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Naturalmente…Il Nome della Rosa

Ero indecisa se fare questa cosa. Un po’ perché amo il libro in un modo così viscerale, ha fatto e fa così parte della mia vita – e anche della mia scrittura – che mi sembrava un po’ senza senso, un po’ perché, nonostante l’hype a manetta, io di questa serie tv su Il Nome della Rosa avevo una paura matta. Poi però qualcuno mi ha chiesto pareri su Facebook, io ho risposto con un commento lungo due chilometri, e allora niente. Non posso esimermi dalla recensione della serie ispirata a Il Nome della Rosa, andata in onda ieri sera su Rai1. Here we go :P .
Più di altre volte, servono moltissime premesse. Per chi fosse capitato qui per caso, premetto che ho letto il libro ventuno volte, più o meno una volta l’anno da quando avevo quindici anni, e mio papà mi passò la sua copia gualcita, edizione 1982, dicendomi che pensava mi sarebbe piaciuto e che era uno dei suoi libri preferiti. Lo lessi in vancanza al mare, fu amore a prima vista, e da allora questa passione non dico è mai finita, ma mai manco scemata. Una volta ho anche tenuto una specie di lezione, a Piazza Santa Maria in Trastevere, sul perché questo libro mi piacesse e mi ossessionasse così tanto. Per dire che il mio non può in alcun modo, nel bene e nel male, essere un giudizio oggettivo. Non posso prescindere da questo amore, non posso prescindere dai molteplici legami affettivi che mi vincolano ancora oggi a quella copia ingiallita.
Altra premessa: alcune scene sono state girate sul Tuscolo, uno dei posti che più amo al mondo, e dove vado a rifugiarmi per passeggiare quando sono stanca, depressa, in qualsiasi modo bisognosa di silenzio e bellezza. E quindi, altro pregiudizio. Detto ciò.
Ho grandi difficoltà a esprimere un giudizio compiuto su quel che ho visto. Innanzitutto perché, durante la visione, mi si aprivano continuamente nel cervello pop-up tipo “ehi, questo è spiccicato il libro!”, “ommioddio il portale!”, “no, Jorge me lo immagino tutto diverso” e via così. Ho cercato di guardarlo come un prodotto a sé, una reinterpretazione di una cosa che amo molto, ma ho fatto una fatica bestiale e non credo di esserci riuscita molto. Per cui facciamo così: pro e contro. Cominciando dalle note dolenti, così chiudiamo in bellezza.
Il più grosso contro è il passato di Adso, e le modifiche apportate al personaggio. È una questione un po’ di gusto personale, quindi non di problemi oggettivi della narrazione, ma, secondo me, far di Adso un pischello vissuto che mena, ha dimestichezza con le donne e c’ha i daddy-issues secondo me diminuisce molto quella dialettica maestro-allievo tra lui e Guglielmo che era molto importante nel libro. Lo dice anche Eco nelle postille: Adso è il lettore, soprattutto quello più ingenuo. Come lui, Adso non sa niente, e perché è un tedesco catapultato in quella terra dei pazzi che è l’Italia – ora come allora -, e perché ha sedici anni, e perché ha sempre vissuto serenamente nel convento di Melk. Questo dava una prospettiva fresca alla storia: se non capivi le cose era ok, non le capiva manco Adso, e c’era sempre qualcuno pronto a spiegartele. Con questo nuovo Adso, invece, si crea una sorta di distanza con lo spettatore, che non ha un alter-ego nella storia. Per altro, questa modifica fa iniziare la storia con una scena inventata che ha fatto prendere un colpo apoplettico a me lettrice di lungo corso, ma vabbè.
Altro punto leggermente a sfavore, mi pare che la trama proceda di gran carriera. Non che sia un problema: il ritmo tiene, e ci sta, è ovvio che una riduzione debba spingere soprattutto sul pedale della trama gialla, che del libro è la cosa più facilmente spendibile. Però di ‘sto passo lunedì prossimo scopriamo l’assassino, per cui non so bene cosa accadrà nei restanti episodi…
Nei contro metto anche una biblioteca che è come quella del libro, ma l’avrei preferita un po’ più intrisa di mistero. Ok, Anche nel libro Adso quando entra è deluso, ma io avrei pompato un po’ di più sulla suspence. Ma il cliffhanger di fine puntata (anche se immagino di sapere chi ha aggredito Adso…) mi lascia intuire che forse quest’aspetto verrà esaltato lunedì prossimo.
