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Telefilmania: Once Upon a Time

Stavo pensando di inaugurare una serie di post sulle serie televisive. Un po’ di tempo fa dissi che avevo l’impressione fosse finita l’epoca d’oro dei serial americani, e che in giro non trovavo niente che mi acchiappasse come un Lost dei bei tempi, o un Dexter prima stagione. Ecco, anche no. Ho trovato una serie di cose interessanti da seguire e attualmente mi trovo anche un po’ intasata. Non dico che riaprirò la premiata serie “Commentiamo insieme il telefilm del giorno” (per chi se la ricorda…erano eoni fa, più o meno), ma un commentino su alcune serie che sto seguendo vorrei farlo.
Cominciamo da Once Upon a Time (da qui in avanti OUAT), in italiano C’Era una Volta, che mi permette per altro di fare una discettazione su un grosso problema delle serie televisive USA. Comunque. Breve riassunto per chi non conoscesse: i personaggi delle fiabe esistono, vengono da un mondo parallelo al nostro, e sono finiti bloccati, privi di memoria e costretti a rivivere più o meno a ripetizione sempre lo stesso giorno, nel nostro mondo, nello specifico nella città di Storybrook, causa Regina Cattiva che li ha sbattuti tutti di qua – e si è autosbattuta in loro compagnia – per averla vinta sull’odiatissima Biancaneve. Il plot dà la stura a tutta una serie di reinterpretazioni più o meno riuscite delle fiabe classiche – e non solo delle fiabe, visto che ad un certo punto viene fuori anche Frankenstein -.
Metto le mani avanti: il vero appassionato di famiglia è Giuliano, che, siccomeche è un regazzetto sensibile (Zerocalcare cit.), queste cose ci piacciono (alert grammar nazi: è scritto sgrammaticato apposta). Io comunque lo seguo con discreto piacere. Diciamo che in generale la confezione è media: media la recitazione, media la sceneggiatura, medio il livello di approfondimento delle tematiche trattate. Ma ci sono due eccellenze: la Regina Cattiva e Tremotino, al secolo Lana Parrilla e Robert Carlyle. Che, innanzitutto, sono due attori straordinari, e si vede. Poi sembrano scritti da altri sceneggiatori: sono credibili, complessi, sfaccettati. Tremotino da solo regge sostanzialmente metà del plot, visto che incarna quella decina di personaggi delle fiabe – per dire, è anche la Bestia – ed è imparentato con metà degli altri. Le puntate che li riguardano sono sempre di alto livello, e godibilissime. Diciamo che seguo la serie per loro due.
Ora, la prima stagione aveva il pregio di essere un prodotto estremamente consapevole di limiti e punti di forza, e dunque molto onesto; inoltre, aveva una bella trama lineare e compatta che, meraviglia delle meraviglie, si chiudeva con la fine della stagione. Un mezzo miracolo. Certo, poi c’era il cliffhanger per la successiva, ma era una cosa gestita in modo molto intelligente e per nulla fastidioso.
Seconda stagione. Che parte col botto. Si rinnova, senza snaturarsi, apre anche una sottotrama interessante ambientata nel mondo delle fiabe. Tutto perfetto. Fino a metà stagione, quando inspiegabilmente la trama nel mondo delle fiabe viene chiusa e la serie in america si prende la sua pausa natalizia. Al ritorno, il delirio. La seconda stagione inizia a oscillare paurosamente tra puntate di assoluto valore e altre noiose o semplicemente incomprensibili nell’economia della storia: cattivi nascono e muoiono nel giro di poche puntate, i personaggi fanno cose incoerenti o incomprensibili, mentre il deus ex-machina e le soluzioni di trama cheap diventano i veri protagonisti. Un delirio. L’ultima puntata che ho visto, la 18, è semplicemente irritante: innanzitutto per l’evidente pigrizia degli sceneggiatori, che mandano avanti la trama a pedate nel sedere (Henry: “Ci servirebbe la Blue Fairy, andiamola a cercare!”; Blue Fairy, comparendo dal nulla: “Eccomi qua!”; eh, sì, ce piacerebbe…), e poi per il modo raffazzonato e inverosimile col quale vengono legati assieme elementi di trama che, è