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Sherlocked

Il post su Sherlock arriva prima del previsto.
Preparatevi, sarà lungo, perché le sette puntate viste finora mi hanno stimolato una serie di riflessioni generli sullo storytelling. Così, per fingere che non mi sto tanto divertendo a vedere un’ottima serie televisiva, ma sto lavorando :P .
Comunque. Non sono una grande esperta di Doyle, anche se ho letto tipo un racconto su Sherlock Holmes e da bambina amavo, e ho letto svariate volte, Il Mondo Perduto, ma lì c’erano i dinosauri, e all’epoca – ma pure adesso – bastava una squama a comprarmi per la vita. Mi sono quindi avvicinata al prodotto Sherlock semplicemente perché sono orfana di serie televisive da un po’. Visto che i miei amici su Facebook non facevano che parlarne, mi sono comprata i primi due cofanetti. Visione rigorosamente in lingua originale, che così faccio esercizio, e senza sottotitoli, che non sono mai stata capace di leggerli e seguire l’azione.
Diciamo che fino alla seconda puntata della prima stagione l’ho trovato gradevole. Intendiamoci, c’era già moltissimo di apprezzabile. Ma Sherlock Holmes ha trovato otto miliardi di incarnazioni differenti nei secoli, e quel tipo di dinamica – sociopatico geniale, al contempo insopportabile e adorabile, affiancato da uomo comune saldamente piantato coi piedi per terra che rappresenta un po’ il suo lato umano – ci è stata proposta in mille salse diverse, a partire dalle riduzioni cinematografiche e televisive vere e proprie dei racconti, fino a scantonare a cose evidentemenye ispirate a, tipo il Dr. House o in certa misura il rapporto Sheldon-Leonard in The Big Bang Theory. Non che nel caso di Sherlock la cosa fosse riproposta male, o in modo banale. Solo, mi sembrava di averla già vista. Mettiamoci anche che, delle sette puntate che ho visto finora, la 1×2 è la più debole. Poi è arrivato il finale di stagione. E lì, vabbeh, niente, è partito l’amore. Probabilmente è dovuto al fatto che ho una fascinazione per i cattivi sopra le righe, psicotici e interpretati da gente che pare pazza vera, e dunque con Moriarty il mio gusto per il grottesco è stato abbondantemente titillato, sarà che la trama era intricata, complessa, e che indubitabilmente “acchiappa”, sarà che al terzo episodio tutte le dinamiche, le presentazioni del caso, erano fatte, e dunque il meccanismo ben oliato era lanciato, ma, niente, ho capito che stavo diventando dipendente. Poi arriva quel gioiellino della 2×1, e lì ero ormai perduta.
Mi ci è voluto un sacco di tempo per mettere a fuoco perché Sherlock mi piaccia, e perché certe cose, certi snodi, abbiano finito per ossessionarmi. L’impressione iniziale – di cose del genere se ne sono già viste, quanto a nucleo tematico – non è cambiata. E allora? E allora ieri, mentre mi gustavo il primo episodio della terza stagione, ho avuto la mia epifania. Ho scoperto una cosa che sapevo già: non è quel che racconti, è come lo fai. E per come, nel caso di un telefilm, intendo regia, musica, attori, sceneggiatura.