Ultimo contro, alcune scelte di cast. Intendamoci, le interpretazioni mi piacciono molto: Remigio è viscido a sufficienza, Salvatore il povero cristo babelico del libro, e via così. Ma qui sono influenzata dal film dell’86, che, al netto di una trasposizione che dire libera è un eufemismo, aveva azzeccato delle facce clamorose. Ron Perlman indimenticabile, i monaci tutti mezzi deformi e morbosi, uno Jorge che pareva una statua…ma, anche qua, problema mio, non intrinseco della serie.
Bon possiamo andare ai pro. Turturro. E che gli vuoi dire, a Turturro. Perfetto. Con tutto il bene che voglio a Sean Connery – e gliene voglio a palate – non è mai stato il Guglielmo del libro. Era Sean Connery che faceva il monaco francescano. Turturro no. Anche solo visivamente, è uscito dalla pagina scritta. Ok, il personaggio è leggermente ammorbidito, ma manco tanto. La serie anzi secondo me è molto efficace nel mostrarti con un paio di scene le caratteristiche del personaggio: bello il siparietto Brunello, esplicativo quello coi poverelli e il lebbroso (Guglielmo queste cose nel libro le dice, per cui diciamo che ci sta), spettacolare il dialogo con l’Abate. Ah, Berengario troppo lui: recitazione giustamente sopra le righe e faccia azzeccatissima.
Altro pro: un tentativo fortissimo, direi quasi intriso di amore per la materia di partenza, di stare il più aderenti possibile al libro, anche nelle piccole cose. Per dire, brivido di piacere davanti al portale: cioè, voglio dire, il portale! C’è! La parte in assoluto meno televisiva di tutto il libro e ce l’hanno messa! Oppure le finestre d’alabastro della biblioteca, che è una piccola cosa, ma è da queste piccole cose che si vede che dietro tutto c’è una passione per il libro, e questa credo sia la cosa più importante per un prodotto del genere. I dialoghi sono quasi interamente presi di peso dalla pagina, a parte lievi differenze. Mi lascia un po’ così l’assenza di Ubertino, ma magari compare più avanti.
Apprezzatissima anche la decisione di metterci dentro le dispute sulla povertà. Anche qui, argomento anti-televisivo per eccellenza, gente che dibatte sulla povertà della Chiesa…e invece hanno trovato un modo efficace di mettercele. E non è questione di lana caprina, perché tutto nel libro si corrisponde in un dialogo continuo tra trama gialla, metafisica e aspetto formale. Segare via gli eretici e la povertà di Cristo significava fare un’altra cosa, non Il Nome della Rosa. Ok, l’inserimento di questo elemento è stato fatto semplificando le cose, ma questo era necessario: bisogna pur essere consapevoli che si sta guardando una fiction, e non un trattato sul basso medioevo. Una certa dose di spettacolarizzazione e semplificazione è necessaria.
Anche tutte le modifiche di trama hanno una spiegazione perfetta in termini narrativi, nel contesto di una serie tv. Giusto – e tutto sommato pure bello – mostrare i dolciniani, anche se finora non si sono approfondite le motivazioni più profonde della loro ribellione. Ha senso anche mostrare di più Bernardo Gui e il Papa, e dar loro un ruolo di maggior peso mella trama complessiva. Un cattivo ci vuole, e, siccome l’assassino rimane figura sfuggente fino alla fine dell’intreccio, ci sta inserire questa sottotrama.
Ha senso anche espandere la storia d’amore di Adso, che è una cosa ero sicura sarebbe stata fatta: ha senso perché apre la trama verso l’esterno (in un libro ok l’unità di tempo, luogo e azione, in una serie tv molto meno), e inserisce un elemento che permette di aggiungere ciccia alla trama principale. Insomma, secondo me a livello di adattamento è stato fatto un gran lavoro, un buon lavoro.
Ultima cosa, ammazza che belle le scenografie e la fotografia. L’abbazia mi ha lasciata senza parole, perché era identica spiccicata a come l’immaginavo. Il Tuscolo e Tusculum meravigliosi come si presentano ai miei occhi ogni volta che ci salgo, e in genere una scelta azzeccatissima di tutte le location.