evidente, erano stati infilati senza sapere che senso avrebbero avuto. Ed ecco che OUAT inizia a mostrare segnali preoccupanti di Lostismo. Avete presente il Lostismo, no? Quel modo paraculo di fare sceneggiatura infilando “misteri” nella trama che sono fini a se stessi e dei quali non si ha alcuna spiegazione, dicendosi “Ma sì, dai, poi qualcosa ci inventiamo”, solo che poi gli anni passano, arriva l’ultima stagione, e tu non hai avuto manco mezza idea, e tutto finisce che se stappi l’isola poi quella affonda. Dio, mi ci vorranno anni di psicoterapia per brasarmi la mente dal finale di Lost…
Comunque. OUAT si è sempre rifatto a Lost in modo dichiarato: innanzitutto nella struttura, che alterna flashback a parti ambientate nel presente, e poi con tutta una serie di inside jokes tipo i numeri ricorrenti, il fumo viola della maledizione della Regina Cattiva, evidente rimando al Fumo Nero, l’apertura delle inquadratura su occhi che si aprono…roba così. Adesso lo plagia direttamente negli stratagemmi di scrittura. Peccato che Lost avesse dalla sua una cosa che a OUAT manca: la capacità di portare a casa sempre e in modo egregio l’episodio. Ok, c’è qualche eccezione, su sei stagioni è fisiologico. Ma la scrittura del singolo episodio è quasi sempre magistrale, senza contare l’approfondimento dei personaggi, il livello della interpretazioni…tutto. Ed era questo tutto a farci dire, ancora oggi, che Lost è un pezzo di storia della televisione, nonostante tutto. Ecco, OUAT tutto questo non ce l’ha, e dunque qualsiasi passo falso nella trama, orizzontale o verticale, risalta come una patacca di cioccolata su una tovaglia immacolata.
Il problema, e qui veniamo all’excursus che vi dicevo in apertura, è che evidentemente la serie non è stata progettata fin da principio per durare più di una stagione. È una cosa comprensibile: una serie tv è soggetta a vincoli di vario genere, e la durata della sua messa in onda dipende da molti fattori. Quando cominci a scriverla, non sai se e quanto durerà. Questo impedisce a prodotti tipo Lost, basati sul mistero, di chiudersi in modo degno. C’è chi aggira il problema creando dei personaggi, e legando ad essi la serialità (che ne so, The Big Bang Theory) o cambiando le carte in tavola ad ogni stagione (American Horror Story) e chi invece si ostina. OUAT appartiene a quest’ultima categoria. Ora, sarebbe anche stato comprensibile che gli autori non avessero progettato già una seconda stagione quando OUAT fece il suo esordio; non si capisce invece perché non si siano peritati di scriversi il plot di tutta la seconda stagione quando quest’ultima è stata confermata. Perché è evidente che ormai vagano senza bussola, per mera accumulazione: i cattivi di stagione si sono rivelati assai deludenti (anche perché, francamente, Tremotino e la Regina Cattiva hanno stabilito uno standard piuttosto alto, al riguardo), così tanto che uno non sappiamo manco dove sia finito, l’ultima volta l’abbiamo visto sbattuto in uno scantinato e non se n’è saputo più niente, per cui via, cambiamoli! Ma che senso ha infilare una nuova cattiva out of nowhere alla puntata 18? Taccio poi sull’azzeramento della minaccia rappresentata dal personaggio che arriva dall’esterno a Storybrook e sembrava chissà che dovesse combinare.
Ok, ok. C’è un chiaro errore in tutto quel che ho detto. La serie non è finita. Magari salveranno capra e cavoli alla fine. Resta il fatto che la serie ha oscillato per una stagione intera, senza mantenere un chiaro standard qualitativo e senza riuscire neppure a prendere una direzione precisa. Bon, vedremo che succederà con l’episodio di stasera.

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Game of Thrones

Finalmente, eccomi a parlare con un po’ di calma di Game of Thrones. Chi ha visto la mia intervista di martedì, già sa la versione breve del tutto. I tempi televisivi però non mi hanno permesso di approfondire il giudizio, che, ve lo anticipo, è un po’ più complesso.