L’originalità è ormai un mito inarrivabile. Cioè, certo, c’è chi la insegue, magari la consegue anche, e fa benissimo, ma la verità è che le storie che funzionano meglio sono quelle che ci siamo sentiti raccontare miliardi di volte. Le conosciamo a memoria, probabilmente a volte ci risultano anche prevedibili, ma non possiamo fare a meno di restare catturati, perché sono seminali. E Holmes, che è sulla cresta dell’onda da due secoli, è una di queste storie. Venuta meno l’originalità, resta solo la messa in scena, il modo di raccontare. E Sherlock, sotto questo punto di vista, è magistrale, in tutto. Novanta minuti di puro godimento. Funzionano gli attori, che, cosa gli vuoi di’, dal primo all’ultimo, compreso quello che compare per mezzo nanosecondo, sono tutti bravissimi, e si producono in interpretazioni che ti resta solo da alzare le mani. Funziona la regia, dinamica, curata e a volte preziosa, senza essere però troppo “fighetta”, con artifici visivi divertenti (tutte quelle scritte a schermo…deliziose). La fotografia è qualcosa di spettacolare: hai una città dove il sole non c’è mai, dove tutto è grigio? ‘Sti cazzi! Approfittiamone! Che sia tutto luccicoso di pioggia, grigio e definito come in un quadro. La sceneggiatura…e vabbeh, pure lì hai tipo venti trenta battute a episodio che ti tatueresti sulla pelle. I soggetti spesso vengono dai libri e dai racconti, e ne sono, a quanto mi dicono coloro che li hanno letti, geniali reinterpretazioni (devo dire che la rielaborazione della famigerata caduta dalle cascate di Reichenbach, in effetti, lo è), per cui funzionano alla grande. La somma di questi elementi dà un risultato impeccabile, in cui tutto funziona, e che soprattutto produce un mondo altro. Guardare Sherlock è infilarsi per novanta minuti in una dimensione parallela e autosussistente, chiusa in se stessa, come infilarsi in una camera insonorizzata e staccare dal mondo. È la capacità della grande narrazione di genere, creare mondi, salotti all’interno dei quali il lettore è invitato ad entrare e ad ammobiliare fino a sentirsene parte. Guardi un episodio, e, non so come dire, sei a casa. Creare mondi non è solo inventarsi il pianeta X con le regole Y; è costruire ambienti che catturino il lettore/spettatore e non lo lascino andare. Sherlock è una macchina per produrre questo. E, ça va sans dir, non è tanto la storia del “caso dell’episodio”, o soltanto di uno che, armato di sola logica, mette ordine nel caos del mondo, per quanto, ovviamente, sia anche questo. È una storia di evoluzione di personaggi, dei rapporti che tessono, delle reazioni che hanno di fronte a ciò cui la vita li mette davanti. Sono i personaggi che funzionano, e quelli che appassionano. Anche questa è una banalità, eppure nella mia carriera di lettrice spesso mi sono imbattuta in libri in cui leggevo le gesta dei protagonisti e non mi interessava davvero nulla di loro o di quel che sarebbe accaduto. La gente si limitava a fare cose e vedere gente (cit.) senza produrre mai un vero coinvolgimento col lettore. A quel punto puoi anche ammazzarmeli tutti, se non sono entrata nella loro testa nessuna di quelle morti, per quanto egregiamente scritta, sarà un picco emotivo. Ecco, in Sherlock ti frega di tutti, ma proprio tutti. Nell’arco di soli sei episodi, sono diventati tutti amici miei per i quali spasimo. E non è facile.