Insomma, mi piace. Quanto può piacermi una riduzione televisiva di qualcosa che ho nel DNA, che mi ha formata come persona e anche come autrice. Mi piace perché mi ha fatta sentire a casa, mi ha messo addosso voglia di rileggere il libro – e l’ultima lettura è di gennaio… – e perché ho voglia di vederne ancora. C’è qualcosa, in questa serie, che mi parla una lingua conosciuta, e che sa di un amore antico. E allora niente, dai, bene così. Era difficile fare una cosa che mi non mi facesse venire i brividi per novanta minuti, e invece no, sono contenta. Il libro è il libro, inavvicinabile, strepitoso, sempre vivo nella mia mente. La serie è un’altra cosa, che però mi piace e continuerò a seguire.

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Da Vinci’ Demons seconda stagione

E così ieri sera è finita anche la seconda stagione di Da Vinci’s Demons, e, puntuale come le tasse, ecco la mia review :P . Non vi tedio col mio giudizio generale su questa serie, piuttosto vi rimando alle puntate precedenti qui e qui.
Dunque, che dire. Comincerei dalla sigla. Nella prima stagione non me n’ero accorta, ma stavolta c’ho fatto caso: le immagini della sigla sono tutte spoiler. Ce n’è una presa da tipo l’ultimo fotogramma dell’ultima puntata. Cioé. Più o meno a metà, quando mi son resa conto della cosa, è partito il conto alla rovescia per le scene che mancavano, e dunque la caccia al tesoro per capire di cosa avrebbero parlato gli episodi successivi. Questa, unita al fatto che la sigla la puoi sentire anche al contrario, che tanto non cambia, è una di quelle piccole cose che mi solleticano in una serie televisiva. Comunque, entriamo nel merito.
Direi che questa seconda stagione è stata più o meno in linea con la prima. Chiusi la visione, un anno fa, timorosa per gli sviluppi della trama, e devo dire che invece la serie continua a mantenersi saggiamente sul filo della vaccata, senza mai cadere di sotto, in un equilibrio complesso tra cose fighe e momenti WTF che finiscono elegantemente a sciogliersi gli uni nelle altre. Sì, ok, la storia viene trattata malissimo (ma quello non muore dieci anni dopo? Ma l’America non l’ha scoperta Colombo?), ma non peggio di quanto venga brutalizzata la scienza nella serie sci-fi media, e comunque a me fa venir voglia di andarmi a studiare le personalità storiche reali dietro i personaggi, per cui direi che non c’è niente di male. Oltre al tempo, anche lo spazio è estremamente realtivo nel mondo di Da Vinci’s Demons, con gente che percorre mezzo mondo in una puntata circa, o a volte con un semplice cambio di scena. Per quel che mi riguarda, non è un grossissimo problema, quando è al servizio del mantenimento del ritmo, che è poi la cosa migliore della serie.
Quindi tutto ok? No. Perché la seconda stagione mi è sembrata molto più altalenante della prima. A fronte di picchi assoluti (tipo la prima puntata, o la sesta, tra le cose più belle viste in questi diciotto episodi totali), ci sono momenti di stanca, episodi che si trascinano lentamente, e qua e là un certo senso di delusione. Mi spiego.
Innanzitutto, la seconda stagione paga lo spezzettamento dei punti di vista. Mentre bene o male la prima era tutta incentrata su Leonardo e la sua quest, nella seconda il Nostro se ne va nella Americhe a cercare il Book of Leaves, mentre Firenze se la vede bruttissima, tra Clarice che fatica a tenere insieme i cocci, Lucrezia che è in missione per l’enigmatico papà-Papa, e Lorenzo che è protagonista di un’infinita sottotrama nel Regno di Napoli. Ora, senza nulla togliere a tutti gli altri personaggi, è ovvio che il focus dello spettatore è tutto su Leonardo: si chiama Da Vinci’s Demons, non Clarice’s Lovers o Lorenzo’s Quest. È ovvio che l’interesse sarà tutto per quello che deve andare a scoprire l’America con vent’anni d’anticipo: tutti gli altri, anche chissenefrega, direi. Ecco, fatta eccezione per alcuni episodi, in cui le sottotrame sono state gregiamente intrecciate e interconnesse, almeno a livello tematico, tutto è parso un po’ slegato: sembrava dovessimo vedere Firenze tanto perché, ehi, ne abbiamo parlato nella prima stagione, mica ce ne possiamo dimenticare, ma senza che ci fosse una reale tensione narrativa. Inoltre, la trama di Lorenzo ha proceduto a passo di lumaca, con alcuni momenti francamente buttati là a perder tempo (l’attacco dei briganti, per dirne uno). Ci sono poi alcuni personaggi che son stati splendidamente caratterizzati, ma usati un po così: parlo soprattutto di Ferrante, non del tutto riuscito, e che esce di scena pure un po’ da cretino, e per certi versi anche Amerigo (che però viene introdotto con una scena fighissima).
