questione da poco, ma non lo è. Perché la letteratura non appartiene a quelle branche dello scibile umano in cui ci sia unanimità sui criteri che determinano la qualità, e dunque un libro che la critica trova orrendo poi magari vende tantissimo, e viceversa, e allora chi ha ragione? Inoltre, la scrittura è un mestiere sostanzialmente solitario, l’incontro col pubblico è limitato e viziato da bias a monte (a una presentazione tipicamente viene la gente che già ti ama, e anche chi ti scrive in larga maggioranza è chi ti apprezza). E allora?
Allora devi scegliere l’obiettivo. Puoi decidere che ti accontenti delle buone vendite; d’altronde, viviamo in una società capitalista, e coi soldi ci si campa, per cui riuscire a vivere del lavoro di scrittura è un grandissimo traguardo che riesce a pochi e che dovrebbe lasciare soddisfatti. Oppure c’è chi vuole il riconoscimento da parte della critica, o si sente soddisfatto quando riceve un premio. La verità è che ognuno ha le sue soddisfazioni, e nessuna di queste è assoluta: ci sarà sempre qualcuno che, nonostante gli obiettivi raggiunti, ti verrà a dire che fai schifo comunque, e contraddirlo è impossibile. Esistono dei criteri di qualità oggettivi, certo, ma contano fino ad un certo punto: il resto è nebuloso e confuso.
Io ci ho messo dieci anni a capire cosa dovessi considerare obiettivo del mio lavoro, a quali tipi di gratificazioni dovessi puntare. Non è stato un processo semplice, perché chi scrive di genere in questo paese – ma anche fuori, mi dicono – è piuttosto negletto, quindi automaticamente parte con uno svantaggio: larga fetta dell’establishment considera quel che scrivi robaccia adatta a palati poco raffinati. Inoltre, andarsi a leggere recensioni in giro per la rete non è un buon modo per capire cosa la gente pensa dei tuoi libri: avete mai fatto caso che c’è una polarizzazione in base al sito che ospita la recensione? Oppure che a fronte di un voto complessivo alto, poi ci sono tipo dieci recensioni tutte negative? E allora?
E allora niente. Quando ho iniziato a scrivere, l’ho probabilmente fatto per cercare di vivere più profondamente le emozioni che mi dava la fruizione di storie. Sono sempre stata un tipo ossessivo, e salto da una fissazione all’altra quasi senza soluzione di continuità. Va da sé che le ossessioni più forti mi vengono dalle storie (o non avrei letto diciassette volte Il Nome della Rosa, per dire, né mi sarei ritrovata, a venticinque anni suonati, a sognare la notte l’isola di Lost) e ho sempre amato il modo in cui certi scrittori sono stati in grado di farmi entrare nei loro mondi, di catturarmi e non lasciarmi più andare via. Ricordo che dopo aver finito Il Signore degli Anelli mi misi a disegnare, e ne venne fuori un Legolas molto à la Pak di Berserk, e l’abbozzo di un Cavaliere Nero che poi non finii più. Dopo aver letto La Solitudine dei Numeri Primi, feci uno schizzo di Alice.
Questo lungo, lunghissimo preambolo per dire che la mia personale soddisfazione, l’ho realizzato da un po’ di tempo, è riuscire ad ossessionare chi mi legge. Voglio entrare a far parte del suo immaginario, anche per poco tempo, ma fargli credere per un’ora o due di vivere a Nashira, o nel Mondo Emerso, o nella villa del Prof sul lago Albano. ora, non so se questa cosa funzioni o no, e su che scala, ma per qualcuno funziona, e tanto mi basta. Con gli anni si diventa saggi, e io sono sempre stata una per i piccoli passi.
La prima volta che ho capito di aver quanto meno colpito qualcuno è stato coi cosplay. Certo, lì c’entra tantissimo anche l’aspetto grafico di Paolo, quindi non era certo solo merito mio, ma qualcuno stava comunque facendo il cosplay di un mio personaggio.
Poi è arrivata la fanfiction su Nihal che incontra Garrett, il fighissimo ladro protagonista di Thief, uno splendido videogioco che mi ispirò Le Guerre del Mondo Emerso. Io non ho mai scritto fanfiction, semplicemente perché non riesco a infilarmi nelle storie altrui e ne voglio di mie, ma non si contano le volte in cui, dopo aver letto/visto una storia sono stata lì a rimuginare, a immaginare finali diversi, a riempire i buchi. E l’idea che qualcuno lo facesse coi miei racconti era esaltante.
Oggi ho scoperto EFP. Ci sono fanfiction di ogni genere. E qualche centinaio riguarda il Mondo Emerso, la Ragazza Drago, e Nashira. E vederle, scorrere i titoli e le trame, vedere cosa aveva colpito di più i lettori, è stato esaltante. Non scrivi una cosa sulla storia di un altro se non sei riuscito a viverci dentro almeno solo un minuto, se per un istante quella storia non ti ha catturato. O almeno, io la vedo così. E l’idea di essere riuscita a produrre, nella mente della persona, quel minuto di rapimento al mondo è una soddisfazione vera, una cosa di quelle che ti spinge subito alla scrivania a scrivere ancora.
A me hanno colpito quelle di Nashira, perché è il figlio minore e quello che veniva dopo sette anni e nove libri di Mondo Emerso, ho sempre avuto paura che non sarebbe piaciuto, che non mi fossi spiegata bene, e via così. Ma c’è veramente di tutto, tra cui tanta roba con personaggi nuovi. Ora, non è che non sapessi che c’erano le fanfiction. È che vederle tutte insieme mi consola, mi fa piacere, mi lusinga. Se vi va, dateci un’occhiata, è un gioco divertente. Attenti perché è pieno di spoiler.