E poi c’è questa storia del primo episodio della terza stagione, quella che davvero mi ha fatta riflettere. Da qui in giù sarò spoilerosa per chi non conosce un po’ le vicende dell’Holmes letterario, e un po’ anche con chi non è ancora arrivato a questo punto della serie. Niente di che, comunque. E insomma, la seconda stagione terminava col finto suicidio di Holmes, e lasciava alla terza l’improbo compito di spiegare come aveva fatto Sherlock, in tre secondi netti in cui Watson non guardava, a fingere di spiaccicarsi per terra ma in realtà a sopravvivere. Mi dicono che i due anni trascorsi tra seconda e terza stagione sono stati impiegati da molti fan a cercare di spiegare come questa cosa sia stata possibile. Ci troviamo insomma in una situazione à la Lost: mettere insieme gli indizi per cercare di spiegare una cosa inspiegabile. Lost se l’è cavata sparando nel misticismo. Sherlock è ancora più paraculo: nemmeno ci prova a darti una spiegazione. Ne inanella quattro o cinque nell’episodio, tutte sostanzialmente implausibili per una ragione o per l’altra (ma tutte che strizzano in qualche modo l’occhio al fandom che s’è scervellato) e conclude senza darne nessuna. La reazione dello spettatore dovrebbe essere di frustrazione e rabbia. E invece no. Al netto delle varie opinioni, non gliene frega niente a nessuno. A me non è fregato niente su tutta la linea. Ma zero proprio. E perché? Perché è tutto “a magic trick”, un gioco di prestigio. Il narratore agita le mani, e se le muove bene, a te non interesserà sapere da dove è uscito il coniglio: ti godrai la magia, sarai tornato bambino per un attimo, e il trucco sarà irrilevante. Così con le narrazioni fatte per bene. Chi sa narrare, chi lo sa fare per davvero, è in grado di far passare il lettore sopra a molte incongruenze e implausibilità. Non sto dicendo che si debba fare, non sto dicendo che la maggioranza lo fa: dico solo che quando una storia ti prende per davvero, certe cose semplicemente smettono di avere importanza. E perché? Perché, semplicemente, non sono quelle il punto. Non era importante, ai fini della trama, dello sviluppo dei personaggi, persino della loro caratterizzazione, sapere come Sherlock sia sopravvissuto. Non è il fulcro della narrazione (lo era invece, per inciso, in Lost, che ci aveva fondato su tutta la sua mitologia). Siamo tutti Watson, quando Sherlock inizia a cercare di spiegare come ha fatto a portare a casa la pellaccia. Non ci interessa sapere come ha fatto, ma perché. Tutto qua.
Ammetto che il trucchetto mi ha lasciata ammirata. È stata una scelta coraggiosa, ma assolutamente vincente: è la potenza della storia, della narrazione, che vince su tutto. Ma devi essere bravo, un sacco bravo, fuori scala.
Comunque. Come avrete capito, io in quel salotto sono entrata e mi ci sono fermata, ritagliandomi il mio bell’angolino. E ho lasciato che l’illusionista facesse su di me tutti i trucchi che voleva. Ci sono dentro. L’unico, vero problema è l’estrema brevità del tutto: ogni serie conta tre puntate, che durano 90 minuti, certo, ma fanno comunque sei episodi di una serie televisiva normale, di quelle da 26 episodi a stagione. Poco. Già oggi mi sono rifiutata di vedere la 3×02 perché poi ne manca una sola (in tutto, al momento, sono tre stagioni), poi mi tocca aspettare, che palle…Ma il marito non è stato ancora catechizzato, per cui conto almeno su una visione ulteriore. E poi, poi si aspetta. Sperando che pure questa non faccia la fine di Misfits, una delle più grandi delusioni di questi anni di serie televisive. Ma voglio essere ottimista, via :) .