Purtroppo, pure la trama di Leonardo mi ha un po’ delusa. Non so cosa mi aspettassi, ma nella stagione precedente abbiamo visto gente che deve scuoiare poveri abissini per portarsi dietro una mappa, non prima di averli liberati da una specie di shangai gigante, e Dracula che si mena con Leonardo. Per la scoperta dell’America mi aspettavo roba oltre. Invece, diciamocelo, a Leonardo & co. gli va di lusso: sì, li catturano, sì, la prova per guadagnarsi la fiducia dei Maya, e l’avvelenamento (che è al centro dell’epidosio più bello della stagione e forse dell’intera serie), sì, i tre enigmi per entrare nel Vault of Heaven…ma la sensazione è che la buona sorte sia più o meno sempre dalla loro. Non hai quella sensazione di costante pericolo, di difficoltà a non lasciarci le penne, che mi sarei aspettata. Peccato, perché l’inizio del primo episodio prometteva faville. Per chi l’avesse visto, pensateci, c’era tutto: l’esotismo, il confronto fra nemici, la morte, la gnocca. Feuilleton distillato che mi ha indotta a stoppare la visione e fare un bell’applauso.
Comunque, al netto la serie continua a divertirmi molto, è la cosa che guardo con maggior piacere in questo periodo, e ha avuto dei gran bei momenti: i primi due episodi ottimi, il sesto, già l’ho detto, fighissimo, gli ultimi due ottimo dittico, con un finale che ridefinisce ancora una volta il concetto di cliffhanger (ma io avevo capito chi era la tipa in catene più o meno a inizio episodio…). Resta tantissima voglia della terza, e la colonna sonora che io trovo meravigliosa. Molti i pezzi indimenticabili. Qui sotto vi attacco uno dei miei preferiti. In sintesi, serie consigliata a chi non pensa che la nostra storia sia una cosa seria e un feticcio intoccabile e che ama l’avventura pura e semplice.

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Sherlocked

Il post su Sherlock arriva prima del previsto.
Preparatevi, sarà lungo, perché le sette puntate viste finora mi hanno stimolato una serie di riflessioni generli sullo storytelling. Così, per fingere che non mi sto tanto divertendo a vedere un’ottima serie televisiva, ma sto lavorando :P .
Comunque. Non sono una grande esperta di Doyle, anche se ho letto tipo un racconto su Sherlock Holmes e da bambina amavo, e ho letto svariate volte, Il Mondo Perduto, ma lì c’erano i dinosauri, e all’epoca – ma pure adesso – bastava una squama a comprarmi per la vita. Mi sono quindi avvicinata al prodotto Sherlock semplicemente perché sono orfana di serie televisive da un po’. Visto che i miei amici su Facebook non facevano che parlarne, mi sono comprata i primi due cofanetti. Visione rigorosamente in lingua originale, che così faccio esercizio, e senza sottotitoli, che non sono mai stata capace di leggerli e seguire l’azione.