Mondo Emerso
Ragazza Drago
Nashira

21 Tags: , ,

Notizie da Scrivolandia

Con NICDAP sto spingendo al massimo. Lavoro come una forsennata, macinando battute su battute. Le mie sessioni di scrittura sono sempre state piuttosto intense, ma tutto sommato, magari proprio per questo, abbastanza brevi. Tre ore la mattina, a volte un piccolo strascico il pomeriggio. È che dopo un po’ mi esaurisco, sento di non poter andare avanti a raccontare, che quel che ho scritto deve sedimentare perché possa andare avanti. Magari è sbagliato, ma per me funziona così. Prima stesura di pancia, buttando fuori tutto quello che mi riempie la testa, e poi, solo alla fine, rilettura, editing, riscrittura, riscrittura, riscritura. Fino alla nausea. A volte riscrivo anche i 2/3 della prima stesura. Con NICDAP il momento del’esaurimento non arriva quasi mai. Parto e vado sparata come un treno, forzando le tappe. Scrivo di viaggi forsennati, senza soste e tappe intermedie, e sembra un po’ il mio viaggio in questa storia, tutto dritto senza tirare il fiato. Ed è una bella sensazione. Un po’ mi spaventa, perché non mi era mai capitato, ma è piacevole. La passione per un storia è molto simile all’innamoramento, che si tratti di qualcosa che stai raccontando tu o di qualcosa che stai leggendo. Ti gira per la testa, ti torna ossessivamente in mente, te la racconti più e più volte in mente, assaporandola a fondo. Sarà la ragione per la quale le storie che mi piace leggere/vedere poi mi fanno venire voglia di scrivere. Per me lettura e scrittura sono due piaceri strettamente legati, complementari.
Comunque, finirà che NICDAP sarà il libro che avrò scritto più in fretta nella mia carriera. Poi magari correggerò per due anni, vai sapere. Mi pare improbabile, visto che uscirà in autunno, se tutto va bene.
La storia di NICDAP è strana, perché per la prima volta se ne parlò tipo due anni fa, e l’idea in sé, non la storia, che all’epoca neppure esisteva, non mi convinceva. Poi è passato del tempo, l’idea s’è sedimentata, ho tirato fuori la storia e ho cominciato, con l’idea di prendermi semplicemente una pausa prima del gran finale di Nashira, che, già lo so, sarà un’impresa piuttosto totalizzante. E invece col cavolo che sto tirando il fiato. Ci sono dentro con tutte le scarpe, e non credevo sarebbe successo. Ho tirato fuori roba che non credevo sarebbe mai entrata nei miei libri, ossessioni che, me ne accorgo solo ora, cercavano solo un spunto, un’occasione, per venire fuori. Mah, vedremo. Io intanto procedo così, meglio divertirsi finché si può anche perché…

***************

…ho scoperto che le storie che racconto non sono per me. Cioè, in verità avrei sempre dovuto saperlo, ma l’ho messo a fuoco solo ieri sera. Influenzata dall’ultima puntata della seconda stagione di Sherlock (credo prima o poi ne parlerò qua, dell’unica serie che di recente è stata capace di ossessionarmi come ai bei tempi tipo di Lost), mi sono andata a rileggere un po’ di pezzi dei miei libri che parlavano, diciamo così, dello stesso argomento. Chi ha visto capirà. E niente, è stata una tragedia. Dopo la pubblicazione, dopo le infinite letture e riscritture, gli scazzi e le parolacce che inevitabilmente riverso su quel che ho scritto quando mi tocca correggerlo, le mie parole non mi dicono più niente. Zero in croce. Leggo e il mio coinvolgimento è zero. Le uniche sensazioni che provo sono riferite al “qui cambierei questo”, “meno parole, in questo cazzo di pezzo”, “no, vabbeh, questa qua è davvero patetica”. Riscriverei tutto. Non lo faccio semplicemente perché io sono una che racconta storie, e un libro finito, pubblicato e letto è semplicemente morto, per me, ha detto quel che doveva, quel che non va continuerà a non andare per sempre, avanti un altro. Ma l’emozione che mi aveva agitata quando avevo scritto, quella è svaporata tutta. Perché quando scrivo mi emoziono. Come dicevo prima, è come quando leggo: entro nella storia e ne sono coinvolta. Quelli come me – e come voi, suppongo, visto che mi leggete – leggono per vivere miliardi di altre vite, non tanto perché non gli piaccia la loro, ma perché l’esistenza è una cosa così gigantesca, e breve, che viverne una sola è un po’ un peccato. L’unico modo per guardare la vita da altri punti di vista è leggere, per me anche scrivere.
Mi sono emozionata quando ho fatto morire ognuno dei miei personaggi, anche quelli meno importanti, mi sono emozionata quando hanno trovato l’amore o l’hanno perso, e non l’ho fatto una volta sola, mentre ne scrivevo; l’ho fatto miriadi di volte, quando mi scrivevo in testa quel che avrei poi buttato su carta. E ci sono cose, tipo il destino di Saiph, o di Laio, che mi sono raccontata in testa per mesi, cambiando le virgole, spostando il punto di vista, vivendole da tutte le angolazioni. Poi finiscono su carta è improvvisamente non vivono più in me. Non mi appartengono più, non mi emozionano più. Se ne sono andate. Se ci ripenso sento l’ombra di quel che provavo quando erano ancora solo nella mia testa, se le rileggo mi danno il voltastomaco.
È che una storia scritta non appartiene più a chi l’ha inventata. È di chi la legge. Si fa il suo cammino tra i lettori, e rinnega l’autore. Forse è questa la ragione di un altro fatto strano: ogni tanto su Facebook trovo qualcuno che posta qualche citazione che mi è familiare. Sono citazioni dei miei libri, che magari avevo dimenticato. E, ogni volta, mi sembrano parecchio più belle di quanto non siano, o mi fossero sembrate quando le avevo rilette per qualche ragione. È che sono filtrate dalla sensibilità di chi le ha lette, le ha fatte proprie, vi ha proiettato la sua vita, e le ha lasciate andare diverse, modificate da quell’incontro.
In questo senso forse è vero che non si scrive per se stessi, ma per chi leggerà.