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La scrittura, la sofferenza, la morte

No, non vi preoccupate, il post è molto più allegro del titolo :P . Però mi andava di parlare di una vexata quaestio che è tornata in auge con – sì, ci sto tornando su, lo ammetto – Masterpiece: l’artista e la sofferenza.
Questa storia dell’artista che soffre me la sento ripetere da quando ero bambina, assieme a “chi è più sensibile soffre di più”. Come tutti i bambini, ci ho creduto moltissimo, e l’ho fatto fino a pochi anni fa, quando ho capito che “sono sensibile, per questo sto male” era diventato un alibi per sentirmi meglio degli altri e crogiolarmi in tutte le mie insicurezze senza far niente per risolverle, superarle o almeno metterle nella giusta prospettiva. Questo per inquadrare il discorso in una cornice più personale.
Credo che presso la nostra società ci sia un equivoco di fondo: quest’idea che l’artista sia un essere superiore agli altri. Siccome anni di romanticismo ci hanno insegnato che chi soffre è nobilitato, l’artista, nella percezione comune, ha da soffri’. La prima puntata di Masterpiece lo dimostra chiaramente: tra concorrenti che cercano di aderire il più possibile allo stereotipo, e giudici che cercano di cucirglielo addosso, è tutta un’esaltazione dello spirito tormentato dell’artista, fragile e disperato, che s’ammazza di cirrosi epatica prima dei quaranta, che dopo fa brutto.
Solo che io non credo sia così. Esistono sicuramente fior di studi che individuano collegamenti tra la malattia mentale e la genialità, ma si parla appunto non di spleen, ma di malattia. Perdonatemi se stento a credere che la morte per suicidio di chi soffre di depressione bipolare sia rubricabile sotto “sofferenza esistenziale”: è come morire di cancro, il tremendo esito di una malattia che ha tra i sintomi i pensieri suicidiari. Comunque, come in tutte le cose che coinvolgono la mente, non c’è un rapporto uno a uno tra malattia mentale e tendenze artistiche: non è che tutti gli artisti sono matti e viceversa.
Inoltre, la sofferenza è semplicemente un’esperienza umana, che intride in modo più o meno profondo le vite di tutti. La differenza tra l’artista e chi fa un altro lavoro sta semplicemente nella capacità del primo di esprimere questa sofferenza in forme che la rendano intellegibile, condivisibile dal pubblico. Tutto qua. È come saper cantare, saper cucinare da dio, essere bravo ad aggiustare cose. Un talento non dissimile da altri, e che per altro si sposa a volte – come è normale che sia – a personalità magari non limpidissime, a un carattere francamente di merda, magari. Da cui l’importanza di separare l’arte dalla vita dell’artista. Esempio classico, Céline che era antisemita, la Riefenstahl e il ruolo che ha giocato nell’affermazione del nazismo.
Poi, considerando che io mi ritengo sostanzialmente un artigiano della parola, forse non sono la più titolata a parlare di arte e sofferenza. A me piace raccontare storie, e lo faccio da ben prima che avessi chiaro cos’è la sofferenza spirituale. Però, secondo me, dire che l’arte nasce sempre dalla sofferenza è una generalizzazione che, al solito, riduce la molteplicità della realtà ad una serie di modelli che ci aiutano a non aver troppa paura della complessità. Sennò, se ti accorgi di avere un minimo di talento, vedi di infilarti in situazioni di grande sofferenza e sarai il prossimo Baudelaire.
Quel che credo serva per scrivere è forse uno sguardo più acuto, curioso, direi, sulla realtà, sulla vita e sulle persone. E serve saper vivere con intensità, nel bene e nel male, e quindi boh, forse i periodi down per uno scrittore sono più down del normale, ma anche i periodi up sono più up. Io personalmente, dopo anni di piagnistei, ho realizzato di essere una persona perfettamente nella media: un po’ ansiosa, con una tendenza vaga allo sbalzo d’umore che però con gli anni ho imparato a controllare, e la vita più splendidamente normale del mondo. E, vi voglio rassicurare: non dovete soffrire come cani per fare i narratori come me :P .

P.S.
Due aggiornamenti sui miei spostamenti: a parte la mia partecipazione al Salon du Livre e de la Presse Jeuness di questo fine settimana, di cui vi renderò conto meglio domani, ci sono due nuovi appuntamenti a Roma.

Giovedì 5 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Piazza Cola di Rienzo
ore 17.30
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Sabato 7 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Centro Commerciale Roma Est
ore 17.00
Firma copie

Dai, che ne abbiamo di occasioni per vederci ;)