Diciamo che fino alla seconda puntata della prima stagione l’ho trovato gradevole. Intendiamoci, c’era già moltissimo di apprezzabile. Ma Sherlock Holmes ha trovato otto miliardi di incarnazioni differenti nei secoli, e quel tipo di dinamica – sociopatico geniale, al contempo insopportabile e adorabile, affiancato da uomo comune saldamente piantato coi piedi per terra che rappresenta un po’ il suo lato umano – ci è stata proposta in mille salse diverse, a partire dalle riduzioni cinematografiche e televisive vere e proprie dei racconti, fino a scantonare a cose evidentemenye ispirate a, tipo il Dr. House o in certa misura il rapporto Sheldon-Leonard in The Big Bang Theory. Non che nel caso di Sherlock la cosa fosse riproposta male, o in modo banale. Solo, mi sembrava di averla già vista. Mettiamoci anche che, delle sette puntate che ho visto finora, la 1×2 è la più debole. Poi è arrivato il finale di stagione. E lì, vabbeh, niente, è partito l’amore. Probabilmente è dovuto al fatto che ho una fascinazione per i cattivi sopra le righe, psicotici e interpretati da gente che pare pazza vera, e dunque con Moriarty il mio gusto per il grottesco è stato abbondantemente titillato, sarà che la trama era intricata, complessa, e che indubitabilmente “acchiappa”, sarà che al terzo episodio tutte le dinamiche, le presentazioni del caso, erano fatte, e dunque il meccanismo ben oliato era lanciato, ma, niente, ho capito che stavo diventando dipendente. Poi arriva quel gioiellino della 2×1, e lì ero ormai perduta.
Mi ci è voluto un sacco di tempo per mettere a fuoco perché Sherlock mi piaccia, e perché certe cose, certi snodi, abbiano finito per ossessionarmi. L’impressione iniziale – di cose del genere se ne sono già viste, quanto a nucleo tematico – non è cambiata. E allora? E allora ieri, mentre mi gustavo il primo episodio della terza stagione, ho avuto la mia epifania. Ho scoperto una cosa che sapevo già: non è quel che racconti, è come lo fai. E per come, nel caso di un telefilm, intendo regia, musica, attori, sceneggiatura.
L’originalità è ormai un mito inarrivabile. Cioè, certo, c’è chi la insegue, magari la consegue anche, e fa benissimo, ma la verità è che le storie che funzionano meglio sono quelle che ci siamo sentiti raccontare miliardi di volte. Le conosciamo a memoria, probabilmente a volte ci risultano anche prevedibili, ma non possiamo fare a meno di restare catturati, perché sono seminali. E Holmes, che è sulla cresta dell’onda da due secoli, è una di queste storie. Venuta meno l’originalità, resta solo la messa in scena, il modo di raccontare. E Sherlock, sotto questo punto di vista, è magistrale, in tutto. Novanta minuti di puro godimento. Funzionano gli attori, che, cosa gli vuoi di’, dal primo all’ultimo, compreso quello che compare per mezzo nanosecondo, sono tutti bravissimi, e si producono in interpretazioni che ti resta solo da alzare le mani. Funziona la regia, dinamica, curata e a volte preziosa, senza essere però troppo “fighetta”, con artifici visivi divertenti (tutte quelle scritte a schermo…deliziose). La fotografia è qualcosa di spettacolare: hai una città dove il sole non c’è mai, dove tutto è grigio? ‘Sti cazzi! Approfittiamone! Che sia tutto luccicoso di pioggia, grigio e definito come in un quadro. La sceneggiatura…e vabbeh, pure lì hai tipo venti trenta battute a episodio che ti tatueresti sulla pelle. I soggetti spesso vengono dai libri e dai racconti, e ne sono, a quanto mi dicono coloro che li hanno letti, geniali reinterpretazioni (devo dire che la rielaborazione della famigerata caduta dalle cascate di Reichenbach, in effetti, lo è), per cui funzionano alla grande. La somma di questi elementi dà un risultato impeccabile, in cui tutto funziona, e che soprattutto produce un mondo altro. Guardare Sherlock è infilarsi per novanta minuti in una dimensione parallela e autosussistente, chiusa in se stessa, come infilarsi in una camera insonorizzata e staccare dal mondo. È la capacità della grande narrazione di genere, creare mondi, salotti all’interno dei quali il lettore è invitato ad entrare e ad ammobiliare fino a sentirsene parte. Guardi un episodio, e, non so come dire, sei a casa. Creare mondi non è solo inventarsi il pianeta X con le regole Y; è costruire ambienti che catturino il lettore/spettatore e non lo lascino andare. Sherlock è una macchina per produrre questo. E, ça va sans dir, non è tanto la storia del “caso dell’episodio”, o soltanto di uno che, armato di sola logica, mette ordine nel caos del mondo, per quanto, ovviamente, sia anche questo. È una storia di evoluzione di personaggi, dei rapporti che tessono, delle reazioni che hanno di fronte a ciò cui la vita li mette davanti. Sono i personaggi che funzionano, e quelli che appassionano. Anche questa è una banalità, eppure nella mia carriera di lettrice spesso mi sono imbattuta in libri in cui leggevo le gesta dei protagonisti e non mi interessava davvero nulla di loro o di quel che sarebbe accaduto. La gente si limitava a fare cose e vedere gente (cit.) senza produrre mai un vero coinvolgimento col lettore. A quel punto puoi anche ammazzarmeli tutti, se non sono entrata nella loro testa nessuna di quelle morti, per quanto egregiamente scritta, sarà un picco emotivo. Ecco, in Sherlock ti frega di tutti, ma proprio tutti. Nell’arco di soli sei episodi, sono diventati tutti amici miei per i quali spasimo. E non è facile.