15 Tags: , ,

Aggiornamento: Pandora, NICDAP, Nashira 4

Ho fatto caso che qua sopra parlo tantissimo di un sacco di roba, e pochissimo della ragione per cui questo posto è nato, ossia la mia attività di scrittrice. Sì, qualche riflessione sui massimi sistemi, ma niente rispetto a quello che sto scrivendo adesso, o quel che ho in progetto. Per cui, oggi, aggiornamento:
come saprete, il prossimo progetto in canna è Pandora, che è un fantasy ambientato, almeno per il primo libro, a Roma. Ho finito prima e seconda stesura, adesso si sta procedendo di labor limae. Posso dirvi che i protagonisti sono due, un ragazzo e una ragazza. La ragazza, l’avrete capito, è Pandora. Su Twitter ho postato un paio di indizi, due immagini prese dalla rete che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare col libro. Ve le reincollo qua sotto.

Ne aggiungo anche una terza, via: eccola. Vi assicuro che, nonostante le immagini un po’ cupe, è un libro divertente, sullo humor nero, direi.
Uscirà in primavera, credo lo presenterò alla Fiera di Torino, ma restate sintonizzati per ulteriori informazioni.

Oltre che con l’editing di Pandora, in questo periodo sono impegnata con un altro progetto, di cui ho parlato di recente su Twitter. Sono a buon punto, più o meno a metà. Di questo non posso dirvi molto, è più o meno top secret. Ha un titolo di lavoro che, con le iniziali, suona più o meno NICDAP. È un fantasy, ma, rispetto alla mia produzione recente, è un outsider. È una cosa nuova, ma con legami nel passato, ecco. Ieri ho buttato là che incidentalmente è una cosa che parla anche di famiglia. Bon, basta, che sennò spoilero. NICDAP, se mai si intitolerà davvero così, uscirà in autunno.

Infine, in molti mi chiedono quando uscirà il quarto libro di Nashira. Premetto che sarà l’ultimo della serie dei Regni. Dovrebbe essere pubblicato a inizio 2015, ma, per la verità, una data proprio precisa ancora non c’è. Ho raccolto un po’ di idee che si sono andate a sommare all’intelaiatura della trama, che già conoscevo fin da quattro anni fa, quando ho progettato la saga, ma ancora non ho iniziato a scrivere. Mi ci voglio mettere su per bene, è la conclusione, è importante, vengono fuori temi abbastanza massicci, voglio prendermi il mio tempo.

Bon, tutto qua. Ho anche in programma alcune presentazione, ma ve ne parlerò prossimamente :) .

36 Tags: , , ,

Roma

Recentemente – sempre col solito ritardo di un paio di generazioni di cui vi dicevo ieri :P – ho visto La Grande Bellezza. Per la verità sono ad una visione e mezza (finisco stasera); coi film di Sorrentino mi capita sempre così, devo vedermeli un paio di volte per apprezzare al meglio. La prima visione è un po’ un’indagine esplorativa, con la seconda non ho più la sensazione di muovermi in territorio sconosciuto, ed è come se tutti i pezzi andassero al loro posto. E, niente, mi è piaciuto moltissimo. Ci ho trovato alcuni difetti, ovvio, la perfezione non è di questo mondo, ma ha una colonna sonora dalla quale sono diventata immediatamente dipendente, una fotografia da urlo (e grazie, un nome una garanzia, Bigazzi) e riesce a dire cose che io non sono mai stata capace di esprimere. Innanzitutto sul rapporto scrittura/vita, sul mentire per dire la verità e sul vivere per raccontarla, ma soprattutto riesce a rendere in modo impressionate quel che sento per la mia città.
Ho parlato miriardi di volte del mio rapporto complesso con Roma. Le radici del mio amore odio credo vengano da lontano: innanzitutto dal fatto che sono figlia di immigrati, e che tutte le mie radici stanno 200 km più a sud di qua. I miei non si sono mai davvero adattati alla vita in questa città, e questa cosa per osmosi è passata anche a me. Ma non credo sia solo questo. Forse è anche che quando vivi a Roma in qualche modo ti senti obbligato ad amarla. Lo capisci dalle facce che fa la gente quando gli dici dove sei nato e dove vivi, dall’ammirazione e dall’invidia, dallo stupore quando gli spieghi che no, non senti un gran senso di appartenenza per questa città. E del resto hanno ragione loro. Roma è una delle città più belle del mondo, non c’è niente da fare. Non puoi passare dieci minuti tra le strade del centro senza percepire chiaramente questa bellezza assolutamente tremenda, alla quale davvero non puoi resistere. Roma è bella, è un concetrato di tutto quanto di bello l’Italia ha prodotto negli anni in cui era ancora un centro culturale, e sono stati secoli lunghissimi. E nel film di Sorrentino Roma è fotografata come non mai; nonostante le immagini siano tutte quelle “da cartolina”, il ritratto della città che ne viene fuori non è per nulla stucchevole o banale. È appunto quello di una grande bellezza, qualcosa di soverchiante. Perché il problema tra me e Roma sta tutto qua, in quell’aggettivo. Roma è troppo. Troppo grande, troppo bella, troppo estranea. E questa cosa l’ho ritrovata identica nel film. Il modo in cui Gep si muove per la città è il modo in cui mi ci muovo io: intorno a me tutto mi sembra estraneo e distante. Sì, bello, infinitamente bello, ma al tempo stesso algido, impersonale. C’è un distacco netto tra Gep e Roma, un distacco che poi, a dirla tutta, è quello che tante volte lo scrittore ha rispetto alla vita. È il problema del “vivere per raccontarla”, come dicevo: una parte di te sarà sempre e soltanto spettarice, come avere un mini-giornalista in testa 24 ore su 24 che non fa altro che appuntare tutto quel che vedi e senti, e ti suggerisce “questo devi scriverlo, devi raccontarlo”. A me succede piuttosto spesso, ma con Roma questa cosa è evidente. Lo faccio dire a Sofia nel primo libro de La Ragazza Drago, perché lo penso da anni: non riesco a sentirmi parte di Roma. Mi domando anzi come sia possibile appartenere ad un posto del genere, così immenso e bello da non poter essere contenuto in un solo cuore. Saranno i turisti, cui si concede sempre con grande generosità, o i segni che hanno lasciato le generazioni, infinite, che l’hanno abitata e che hanno lasciato un segno nei suoi palazzi e nei suoi monumenti. Non lo so. So solo che resta altro da me, e quando mi muovo per le sue strade, mi sento sempre turista. E queste sensazioni le ho ritrovate nel film.
Ora, probabilmente è solo una mia impressione. Altre persone che hanno visto La Grande Bellezza non condividono questa mia interpretazione. E poi il film parla anche di altro, del vuoto, soprattutto, del vuoto che siamo diventati e che ci abita, dello sfacelo di questa società in pezzi, a partire dalla testa e dai supposti intellettuali, e di ciò cui possiamo aggrapparci, quegli squarci di verità che cerchiamo tutta una vita. Ma secondo me la potenza delle grandi opere d’arte sta in questo: nella capacità di adeguarsi al vissuto di ognuno, e di raccontare a ciascuno una verità che gli appartiene. Questa è la mia. Un altro pezzetto, potete trovarlo qua, detto peggio, perché il mio mestiere è scrivere, ma comunque espresso.