È innegabile che Game of Thrones sia un prodotto che rasenta la perfezione. La fotografia è qualcosa di straordinario, per dire. Ottima la regia, solida e ben scritta la sceneggiatura. Sulle interpretazioni, abbiamo in realtà un po’ di alti e bassi, ma i bassi non sono poi così bassi e gli alti sono vette assolute. Tyrion è il mio personaggio preferito della saga – io ho letto solo il primo libro, dove per primo intendo in realtà i primi due dell’edizione italiana – evidentemente ho una predilezione per i nani :P (vedi alla voce Ido…), è Peter Dinklage è assolutamente straordinario, lui è Tyrion, anima e corpo. Già solo la sua voce mi ha dato i brividi la prima volta che l’ho sentita, e Sean Bean è Sean Bean, pure lui è un Ned perfetto. Bravissima anche Emilia Clarke, una Dany convincente, forte e fragile al tempo stesso, così come Harry Lloyd, un Viserys magistrale. Mi cascano un po’ invece Cersei (perché quella perenne aria da mal di pancia?) e soprattutto Jon Snow; spiace dirlo, ma Kit Harigton è tipo l’uomo meno espressivo della storia. Il casting, comunque, è in generale di alto livello, anche se Sansa è brava, ma poco bambolina di porcellana e Catelyn ha troppo l’aria da operaia. Menzione di merito alla sigla, una delle cose più belle viste di recente, e per la musica, fantastica, e per l’animazione, meravigliosa. Per altro l’idea di far vedere la mappa del mondo durante la sigla è veramente una genialata.
Tutto perfetto, quindi? M’è piaciuto un sacco e morta là? No. Perché, nonostante l’altissimo livello del tutto e la considerazione che evidentemente non si poteva trasporre A Song of Ice and Fire in modo migliore, la serie non mi ha appassionata davvero. In un paio di episodi mi sono trovata lì a sbadigliare, e comunque il grado di coinvolgimento che ho provato per i vari personaggi non è stato particolarmente elevato. Intendiamoci: mi è piaciuta, ma non mi ha entusiasmata. Il motivo è presto detto: non sono una grande estimatrice dei libri. Non è un caso che mi sia fermata a Game of Thrones e non abbia proseguito. Anche qui: riconosco il genio di Martin, la capacità di creare personaggi credibili, un mondo coerente, ma quel genere lì che fa lui non mi appassiona. L’impressione generale che ho avuto dalla lettura è stata di un’enorme digressione che non arrivava mai al punto. Uno legge il prologo oltre la Barriera e si esalta, pensando che a breve si scatenerà l’inferno. Invece no. Invece l’azione si sposta sugli intrighi intorno al Trono di Spade. Idem con patate per l’Inverno: “winter is coming” ma tutto sommato non arriva mai. Ora, io capisco che le pedine vadano disposte sul campo, e che ci voglia del tempo. I pezzi però, per i miei gusti, si muovo a lentezza straziante. Tutto molto bello, per carità, ma lento. Senza contare che Martin segue da vicino una decina o forse più di personaggi, alcuni dei quali, almeno fin dove sono arrivata io, possono risultare poco interessanti al lettore. Il risultato era che ogni tot pagine dovevo sopportare punti di vista ai quali ero pochissimo interessata. L’altra cosa che non mi piaceva particolarmente era il fatto che l’azione fosse relegata off screen: esempio classico, il primo scontro tra Rob e l’esercito dei Lannister. Ora, che nella serie televisiva la battaglia venga omessa lo posso anche capire: le scene di massa costano, quindi mi sembra ragionevole che per risparmiare le si salti. Ma nel libro francamente non capisco bene perché per una volta non possa vedere eserciti che si picchiano, tanto più che c’è un discreto climax intorno alla suddetta battaglia. Preciso, è probabilmente una questione di gusti personali, non sto parlando di difetti assoluti, ma di “difetti rispetto al mio gusto”, ecco.
Ora, la serie televisiva ricalca in modo incredibilmente fedele il libro di Martin, e dunque ai miei occhi soffre degli stessi problemi. Non succede granché, per dire, alla Barriera, e gli eventi sono diluiti su un lungo arco narrativo. Al contempo, snodi che erano trattati egregiamente nel libro nella serie sono un po’ poco riusciti: non è del tutto chiaro perché Dany si trasformi da vittima del fratello in regina consapevole e forte. Nel libro la cosa era evidente, qui sembra che il punto di svolta sia la scoperta di una nuova posizione del Kamasutra col marito.