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Quel momento irripetibile

Come succeda coi figli, non lo so ancora esattamente. Ho vissuto la cosa dall’altra parte della barricata, ma guardare la velocità spaventosa con la quale crescono, con la quale passano dall’essere bisognosi di tutto a farsi la prima chiacchierata via telefono con un’amica, credo di aver capito un po’ come funziona. Ad un certo punto, semplicemente, ti devi arrendere. Hai fatto quel che potevi, e i tuoi figli ormai sono grandi. Non hanno più bisogno di te che gli fai da scudo contro il mondo, e sono pronti per andarsene in giro da soli, per essere adulti davvero. E non puoi chiuderli dentro casa, e far finta che sia tutto come quando gli cambiavi i pannolini. Hai fatto quel che potevi, hai cercato di dar loro tutti gli strumenti necessari per cavarsela, per viversi la loro vita. Li devi lasciare andare, anche se è doloroso, anche se hai ancora bisogno di loro, o hai paura di non aver fatto tutto quel che avresti dovuto.
Ecco. Lo so che è il paragone più trito della storia della letteratura, ma coi libri è esattamente così.
Ieri sera ho iniziato la correzione delle bozze, l’ultimo atto che prelude alla stampa, e dunque alla vita adulta del libro. E vi assicuro che fino a ieri pomeriggio dentro di me sentivo che c’era ancora un sacco di lavoro da fare, che mancava omogenieità, che quel passaggio psicologico lì andava approfondito di più, che questa scena avrei potuto descriverla meglio…E invece, mentre leggevo i primi venti capitoli di Nashira 3, improvvisamente mi sono accorta di una cosa: che ormai era un libro. Non era più una bozza, un insieme di capitoli di rivedere, una storia con delle cose ancora fuori posto. Era proprio in libro. Pronto per andare in giro per il mondo. E quando uno scrittore dice che un libro, una volta stampato, non gli appartiene più, non sta facendo allegoria di bassa lega, sta esprimendo una cosa vera, provata. Perché una volta che l’hai stampato, al libro non puoi più metterci mano. È così, è giunto alla sua forma definitiva, quella sulla quale non hai più potere. Se ne andrà per il mondo, ognuno ci leggerà quel che vorrà, ognuno lo capirà a modo suo, e tu non ci potrai più fare niente.
Hai fatto tutto quel che potevi? E chi lo sa. Ma fare altro non servirebbe più niente, se non a stuzzicare il tuo ego, a rimandare l’inevitabile: il momento in cui la tua storia sarà un libro, e dunque incontrerà il lettore.
Paranoie ne avrò ancora a non finire; del resto, sto continuando a spostare un verbo qua, togliere un aggettivo, cambiare un nome. Ma il libro ormai è grande, e se lo tengo ancora qua con me, se insisto a lavoraci su, rischio di tarpargli le ali, come quei figli che non hai il coraggio di lasciar andare via, e allora te li tieni lì stretti al petto fino a quando diventano incapaci di cavarsela da soli. Nashira 3 se ne deve andare per il mondo, non c’è niente da fare. È arrivato il momento.
Soddisfatta è una parola grossa, che credo non sarò mai in grado di usare applicata a qualsiasi prodotto della mia mente. La soddisfazione non è roba di questo mondo. Ma dentro c’è quel che volevo metterci, e mi appartiene ad un livello profondo. Parla delle mie speranze, delle persone che ammiro davvero, di cosa vorrei da questo mondo.
E allora va bene così, non dev’esserci altro. Immagino che entro fine settimana avrò finito di spostare le virgole, e il testo se ne andrà a Clés, in quel posto lì dove i files diventano libri. Da lì in poi, io non c’entretò più nulla. C’è niente di più spaventoso ed esaltante di questo?

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Buche di potenziale – appuntamenti

Ieri sera ho postato su Twitter uno stato che ritenevo tutto sommato abbastanza neutro, ossia questo

“Oggi sono preda di un inarrestabile crollo nella mia autostima di scrittrice. Così, per completare la consueta sinusoide.”