3 Tags: , , , ,

Vivere per raccontarla

In questi ultimi giorni mi è successa una cosa estremamente sgradevole, sulla cui natura non ho però intenzione di dilungarmi qui. Ovviamente, come ogni volta che succede qualcosa di brutto, uno poi finisce a rimuginarci su, a parlarne con qualcuno per cercare di liberarsi dell’evento, di metterlo nella giusta prospettiva e lasciarlo andar via. Solo che a me questo in genere non basta. Non so se si tratta di un reale problema che ho con l’espressione verbale, o solo una deformazione professionale, ma io non sono in grado di liberarmi del tutto di qualcosa che mi è successo, se questo qualcosa mi ha davvero colpita a fondo, se non ne scrivo. È il modo che ho per rifletterci su, e infilare l’accaduto nel cassetto delle cose passate, con cui ho fatto i conti e che fanno parte del mio bagaglio di vita. Fino a quando non scrivo, gli eventi restano sospesi sulla mia testa, irrisolti.
Quando succede così, e non ho voglia di mettere in piazza l’accaduto per le più svariate ragioni (ad esempio perché coinvolgono terzi che non voglio tirare in ballo), mi siedo alla scrivania e scrivo una pagina di diario. Sì, non una pagina di blog, ma del vecchio, superato diario segreto, quello che nessuno leggerà, o che leggeranno pochi intimi. Scrivere per se stessi è diverso che scrivere per gli altri, ma ha lo stesso potere terapeutico: mentre scrivi, in qualche modo esci da te stesso, e sei in grado di guardare le cose da un’altra prospettiva. Il soggettivo diventa oggettivo, e finalmente le cose ti sono chiare. Sono sicura che la gran parte di voi ha ben presente questa sensazione.
Così, sabato sera, dominata da un mood particolarmente incazzato, ho scritto le mie due pagine e mezzo private in cui mi sfogavo. E mi sono accoorta di una cosa che non avevo mai notato: scrivere una cosa per me è completamente diverso dal raccontarla. Ci sono parole che non sarei mai in grado di dire a voce, sensazione per le quali mi manca il vocabolario, quando ne parlo con qualcuno, ma che fluiscono invece in tutta la loro limpidezza sulla pagina scritta. Forse è lo schermo del foglio, che è comunque una barriera tra me e il mondo, o quella particolare confidenza che ti dà la solitudine, ma la sincerità, la chiarezza con la quale riesco a descrivere ciò che provo quando scrivo mi manca completamente quando parlo. Raccontare perché, ad esempio, quella volta, all’esame di Metodi Matematici della Fisica, mi sia messa a piangere come una scema davanti al professore mi è difficile. Ma se devo scriverlo, le sensazioni di quel giorno mi tornano in mente cristalline, come non fossero passati dieci anni, e posso descrivere con estrema chiarezza il senso di piccolezza, l’ansia, la sensazione di essere un completo fallimento, e la vergogna estrema del mostrarmi così vulnerabile davanti ad un estraneo.
Forse, nonostante l’apparenza, in certe cose sono timida e riservata, o forse ha ragione quel mio amico che mi ha sempre detto che sono una tipa tutto sommato piuttosto fredda nei confronti delle persone cui voglio bene. O forse, quando dico che raccontare storie fa parte del mio modo di essere, che è una cosa che mi ha sempre accompagnata nella mia vita, sto dicendo qualcosa di più profondo di quanto non creda. Forse io vedo la vita così, come una pagina bianca da riempire, e tutto quel che mi accade, che indago e vivo, è solo un pretesto per riempire il foglio. Vivere per raccontarla, come diceva Garcia Marquez. Anche quando la racconti solo a te stesso, o forse, soprattutto allora.