Comunque. La bellezza della confezione alla fine la vince, e seguirò sicuramente anche la serie successiva. Però non è una di quelle cose per le quali il mio hype sia particolarmente alto. L’unica cosa positiva è che A Clash of Kings io non l’ho letto, quindi quanto meno la trama sarà nuova, per me.
Perfetto, è tutto. Adesso linciatemi pure :P

P.S.
In coda vi segnalo anche una simpatica intervista che ho fatto con la Testa e il Corpo di Chiara Gamberale, per il programma di Radio2 Io, Chiara e L’Oscuro. La trovate qua.

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Finali

Comincio a credere di avere un problema coi finali delle serie. Fino ad oggi, ho portato a termine la visione solo di tre serie televisive: Lost, Dawson’s Creek e Battlestar Galactica. Ebbene sì, con un ritardo di due anni ieri ho visto il finale di Battlestar Galactica. Dall’incipit, avrete capito che non mi ha entusiasmata, esattamente come non mi hanno entusiasmata né il finale di Dawson’s Creek, né, come ben sapete, quello di Lost. Forse mi aspetto troppo dai finali di stagione, non lo so, ma finora l’unico finale che ho apprezzato è stato quello dell’ottava stagione di Scrubs, che non è il finale della serie, visto che ne hanno prodotta una nona.
Anyway. Ho fatto l’una ieri per capire quale fosse il piano dei Cyloni, ed è da quando mi sono svegliata che ci penso. So che alcuni di voi hanno seguito la serie, e mi piacerebbe discuterne un po’. Astenersi chiunque non abbia visto tutte le quattro stagioni, perché ci sono spoiler. Per questi ultimi, è una serie che vi consiglio molto: è tutto sommato breve, intensa, ottimamente scritta e girata, recitata da dio e con una colonna sonora da urlo. Vale la pena, insomma.
Torniamo però al finale. Suppongo che tutti quelli che stiano leggendo queste righe abbia visto tutta la serie. Dunque, a differenza del finale di Lost, quello di Battlestar quanto meno è molto coerente con tutto lo sviluppo della serie. Si parla di Dio dalla puntata uno, Caprica Sei non fa altro che dirci che è tutto un piano di Dio, quindi la sterzata religiosa finale è perfettamente coerente col tutto. In fin dei conti, delle infinite tematiche trattate in quattro stagioni, due sono le preminenti: la contrapposizione tra il credo politeistico umano e quello monoteistico Cylone e il rapporto uomo/dio. In fin dei conti, anche la ribellione di Cavil è esattamente quella della creatura di fronte al suo creatore. Quindi, quanto meno i conti tornano. Tornano anche le sottotrame, chiuse tutte con coerenza. Voglio dire, ce la menano con Hera dalla prima stagione, che si chiudeva proprio sulla culla che la conteneva, quindi piace vedere che il cerchio si chiude. Dà molto quell’impressione à la “sapevamo tutto fin da principio” che in Lost manca completamente, per dire. E probabilmente davvero sapevano tutto da principio, visto che si tratta di una serie che si sviluppa su un arco narrativo tutto sommato breve. Quattro stagioni sono poche, in fin dei conti.
E allora? Allora cosa non torna? A me non torna il tono del doppio episodio finale. Sembra scritto da altri autori. Ma dove sono finiti gli sceneggiatori che ci hanno fatto amare uno stronzo opportunista come Gaius? Gli autori che ci hanno consegnato un episodio così profondo e intenso come Crossroads? Battlestar per quattro stagioni ha saputo mostrarci un quadro desolatamente veritiero dell’umano; rinunciando a qualsiasi tipo di visione consolatoria, ci ha mostrato un’umanità vera e palpitante, continuamente combattuta tra un insopprimibile anelito all’ideale e la continua tentazione della caduta. Ogni episodio è sempre stato denso, pieno di sottotesto, vagamente allusivo a un mondo di significati nascosti. Come ogni singolo episodio precedente è stato ellittico, suggerito, tanto The Plan è quasi fastidioso nello spiattellarti la verità. Dio, che fino a quel momento è un elemento vago, sempre invocato e sempre sfuggente, diventa una presenza terribilmente palpabile. Due elementi dell’episodio chiariscono cosa voglio dire: la distruzione della colonia, che avviene perché la mano di un pilota morto, per caso, pigia un bottone, e la scomparsa di Kara. Ecco. Dio non è più quella fede vaga cui uomini e Cyloni si richiamano. È uno che materialmente fa pigiare un pulsante ad un morto, materialmente resuscita Kara per poi farla sparire. Ma dov’era Dio quando i Cyloni hanno sterminato gli umani? Qual era allora il suo piano? Tutto questo sangue, tutta questa morte solo per dare vita ad Hera, e permettere a noi di venire al mondo? Mi rendo conto che questo è LA domanda, quella che informa l’esistenza di qualsiasi uomo sulla terra. Ma la risposta di Battlestar non mi convince. Questo Dio che improvvisamente agisce e prende forma mi sembra un deus ex-machina. Perché risolve tutti gli snodi di trama. È Dio che distrugge la colonia, è Dio che ha fatto tornare Kara, è Dio che le indica la rotta per la Terra. Un Dio che mai prima, in Battlestar, si è palesato così chiaramente.