Non mi sembrava nulla di particolarmente originale, anche perché, eoni fa, spiegai come funziona la mia testa, e introdussi la mitica sinusoide, che regola la mia esistenza da quando ne ho memoria. La sinusoide si applica a molteplici aspetti della mia vita. In alcuni campi, con una fatica infinita, sono riuscita a debellarla, ma in altri resta lei la padrona. Il mio lavoro è uno di questi ambiti. Per me è una cosa tutto sommato normale, persino positiva, direi: sentirsi arrivati e soddisfatti significa essere arrivati alla fine del percorso. Se uno ha scritto esattamente quel che voleva, esattamente come lo voleva, è tempo di fare un altro lavoro. L’insoddisfazione è la molla che ci spinge al miglioramento, ad una continua progressione verso qualcosa di più alto, tipicamente irragiungibile. Per chi ha come modello ideale Il Nome della Rosa è ovvio che la ricerca non potrà finire mai, visto che io non ho né le capacità né il talento per produrre qualcosa di simile. Comunque.
La cosa non è stata percepita allo stesso modo dagli altri Twitteri e dai Facebookari, che sono accorsi in massa a consolarmi e a dirmi che no, ma non mi devo abbattare, qualcuno era anche un po’ irritato, secondo me.
E invece io ho sempre pensato che i minimi della sinusoide siano il prezzo da pagare per fare questo lavoro. Tiè, ero persino convinta che fosse una cosa che capita a tutti gli scrittori. Il fatto è che l’arte è tutta animata da un unico paradosso: il tentativo disperato di tirar fuori dalla testa quello che c’è dentro, e cercare di trasporlo su tela, carta o quel che sia nel modo più fedele possibile. Il problema è che le emozioni sono emozioni, e le parole sono parole, e lo scarto tra le due non può essere colmato. E questo senza neppure contare altre variabili assai importanti: il talento e le capacità, di cui ciascuno di noi è fornito in modo del tutto arbitario, e che modulano ovviamente il risultato dei nostri sforzi. Va da sé che quindi per l’autore l’opera perfetta non esiste, o per lo meno non esiste per me.
Il fatto è che per me scrivere è spesso una questione di esaltazione: mentre lo faccio – e quando mi dice bene, ovviamente, non sempre è così – mi sembra di essere preda di un incantesimo. Ho l’illusoria sensazione che ci sia un filo diretto che dalla mia testa finisce sulla pagina, e trasporta le mie ossessione dall’una all’altra nel modo più efficace. È il momento di godimento massimo, quello per il quale scrivo io, paragonabile a quel che si prova quando si legge un libro che ci piace molto. Solo che “post coitum omne animal triste”; l’illusione di pienezza e simbiosi col creato svanisce, tu vai avanti con la tua vita, il tempo di cattura di nuovo, e quelle ossessioni che ti hanno spinto a scrivere, proprio perché le hai scritte, se ne vanno. Un giorno ti trovi a rileggere quelle pagine, e d’un tratto non capisci più perché ti erano piaciute tanto. È così.
L’ultima volta mi è capitato con la fine di Nashira 3. Gli ultimi capitoli li ho scritti in trance. Era una cosa che mi stavo scrivendo e riscrivendo in testa da circa un anno, e non vedevo l’ora di metterla giù. Un giorno ho scritto 45000 battute, sembravo posseduta, non riuscivo a fermarmi. A un certo punto avrei voluto rificcarmi in testa tutte quelle parole, solo per poterle riscrivere ancora, e ancora, e ancora. Per un giorno ho creduto di avercela finalmente fatta: di aver scritto quel che volevo, e come lo volevo.