10 Tags: , ,

Consoliamoci

Dovrei inaugurare una nuova rubrica: cose che non dovrei dire. Ci dovrei mettere dentro tutti quei post come questi, che non hanno tanto un contenuto particolarmente schietto o orginale, ma sono ad altissimo tasso di polemica. E siccome per me la rete ha principalmente un aspetto ludico, non ho voglia di farmi il fegato grosso. Ma, evidentemente la mia lingua è più rapida del mio fegato, e quindi nulla, vi beccate una riflessione polemica.
Ieri è partita una lunga discussione sul mio profilo Facebook. Si parlava di critica letteraria. E io ho detto una cosa che mi stava sul groppone da qualche settimana, da quando ho letto di una polemica abbastanza inutile circa un premio letterario.
Non parlerò di critica accademica, perché è un ambiente che non conosco a sufficienza, e che mi sembra anche giocare in un altro campionato rispetto all’argomento della discussione. Parlo di blog, perché li conosco decisamente meglio. Di letteratura, in rete, si parla tantissimo. I blog letterari sono anche un po’ la moda del momento. Anch’io faccio critica sul blog, anche se mi esercito più che altro coi telefilm e i film.
All’interno dei blog letterari ce ne sono però alcuni che condividono una certa impostazione di base e una similitudine nei contenuti. Fino a qualche tempo fa credevo che tale sottogruppo provenisse direttamente dai ranghi degli appassionati di letteratura di genere, ma non è così. Le loro recensioni riguardano un po’ tutto. E i recensori non sono solo ragazzi giovani, ma anche gente che scrve su qualche testata. Ho dato un nome al genere letterario di questa corrente: recensione consolatoria.
Passo indietro. Per lungo tempo s’è parlato, e si parla ancora, di romanzo consolatorio, ove per esso s’intende una tipologia di narrazione che piuttosto che indurre il lettore alla riflessione, ad un approccio problematico nei confronti della materia trattata, preferisce semplificare tutto e, in ultime analisi, dare al grosso pubblico ciò che – si suppone – il grosso pubblico ama. Quindi una visione estremamente semplificata dell’esistenza, dei rapporti tra bene e male, una visione tutto sommato rassicurante della vita, in cui tutto è netto e in cui l’etica è cristallina. Chi legge il libro ne esce consolato, appunto, ma di una consolazione effimera e fittizia, perché quel che legge non è un’analisi della realtà, ma l’equivalente cartaceo della pacca sulla spalla quando ti confidi con un amico, dell’”andrà tutto bene” quando invece le cose stanno andando malissimo.
Ecco, secondo me non esiste solo il romanzo consolatorio – che, va da sé, quasi sempre è identificato col libro di successo, che, per carità, è vero spesso, ma non sempre e non automaticamente – ma anche la critica consolatoria, ossia la critica che ti conferma nel pregiudizio che già hai su un libro. Una critica del genere tipicamente non è interessata a dare un reale parere al lettore; serve piuttosto a riconoscersi tra simili, a marcare il territorio. “Anche a me ha fatto schifo Cinquanta Sfumature di Grigio, proprio come a te, e ti dirò di più, noi che non lo apprezziamo siamo meglio dei altri, perché siamo più colti/intelligenti”. La consolazione sta tutta qua: la recensione permette di sentire di appartenere ad una sorta di élite, ci conferma nella nostra autostima, ci esalta perché ci dice che non siamo come “gli altri”, siamo meglio. In qualche modo, esattamente come il romanzo consolatorio, anche la recensione consolatoria dà al lettore ciò che il lettore cerca. Tipicamente, chi legge queste recensioni lo fa per essere confermato nella sua opinione, anche se spesso quest’opinione è un preconcetto, perché il libro non lo si è neppure letto.
La recensione consolatoria è ormai un vero e proprio genere letterario, con tutta una serie di topoi da rispettare. Innanzitutto, il tono sprezzante e di evidente superiorità del recensore nei confronti della materia recensita. Tale tono viene ottenuto soprattutto tramite l’ironia e la presa in giro dell’opera e dello scrittore. Non devono mancare le citazioni dal testo, a volte presentate senza alcun commento – perché si suppone che i loro difetti parlano da soli – a volte accompagnate da una disamina che fa ampio riferimento ai manuali di scrittura creativa. Molto spesso le frasi sono completamente avulse dal contesto e citate un po’ a caso. Quasi sempre, i pezzi sono satirici, ironici, e inducono alla risata.
A questo punto, confessione: eoni fa, ne ho scritte anch’io di recensioni così. Ok, non ho mai offeso lo scrittore o i suoi lettori, ma qualche stroncatura ridacchiante l’ho fatta. È divertente, e in linea di massima sono cose che attirano i lettori, ti portano valanghe di like e applausi scroscianti del pubblico. Se ci fate caso, il vizio non mi è del tutto passato, perché alcune recensioni di film e serie televisive che faccio stanno proprio sull’orlo tra la recensione consolatoria e la recensione e basta. Solo che poi, non lo so, m’ha stufato? Mi sono sentita chiamata in causa perché sono passata dall’altra parte della barricata? Non lo so. Ne avrà scritte due, poi ho smesso.
Ovviamente, non sto dando un giudizio di merito. Ve l’ho detto, queste recensioni sono divertenti da scrivere e garantiscono molti commenti, e molti apprezzamenti. Che poi, secondo me, è la ragione per cui vengono redatte. Ognuno si diverte come preferisce, e non sarò io a imporre paletti. Certo, la maleducazione, l’insulto e la mancaza di rispetto per le persone non mi piacciono, ma finché non si scantona nello stalking telematico e nella persecuzione, direi che si tratta solo di chiacchiere, come del resto il 90% delle cose che si dicono online, che non smuovono di una virgola l’opinione preconcetta di nessuno. Basta solo essere onesti, e sapere cosa si sta facendo: non si sta davvero recensendo un libro, si stanno facendo quattro risate alle spalle di un autore e delle persone che lo seguono.
Per tutti quelli che se la prendono, scatenando flame che fanno la gioia dei recensori: ripeto, sono chiacchiere. La maggior parte delle discussioni online non hanno realmente lo scopo di indurre al confronto. L’ho detto molte volte, e lo ripeto: i blog – questo compreso, probabilmente – sono l’equivalente dello Speaker’s Corner di Hyde Park. Uno vuole solo predicare e farsi applaudire. Stop.