Ora, immagino che durante la visione di The Plan lo spettatore dovrebbe dirsi stupito che tutto torna. Avete presente quella sensazione lì che avete quando risolvete un enigma? Io ce l’ho quando vengo a capo di un problema di trama. Ce l’ho avuta di recente, costruendo il nuovo mondo in cui è ambientata la mia nuova storia. Una sera, tutto è tornato.
Ecco, di fronte alla canzone che non solo serviva a risvegliare gli Ultimi Cinque, non solo era la canzone dell’infanzia di Kara, ma fornisce anche le coordinate per raggiungere la terra (e, incidentalmente, è All Along the Watch Tower, che Bob Dylan scriverà la bellezza di 150 000 anni più tardi) io non ho pensato per niente che tutto tornava. Ho pensato che Dio ci stava mettendo una manona grossa quanto una casa. Questo è il vero, grosso problema di The Plan: che tutto diventa troppo chiaro, troppo palese. E anche un po’ buonista. Capirca Sei e Gaius che si devono amare per far tornare i conti – e ci peritano anche di dircelo esplicitamente, grazie ai due “angeli” che ce lo enunciano testuali parole – Cavil che, poverino, lui voleva solo vivere, e quindi mollerebbe subito Hera per l’immortalità, quando ci avevano fatto credere che il suo problema vero era la sua umanità, il corpo in cui l’avevano infilato e il destino cui i Cinque l’avevano condannato. Non lo so, mi rendo conto che è difficile da spiegare, ma tutto sembra risolversi in un lieto fine posticcio. Dentro di me è come se sentissi che doveva finire diversamente. Con la morte di Cyloni e umani, ad esempio, e la sopravvivenza solo di Hera, Gaius e Caprica Sei. In fin dei conti, non era quello che ci dicevano le profezie? Perché mi sembra che tutta la serie puntasse in quella direzione, che ci stese dicendo che gli errori non possono essere emendati, che il dolore non si dimentica e ci cambia. Invece qui sopravvivono tutti, e i cattivi invece muoiono: Tory schiatta, Cavil si suicida senza una motivazione ben chiara.
E poi il finale à la Lord of the Rings è francamente insostenibile; duecento dissolvenze a nero, duecento addii, duecento finali. Certo, ci interessa sapere che fine fa ogni personaggio, ma dilungarsi così tanto su ognuno di loro, e mostrare ogni finale come fosse l’ultimo, caricandolo emotivamente, distrugge il climax. E comunque Kara che scompare dicendo che ha finito il suo compito, come un supereroe di bassa lega, è qualcosa che avrei preferito non vedere.
Ma Battlestar è più grande persino del suo finale. È vero, la fine conta, ma certe volte non così tanto. Il quadro costruito in quattro stagioni memorabili resta, la capacità di scavare a fondo nella condizione umana è ineguagliato, almeno per una serie televisiva d’oltreoceano. Battlestar resta al di là delle cadute di stile, resta nel cuore e nella mente, un fulgido esempio di come il fantastico e la narrativa nel suo senso più puro sanno penetrare nelle questioni che contano meglio e più a fondo di molti prodotti ‘alti’, con velleità artistiche mancate di mezzo miglio. Battlestar resta, è LA storia, come tutte le grandi storie, che ci raccontano sempre la stessa cosa, senza però smettere di dirci cose nuove

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