E poi c’è questa storia del primo episodio della terza stagione, quella che davvero mi ha fatta riflettere. Da qui in giù sarò spoilerosa per chi non conosce un po’ le vicende dell’Holmes letterario, e un po’ anche con chi non è ancora arrivato a questo punto della serie. Niente di che, comunque. E insomma, la seconda stagione terminava col finto suicidio di Holmes, e lasciava alla terza l’improbo compito di spiegare come aveva fatto Sherlock, in tre secondi netti in cui Watson non guardava, a fingere di spiaccicarsi per terra ma in realtà a sopravvivere. Mi dicono che i due anni trascorsi tra seconda e terza stagione sono stati impiegati da molti fan a cercare di spiegare come questa cosa sia stata possibile. Ci troviamo insomma in una situazione à la Lost: mettere insieme gli indizi per cercare di spiegare una cosa inspiegabile. Lost se l’è cavata sparando nel misticismo. Sherlock è ancora più paraculo: nemmeno ci prova a darti una spiegazione. Ne inanella quattro o cinque nell’episodio, tutte sostanzialmente implausibili per una ragione o per l’altra (ma tutte che strizzano in qualche modo l’occhio al fandom che s’è scervellato) e conclude senza darne nessuna. La reazione dello spettatore dovrebbe essere di frustrazione e rabbia. E invece no. Al netto delle varie opinioni, non gliene frega niente a nessuno. A me non è fregato niente su tutta la linea. Ma zero proprio. E perché? Perché è tutto “a magic trick”, un gioco di prestigio. Il narratore agita le mani, e se le muove bene, a te non interesserà sapere da dove è uscito il coniglio: ti godrai la magia, sarai tornato bambino per un attimo, e il trucco sarà irrilevante. Così con le narrazioni fatte per bene. Chi sa narrare, chi lo sa fare per davvero, è in grado di far passare il lettore sopra a molte incongruenze e implausibilità. Non sto dicendo che si debba fare, non sto dicendo che la maggioranza lo fa: dico solo che quando una storia ti prende per davvero, certe cose semplicemente smettono di avere importanza. E perché? Perché, semplicemente, non sono quelle il punto. Non era importante, ai fini della trama, dello sviluppo dei personaggi, persino della loro caratterizzazione, sapere come Sherlock sia sopravvissuto. Non è il fulcro della narrazione (lo era invece, per inciso, in Lost, che ci aveva fondato su tutta la sua mitologia). Siamo tutti Watson, quando Sherlock inizia a cercare di spiegare come ha fatto a portare a casa la pellaccia. Non ci interessa sapere come ha fatto, ma perché. Tutto qua.
Ammetto che il trucchetto mi ha lasciata ammirata. È stata una scelta coraggiosa, ma assolutamente vincente: è la potenza della storia, della narrazione, che vince su tutto. Ma devi essere bravo, un sacco bravo, fuori scala.