7 Tags: ,

La quadratura del cerchio

In linea di massima, quando scrivo cerco di risolvermi tutti i problemi di trama a priori. Sono una persona ansiosa, e dunque, quando scrivo, devo avere il controllo pieno (un po’ come in tutte le robe della mia vita, per altro, ma vabbeh, non sforiamo nella psicologia de noantri :P ): devo sapere cosa scriverò e quanto, in che contesto quel che ho scritto si inserisce, e via così. Mi serve per evitare il terrore principale dello scrittore: la pagina bianca. Quella roba lì che stai davanti al pc col tuo file aperto e ti dici: e mo’? Una cosa che non mi mai successa. E quindi forse proprio per questo mi fa anche più paura. Per cui, nulla sviluppo la trama prima di cominciare a scrivere anche solo una riga.
Ciò non significa che evito tutti i problemi di trama. Ovviamente ce ne sono, quando schematizzo il tutto. Quando li incontro, in genere faccio brainstorming: raggiungo mio marito ovunque egli sia, e bam! gli racconto il problema e chiedo lumi. In generale funziona. Lui mi dice qualcosa, io aggiungo qualcos’altro, poi ci rifletto, e in genere trovo il bandolo della matassa. Ma la cosa davvero esaltante è la sensazione della quadratura del cerchio. È quel momento particolare in cui, d’improvviso, tutto va al posto che gli compete: la sottotrama poco convincente trova una motivazione forte, che si tira dietro un’idea figa, che va a braccetto con un colpo di scena e si conclude in un finale mozzafiato. Insomma, d’improvviso tutto va al suo posto. O questa è la sensazione. Una sensazione, per carità, effimera come tutte le emozioni forti, ma vi giuro che è fantastica.
Ora, venerdì ho fatto un bel po’ di brainstorming con Sandrone su Nashira 3. Sì, in linea di massima son due le persone con cui faccio questa roba: Giuliano e lui. Sono più o meno a metà, ma c’erano alcuni aspetti secondari che mi lasciavano un po’ così. Non che non andassero: andavano, ma non avevano la forza che mi sembrava potessero esprimere. In questi casi, l’occhio “altro” è indispensabile: l’esterno che legge e ti dà il suo giudizio. Così siamo stati lì a parlarne per tutto il pomeriggio, e me ne sono tornata a casa con un foglio a righe con degli appunti su. Niente di che, ero soddisfatta della giornata, ma non ero particolarmente impressionata.
Poi, stamane, mi metto alla scrivania, con l’intento di aggiornare la metà di libro già scritta con i vari appunti che mi ero presa. Ho cominciato a scrivere, e…voilà. Il cerchio s’è chiuso. Tutto è andato al suo posto, le cose hanno iniziato a tornare, e ogni fatto se ne tirava dietro un altro, come perle di una collana. Un senso di esaltazione che m’ha fatto passare la fame e m’ha fatto scrivere oltre la consueta ora di pranzo, e mi tiene alla scrivania anche ora, per cercare di finire il lavoro.
Ora, non so quanto durerà. La valutazione che do del mio lavoro segue una perfetta sinusoide: per tot giorni penso vada tutto bene, a volte mi esalto anche. Poi piano la curva scende, e per tot giorni navigo nel pessimismo più nero: non funziona niente, questo non mi piace, questo va male…Mi dicono sia più o meno normale, ma, sapete, quello dello scrittore è un lavoro un po’ solitario, io di altri scrittori ne frequento con assiduità solo due, e devo dire che non è che si parli molto del nostro lavoro, più dei fatti nostri :P . Comunque.
Io adesso mi godo questo momento di esaltazione. È uno dei lati belli di questo lavoro. Per ora procede tutto al meglio; mi piacerebbe potervi anticipare qualcosa, ma proprio non si può. Vi posso giusto dire che a questo giro si osa. E dunque si rischia. Ma se non getti il cuore oltre l’ostacolo, che scrivi a fare? Spero il risultato finale sarà soddisfacente, e che vi piacerà.
Torno a laura’ :P

P.S.
Per chi me lo chiedeva, a Torino, il 17, sarà all’Arena Book Stock, come al solito. Tenetevi pronti che in un prossimo futuro ci sarà anche un evento a Roma e un altro paio al centro e al sud. Non vi do ulteriori dettagli perché è tutto in fase di elaborazione e non c’è ancora niente di completamente certo. Come al solito, stay tuned.

