So di addentrarmi in territorio minato, ma vorrei dire due parole circa una discussione cui ho partecipato ieri. Riguarda questo post di Sandrone. Appena l’ho letto, l’altro giorno, sono rimasta abbastanza di sasso. Il mio primo pensiero è stato che se avessi letto una cosa del genere dieci anni fa, probabilmente avrei dato fuoco alle Cronache e morta là. Qualcuno probabilmente sarebbe stato contento
, altri meno, e di certo non io né la casa editrice. Poi ho riletto, ho ponderato, e ho trovato cosa mi trova concorde e cosa no. Partiamo dal primo punto.
Quel che dice Sandrone, da molti punti di vista, è vero. Dipende certo dal carattere, e ognuno, dopo la pubblicazione, si fa il sangue amaro per ragioni differenti – le mie ve le ho sempre spiegate qua sopra – ma essere autori pubblicati non è per nulla rose e fiori, ci sono aspetti che da lettori non si riesce a immaginare, si entra in contatto in profondità con molta gente, e non sempre si è preparati. Vi faccio un brevissimo esempio: a Cava, una delle persone che è venuta ad incontrarmi lavorava nel reparto di oncologia pediatrica. Mi ha detto che a molti dei bambini passati di là ha raccontato le mie storie, e che molti di loro, purtroppo, non ce l’hanno fatta. È una cosa che inorgoglisce, ma al contempo non si può fare a meno di sentirsi toccati dal dolore che le mie storie hanno sfiorato, e non si può al tempo stesso evitare di sentirsene in parte coinvolti. La scrittura non è un gesto a senso unico, lo scambio è reciproco, e bisogna avere a volte le spalle larghe per riuscire a condividere qualcosa coi lettori. E qui si viene al punto fondamentale della lettera di Sandrone: a sedici anni si è giovani. Non è soltanto questione di saperne poco della vita, che è vero, ma quando abbiamo sedici anni non siamo in grado di capirlo né vogliamo accettarlo. Si tratta di non essere in grado di sostenere il confronto col pubblico, le critiche, i veleni, le delusioni, e persino le cose belle che l’esporre i proprio scritti comportano. Sono cose che possono far male quando si è adulti fatti e finiti, figurarsi da ragazzini. In seconda istanza, la critica di Sandrone credo sia volta al sistema, quel sistema che genera schiere di persone incapaci di accettare il rifiuto, chiusi in un delirio personale per cui non è mai colpa nostra, ma sempre degli altri. Lo slogan di uno dei siti di autopubblicazione più diffusi è “se l’hai scritto, va pubblicato”. No, per niente. C’è tantissima roba che ho scritto che è francamente senza né capo né coda, che resterà chiusa in un cassetto e sta bene là, e altra che invece forse potrebbe piacere, se letta, ma che io non ho alcuna intenzione di condividere, perché troppo intima, e che ho scritto solo per me. La pubblicazione non è un diritto: nella mia storia, la pubblicazione è stata un fortuito incidente di percorso. Non sognavo di fare la scrittrice, da bambina, volevo fare lo scienziato, e ho iniziato a scrivere le Cronache perché mi volevo divertire, perché volevo farlo da tantissimo tempo, era un bisogno. Poi, certo, ho ricercato la pubblicazione, ma non avevo nessuna certezza. Non pensavo di aver scritto il capolavoro del millennio e non avevo neppure un piano B, in caso Mondadori e l’altra casa editrice non avessero risposto. Volevo provarci, come forma di rispetto nei confronti di tutto il lavoro profuso in quelle 1200 pagine. Ed è andata bene. Ma questo non significa niente, purtroppo.
Io credo che l’umiltà, in questo lavoro, sia altrettanto importante di quel pizzico di superbia che è necessaria per spedire un manoscritto all’editore. Devi aver coscienza dei tuoi limiti, accettare il responso di chi, per forza di cose, se ne intende più di te, anche perché prima del lettore c’è l’editor, e dio solo sa quante volte m’ha irritata vedermi corretta, eppure ho inghiottito amaro, solo perché sapevo perfettamente di avere torto. Ma è nella nostra natura sentirci sempre nel giusto, e ci vuole fatica per forzarci ad accettare i consigli altrui.
Ecco, iniziare convinti di voler fare gli scrittori e poi scrivere non è un buon modo per iniziare. Prima, secondo me, deve venire il divertimento, perché se non ti diverti quando lo fai sostanzialmente solo per te, come farai a tollerarlo quando di mezzo ci sarà il pubblico, l’editor, l’editore e dio solo sa chi altro? Si dovrebbe scrivere perché si vuole farlo, non per essere pubblicati, e ancora più triste è non divertirsi a sedici anni, quando tutto dovrebbe essere scoperta. L’esaltazione di quegli anni là, ve lo dico, spesso non torna più, bisogna godersi le cose allora, perché la prima volta è una sola.
Io lo so cosa direte: facile per te che sei arrivata. Vi ho già detto che non è facile per niente, e ad arrivare non si arriva mai, perché questo è un cammino di insoddisfazione perenne. Ma quel che voglio dirvi non è di non provarci, ma di farlo con lo spirito giusto, con le giuste aspettative e con quel che po’ di consapevolezza che vi eviterà treni in faccia. E se proprio volete, fatelo pure a sedici anni, anche se di Moravia ce n’è uno ogni non si sa quanto: provateci, ma senza farne un’ossessione, senza farvi il sangue cattivo. E mettendovi ogni tanto pure in discussione.
Su cosa non sono d’accordo? Sull’utilità generale di consigli come quelli – sacrosanti – di Sandrone. Chi ha una certa sensibilità e un certo modo di vedere il mondo, queste cose le sa già, e anzi deve combatterci contro per trovare la forza di spedire il manoscritto. Incidentalmente, questa gente è anche quella che più probabilmente ha talento. Tutti gli altri, semplicemente non ci crederanno, o grideranno al complotto dell’editoria cattiva, o qualsiasi altra cosa che li confermi nell’idea di essere dei martiri perseguitati. E tra loro, probabilmente quelli bravi saranno pochissimi. Sì, in effetti anche questo mio interminabile pistolotto è inutile, anche perché si capiscono certe cose solo quando le vivi; se le racconti da fuori, nessuno ci crede.
Poi, ognuno fa quel che vuole, la vita è sua, il libro è suo. Il successo una cosa misteriosa, il talento è ancora più imperscrutabile e la vita, spesso, crudele. Basta saperlo.