Comunque. Come avrete capito, io in quel salotto sono entrata e mi ci sono fermata, ritagliandomi il mio bell’angolino. E ho lasciato che l’illusionista facesse su di me tutti i trucchi che voleva. Ci sono dentro. L’unico, vero problema è l’estrema brevità del tutto: ogni serie conta tre puntate, che durano 90 minuti, certo, ma fanno comunque sei episodi di una serie televisiva normale, di quelle da 26 episodi a stagione. Poco. Già oggi mi sono rifiutata di vedere la 3×02 perché poi ne manca una sola (in tutto, al momento, sono tre stagioni), poi mi tocca aspettare, che palle…Ma il marito non è stato ancora catechizzato, per cui conto almeno su una visione ulteriore. E poi, poi si aspetta. Sperando che pure questa non faccia la fine di Misfits, una delle più grandi delusioni di questi anni di serie televisive. Ma voglio essere ottimista, via :) .

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Merlin

Col nuovo record di quattro – dico QUATTRO – anni di ritardo, verso la fine dello scorso anno mi sono avvicinata a Merlin, la serie BBC sulle avventure dei giovani Merlino e Artù. L’ho fatto con una certa dose di scetticismo; sembrava una cosa molto nella media, nulla di particolare. Però ero un po’ orfana di roba da vedere, mi serviva qualcosa di leggero e divertente e Merlin sembrava fare al caso mio. Per altro, mi aveva già incuriosita l’anno di uscita, perché Edimburgo, che visitai proprio in quel periodo, era piena di manifesti col faccione di Colin Morgan.
Al momento sono alla visione della seconda serie, più o meno metà – visione rigorosamente in inglese, perché ogni tanto l’accento british fa veramente bene alle orecchie – e quindi direi che la fase di beta testing è conclusa e si possono tirare le somme. Intendiamoci, è un prodotto medio sotto tutti gli aspetti: nulla di eccezionale sul fronte delle interpretazioni, anche se non c’è nessuno che sia proprio cane, fatta forse eccezione per un Lancillotto decisamente monocorde, nulla nella sceneggiatura che faccia gridare al miracolo, nessun soggetto particolarmente ispirato, e soprattutto effetti speciali da serie televisiva, ossia le bestie, fatta eccezione per il drago, si vedono poco, e quel che si vede non è un granché. Però. Però, ragazzi, io mi sto appassionando. Quei 45 minuti la sera che dedico alla visione mi rilassano, mi rimettono in pace col mondo. Perché se c’è una cosa in cui Merlin eccelle è il ritmo: non ti annoi mai. Nelle puntate succedono sempre un bel po’ di cose, non ci sono momenti di stanca, gli autori sanno quando buttarla sull’ironico e quando invece fare più i seri. L’impressione generale è di un prodotto perfettamente cosciente dei propri limiti, ma anche dei propri punti di forza. Inutile attendersi le psicologie complesse di un Games of Thrones o l’irriverenza di un Misfits. Qui ci si diverte con una rivisitazione simpatica dei grandi classici dell’high fantasy. L’assenza di presuntuosità, l’impressione che gli autori sappiano sempre esattamente quel che stanno facendo e l’onestà complessiva del tutto rendono la serie straordinariamente piacevole da vedere. Voglio dire, nulla di immancabile, non è quella roba che ti fa urlare al capolavoro o genera dipendenza, ma dove sta scritto che uno abbia sempre voglia di capolavori, no?
Per altro, tutti i limiti della serie non significano che a volte non si affondi un po’ di più con le trame; ci sono state un paio di puntate della prima stagione – penso a The Beginning of the End, The Moment of Truth o To Kill the King – in cui certi temi un po’ più “pesanti” vengono affrontati in modo non banale. C’è poi una certa ambiguità di fondo che anima alcuni personaggi, e che non viene mai del tutto risolta, ma anzi indagata in modo interessante: penso a Uther, o Morgana. Anche l’immancabile triangolo che inizia a intravedersi nella seconda stagione non è poi così stantio quanto si potrebbe credere.
Insomma, ripeto, non vi dico “vedetevelo perché è imprescindibile”, ma se un domani aveste voglia di una cosa leggera da vedere in scioltezza, ve lo consiglierei di certo.

P.S.
Per favore, no spoiler nei commenti, per chi stesse seguendo la cosa in contemporanea con il Regno Unito. Ok, la storia la sappiamo tutti, ma Merlin si prende un fracco di licenze poetiche sulla versione classica del mito di Artù, e tutto sommato io non ho voglia di scoprire in anticipo come la storia prosegua.

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