16 Tags: ,

Ci sono cose che non capisco

Dovrei farci una rubrica, con questo titolo, perché le cose che non capisco – o meglio, la cui logica mi rifiuto di capire – sono sempre più. Una è questa. Ora, purtroppo cose di questo genere succedono da anni, dall’uscita di Gomorra. Quello che rende quest’episodio ancora più grave è il fatto che qui non stiamo parlando dello striscione di un comune cittadino, che tutto sommato esprime il suo personale parere, per quanto non condivisibile. Stiamo parlando delle istituzioni che hanno avuto un briciolo di vergogna a mettersi dietro quello slogan inqualificabile e parlare alla gente. Un bell’applauso, devo dire, complimenti.
La cosa che però proprio non capisco è che, col passare degli anni, sembra che il problema non sia la camorra, ma Saviano. Ossia, non contano i fatti, ma chi di quei fatti parla. Come se le cose non esistessero per sé, ma solo quando se ne parla. Che è un classico con cui tutti noi, nel privato abbiamo avuto a che fare: la brutta notizia che non dai, perché fino a che non parli ti pare non sia accaduta, il trauma che preferisci tenere per te perché finché ce l’hai solo nel cuore puoi far finta non sia mai esistito. È un meccanismo di protezione comprensibile, ma che a un certo punto deve cadere, anche perché proprio non funziona. E che, applicato ad un intero quartiere, o a una città, è francamente inaccettabile. Le cose ci sono, i problemi esistono e sono ben più gravi della “cattiva fama”. E il primo passo per cambiare le cose è chiamare le cose col loro nome, e accettare la verità parlandone.
Mi rendo conto che non è proprio la stessa cosa, ma io sono cresciuta in borgata, in un quartiere non esattamente chic; la cattiva nomea era attutita solo dal fatto che un chilometro più in là c’era un’altra borgata con fama anche peggiore. E, francamente, non ho mai pensato che parlare dei problemi di quei posti fosse un mancare di rispetto alla gente che ci abitava. E non ho mai neppure fatto mistero del posto da cui vengo, che, pur non amando particolarmente, fa parte di me, e mi ha resa la persona che sono. E il fatto di venire dalla borgata non lo sentivo come un marchio d’infamia: significava solo che, in caso, dovevo rimboccarmi le maniche, far vedere che anche dal mio quartiere poteva uscire del buono, e molto. Che è poi anche la ragione per cui mi piace dire da dove vengo: indipendentemente da dove si è nati e cresciuti, è possibile realizzarsi, ottenere la vita che si voleva. Magari devi impegnarti di più, ma si può fare.
L’altra cosa che non capisco è la risposta di De Magistris alle critiche di Saviano su come Napoli è stata gestita fin qui sotto la sua amministrazione. E qui il discorso diventa più ampio, perché riguarda il posto che uno scrittore ha nella società. In sintesi, De Magistris dice “dacci qualche idea”, che somiglia tanto allo scrittore criticato che, piccato, dice al critico “prova tu a scrivere qualcosa di meglio”, dimenticando che un critico fa un mestiere diverso.
Ecco, il punto è questo. Uno scrittore scrive – lapalissiano, ma non molto chiaro a tutti, a quanto pare – ed è quello il suo strumento di azione. Le parole hanno un peso e una forza, spesso assai maggiore di quel che crediamo, e scavano nella testa della gente come le gocce d’acqua la roccia. Scrivere è agire. Spesso, soprattutto se si pubblica, non si scrive soltanto per divertimento, ma per essere letti, e se si vuole essere letti significa che si ha qualcosa da dire, qualcosa che, se vale la fatica di scrivere, si ritiene importante, necessario di essere condiviso. Perché i libri cambiano la gente. Pensateci, è così.
I sindaci, invece, da che mondo è mondo amministrano. E vengono pagati per avere idee e migliorare le cose. Non è piacevole ricevere critiche, è un’arte saperle incassare, ma è un’arte che un politico dovrebbe padroneggiare bene. Ma in un paese in cui “retorico” ha solo sfumature deteriori, politici se ne vedono sempre meno. Non si capisce poi perché, nel paese dei 60 milioni di esperti su qualsiasi argomento possibile – dal calcio, alla nautica, alla chimica e la fisica, sì, pure loro – gli scrittori non possono esprimere opinioni e muovere critiche. È che, diciamocelo, nessuno ritiene che noi che si scrive si faccia un vero lavoro: per lo più veniamo visti come gente col culo di essere pagati per un hobby. Per carità, l’idea è così radicata che anch’io a volte fatico a considerare il mio un lavoro, con tutte le conseguenze del caso. E invece, ragazzi, è un lavoro, per praticare il quale a volte si pagano anche prezzi altissimi. E torniamo a Saviano.
In ogni caso, che dire, forse l’eccezione sono io, a non capire tutte queste cose. Lo diceva anche Caparezza nell’omonima canzone: “ti fai troppi problemi, Michele, tu ti fai troppi problemi, non te ne fare più”. E a non farcene guarda un po’ dove siamo finiti.

24 Tags: , , ,

Quando un astrofisico scrive fantasy

Chi ha detto che la narrativa deve fare concorrenza allo Stato Civile? Ma forse deve fare concorrenza anche all’assessorato all’urbanistica
Umberto Eco, Postille a “Il Nome della Rosa”, Bompiani, 1986

La domanda in assoluto più ricorrente che mi viene fatta da quando faccio presentazioni (ossia ormai dal lontano maggio 2004) è che cosa c’entri l’astrofisica con la scrittura. È che la Mondadori, comprensibilmente, ha venduto il mio essere astrofisico insieme ai libri, e ovviamente la cosa non poteva non stuzzicare la curiosità della gente: perché un astrofisico scrive fantasy e non fantascienza? È una forma di fuga dalla realtà? Ma, soprattutto, essere un astrofisico aiuta a fare lo scrittore?
Fino ad un annetto fa rispondevo che no, in fin dei conti questi due aspetti della mia vita non erano collegati, che tutto sommato vivevano in momenti diversi della giornata – strano a dirsi, ma scrivevo di notte e facevo l’astrofisico di giorno – e che al massimo applicavo la stessa disciplina mentale e alla scrittura e alla ricerca.
Poi, però, ho iniziato a pensarci. Ma dove sta scritto che le due cose non debbano comunicare? In fin dei conti non mi sentivo esattamente dimidiata: ricerca e scrittura convivevano placidamente l’una al fianco dell’altra, a parte ovvie acrobazie per trovare il tempo di far tutto. Magari esisteva un modo per mettere assieme le due cose, chissà…
I Regni di Nashira è nato allora. Ok, prima forse c’erano altre suggestioni, che erano venute fuori da discussioni con Sandrone Dazieri, mio editor, scrittore e amico. Però l’idea di mettermi a costruire il mondo in modo un po’ più consapevole rispetto alla prima volta che l’avevo fatto e cercando di metterci dentro anche i miei studi, ha giocato un ruolo fondamentale nella creazione del mondo. Per cui: serve l’astrofisica per scrivere fantasy? Sì, serve, e ve lo vado a dimostrare.
Le idee che avevo in testa erano essenzialmente due: volevo un pianeta che girasse intorno ad un sistema doppio – perché Star Wars ci insegna che nulla fa più alieno di un paio di soli in cielo – e in cui ci fosse scarsità d’aria – idea questa che mi era venuta appunto parlando con Sandrone. Per la prima, avevo l’imbarazzo della scelta. I sistemi doppi sono semplicemente due stelle che si girano intorno, o meglio, girano attorno ad un punto chiamato centro di massa. Se una delle due stelle è molto più grande dell’altra, diciamo A è più grande, B è più piccola, il centro di massa cadrà dentro A, e vedremo sostanzialmente B che gira intorno ad A. Altrimenti, vedremo le due stelle che più o meno girano intorno ad un punto che non vediamo.
Di sistemi binari in giro ce ne sono molti. Per esempio, Sirio, una delle stelle più luminose del cielo estivo, è un sistema binario. Esistono anche sistemi multipli, composti da un numero n di stelle legate dalla gravità: Mizar, nell’Orsa Maggiore (magari qualcuno di voi se la ricorderà dalla meravigliosa serie di Asgard de I Cavalieri dello Zodiaco) è composta da sei, dico sei stelle. Comunque. Un sistema binario semplice, con due stelle che si girano intorno, non è nulla di particolare. Io volevo qualcosa di più tragico e spettacolare. Chi di voi ha letto Notturno di Asimov ha visto un pianeta che girava intorno a sei stelle, senza notte. Una volta ogni svariati secoli, le stelle vengono eclissate dalla luna del pianeta, causando pochi, devastanti minuti di notte. Immaginate la notte in un posto che non ne ha mai conosciuta una, in cui c’è sempre luce. Ecco, volevo qualcosa di tragico, che mettesse in discussione le credenze, le certezze degli abitanti del pianeta esattamente come la notte in Notturno.
La fisica mi fa gioco. Il bestiario di sistemi binari è composto da ben più che due semplici stelle che si girano intorno. Una delle due stelle, ad esempio, può essere un oggetto compatto, come una nana bianca. Una nana bianca è il “cadavere” di una stella di dimensioni non molto diverse dal sole: quanto le reazioni termonucleari che la fanno splendere cessano per esaurimento del carburante, la stella si comprime, diventando più piccola e caldissima. Il suo destino è quello di raffreddarsi lentamente – molto lentamente – fino a non essere più visibile. Per inciso, alcune nane bianche sono fatte di carbonio, e il carbonio ad alta pressione diventa…esatto, diamante. Altro che De Beers…Oppure in un sistema binario ci possono essere casi di vampirismo: sotto certe condizioni, una delle due stelle può “succhiare” materia all’altra. L’immagine è suggestiva, come mostrano anche le rappresentazioni pittoriche.