Solo che poi il libro è finito, e io sono affondata “nella disperazione dello scrittore che non scrive”, come diceva la Yourcenar – leggi, sono tre settimane che non racconto niente -, l’ossessione del momento, con una certa difficoltà, devo ammetterlo, si è spenta, e intanto è successa una di quelle piccole cose che preludono al disastro. Si tratta sempre di eventi assolutamente insignificanti: un commento buttato lì con noncalance, una riflessione sul futuro, persino l’offerta di un nuovo lavoro. Ma basta. Nasce il dubbio, che piano si alimenta, e più ci pensi e più si ingradisce, fino a quando tutto viene giù. Di botto. È come quelle persone che allineano le tessere di un domino, a formare complesse geometrie, e quando hanno finito, quando hanno posizionato l’ultimo pezzo, ne buttano giù una. A cascata, crolla tutto. E non è tanto che pensi che tutto quel che hai fatto faccia schifo, no: hai il dubbio che faccia schifo, che è anche peggio. Hai il dubbio di essere peggiorata negli anni, hai il dubbio di non essere riuscita a far la differenza mai, neppure con una singola persona, hai il dubbio di aver avuto la tua opportunità di far qualcosa di grande, ma l’hai sprecata e adesso niente, game over.
Ho riletto quelle pagine di Nashira 3 che mi piacevano tanto. E, intendiamoci, non è che adesso non mi piacciano più. Sono ancora convinta di quel che ho fatto, ma ugualmente le riscriverei tutte. Forse lo farò in editing, chissà. Ma so che questo non le migliorerà. Passato un mese, ne sarò di nuovo insoddisfatta come ora.
Il fatto è che io credo che questi periodi di nero mi servano. È tutto un drammatico equilibrio sull’abisso, perché lo scoramento ti può bloccare – e quante volte l’ha fatto, nella mia vita – ma è anche un pungolo. Io ho bisogno di tutto questo, come il tossico che ha bisogno della sua dose, anche se sa che lo avvicina di un passo di più alla tomba. Sono queste le ossessioni che nutrono la mia continua ricerca, questi i sentimenti che mi spingono ancora e ancora a scrivere, e sì, forse è sempre la stessa storia, ma è così perché io con quela storia non ci ho ancora fatto i conti. Non è come la vorrei, non è come la sento qua, sotto lo sterno. Non sarà mai come la voglio, lo so, ma devo continuare a provare, non posso fare altro, è la mia natura.
In fin dei conti, è uno dei molti prezzi che la vita esige. Tutto costa qualcosa. Quest’avventura mi costa questo, e considerando quanto mi diverta, mi serva scrivere, e le soddisfazioni che mi dà, è un prezzo che pago volentieri. Per cui, non vi preoccupate quando scrivo stati del genere: non cerco attenzione, né sto meditando il ritiro dalle scene. Vi sto solo spiegando come funziona la mia testa. E ora, veniamo alle cose serie :) .
Questo fine settimana sarò a Pietrasanta per Anteprime, il festival nel quale gli scrittori parlano della loro prossima opera. Per me, si tratta di Nashira 3. Nashira 3, l’avrete capito, è un libro cui sono molto legata; lo sento, più degli altri, non so neppure dirvi il perché. Dovrò fare lo slalom tra gli spoiler per parlarvene, perché, come vi ripeto da due anni, Nashira è molto più di quel che si è visto finora, e quel molto viene in parte spiegato da questo libro. Inoltre, succede una cosa importante, forse anche un po’ controversa, via, ma spero vi piacerà. L’appuntamento è il 9 giugno, ore 18.30, al Campo della Rocca.
Il 14 giugno, invece, ore 18.30 presento Francesco Falconi e il suo Muses 2 – La Decima Musa a Roma, alla Libreria Mondadori di Via Tuscolana.
Il 18 giugno, ore 18.00, l’appuntamento è alla Feltrinelli di Largo di Torre Argentina, sempre a Roma, dove presenterò Francesco Gungui e il suo Inferno.
Infine, il 22 e il 23 giugno parteciperò al Cavacon, a Cava dei Tirreni. Tre appuntamenti: il 22, ore 12.30, presso lo Space 1, presenterò la prima Trilogia de La Ragazza Drago, mentre alle 16.00, presso lo stand Mondadori, ci sarà una firma copie. Il 23, invece, ore 11.00, assieme a Barbara Baraldi terrò un workshop sulla scrittura allo Space 1/Sala Teatro.
Come vedete, giugno intenso e tante occasioni di vederci. A presto!

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