O, ancora, ci sono sistemi binari che contengono buchi neri; un buco nero è una stella morta, come la nana bianca, solo che la stella che l’ha generata ha una massa di decine di volta quella del Sole, per cui, quando il carburante finisce e la stella si spegne – in questi casi in genere lo fa in modo spettacolare, con un enorme botto che si chiama esplosione di supernova – genera un oggetto in cui la densità è infinita. È un concetto impossibile da immaginare, e infatti i buchi neri sono bestie strane e affascinanti, sulla cui stessa esistenza a lungo si è dibattuto. Comunque, come vedete, di roba interessante non ne manca. Per non essere spoilerosa, non vi dirò cosa scelsi più o meno due anni fa, quando iniziai a pensare a Nashira e al suo sistema binario. Chi ha letto il libro, sa quali sono le caratteristiche di Mira, la stella rossa, e Cetus, la stella bianca, che illuminano Nashira. Detto incidentalmente, i nomi non sono scelti a caso: Mira è una stella variabile, ossia la sua luminosità varia nel tempo, e si trova, indovinate un po’, nella costellazione di Cetus. Per altro, Mira è la prima variabile mai scoperta, e il suo nome, infatti, significa “meravigliosa”. Nessuna aveva mai visto nulla di simile, prima. Cetus, invece, vuol dire balena.
Trovato il sistema binario, mi è venuta in mente un’altra idea. Volevo rendere Nashira il più possibile peculiare. Niente di meglio, allora, che agire sull’alternanza delle stagioni. Ad esempio, sarebbe interessante un posto in cui le stagioni non si alternino: ci sono dei posti in cui è sempre estate, altri in cui è sempre autunno, altri sempre inverno…Ma è possibile? Certo che sì. Perché sulla Terra ci sono le stagioni? È a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al piano dell’Eclittica. Innanzitutto, cos’è l’Eclittica: è quel piano sul quale si trovano più o meno i pianeti nel loro moto di rotazione intorno al Sole. Ora, tutti sappiamo che oltre al moto di rivoluzione intorno al Sole, i pianeti girano anche su se stessi, intorno ad un asse. Quest’asse, a seconda del pianeta, ha un’inclinazione rispetto al piano dell’Eclittica. Ad esempio, Urano ha un asse inclinato di circa 8°, il che ne fa un pianeta che letteralmente “rotola” sull’eclittica.

Nel caso della Terra, l’inclinazione rispetto al piano dell’Eclittica è di circa 70°, quasi perpendicolare. Appunto, quasi, e il trucco sta tutto lì. Durante la rivoluzione intorno al Sole l’inclinazione dell’asse terrestre rimane invariata. Ciò significa che l’angolo con cui i raggi del Sole colpiscono la stessa porzione di globo cambia a sei mesi di distanza. Anche qui, vi allego disegnino.

Immaginate che il sole stia al centro della figura. A sinistra, in inverno, la città di Allentown viene illuminata con raggi radenti, a destra, in estate, da raggi più perpendicolari. E sappiano tutti che i raggi radenti illuminano – e dunque riscaldano – meno di quelli perpendicolari. Infatti d’estate al tramonto si respira, a mezzogiorno si muore di caldo.
Dunque, affinché su Nashira non ci fossero le stagioni, bastava far sì che l’asse di rotazione fosse dritto, perpendicolare rispetto al piano di rotazione intorno a Mira e Cetus. Immaginate infatti la stessa figura precedente nel caso in cui l’asse di rotazione fosse dritto. Vi allego ulteriore figura.

I riflettori fanno le veci del sole. Se spostate il pianeta a destra dei riflettori, l’angolo con cui la luce incide sulla superficie, a qualsiasi latitudine – ossia per qualsiasi distanza (angolare) dall’equatore – non cambia. Ecco a voi Nashira.
Ecco qua. È solo l’inizio, ovvio, ma il mondo è creato. E per altro vi assicuro, come quelli che hanno letto il libro avranno già intuito, che la presenza del sistema binario, e la scelta della tipologia dello stesso, ha segnato il destino di Nashira: quando ho fatto quello, la storia è venuta fuori da sola.
Lascio a voi l’interpretazione dell’enigmatica citazione in apertura a questo post. Di mio dico solo che a volte serve un fisico per scrivere una storia ambientata in un altrove :)

Riferimenti per le figure
http://members.wolfram.com/jeffb/poster/poster.html
http://www.astronomy.org/programs/seasons/
http://www.skylive.it/123StellaSistemaSolare/urano.aspx

P.S.
Questo post partecipa al Carnevale della Fisica.

28 Tags: , , ,