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The Mandalorian: semplice semplice

E finalmente, si può parlare di The Mandalorian. Vorrei tantissimo sapere perché la Disney ha ritardato così tanto l’arrivo del servizio in Europa, ma vabbè, è andata così. Tutti hanno già commentato, tutti hanno già visto, che senso hanno queste mie righe? Nessuno, mi sa, ma tanto mi sto specializzando in risposte a domande che nessuno ha mai posto, tipo Lisa Simpson.
All’epoca della sua uscita americana, tutto il dibattito sulla serie alla fine verteva sul fatto che The Mandalorian batte Episode IX otto miliardi a zero. Pure io un po’ ci sono cascata dentro, perché da un lato avevo scarsissime aspettative su Episode IX – cosa che forse alla fine mi ha permesso di godermelo con mente leggermente più sgombra – dall’altro, inspiegabilmente, le avevo altissime su The Mandalorian. Non so perché. Di Boba Fett e dei suoi epigoni mi è sempre fregato pochissimo. L’unica incursione seria nell’universo di Star Wars senza i suoi protagonisti principali, Rogue One, mi aveva più che altro irritata. E dunque perché aspettavo una cosa che è in sostanza la crasi di queste due cose? Lo sa il cielo. Ma ci credevo tantissimo, e tutto quanto ho letto e intravisto in questi mesi mi ha solo confermata nel mio hype. E quindi, alla fine?
E quindi alla fine occorre fare molte premesse. The Mandalorian si prende delle libertà rispetto al prodotto Star Wars medio non perché Favreau & co. siano chissà che geni temerari, ma perché è un oggetto a rischio quasi zero: è uno spin-off su un personaggio di cui manco si parla nella saga principale, è una serie tv dal formato pure atipico, in sostanza è un teaser di lusso per il servizio Disney+. È ovvio che in una cosa del genere, una specie di easter egg per fanatici del brand, fosse possibile osare appena di più. Inutile dunque fare confronti con Episode IX, che invece fa parte del ramo principale del franchise e si tirava dietro aspettative gigantesche. Tra l’altro, queste grandi libertà si riducono a una colonna sonora atipica – ma, ve lo dico, da urlo – e una serie di scelte inconsuete, tipo che praticamente nessuno ha un nome, il protagonista lo vedi in faccia dieci secondi su quattro ore totali di screen time e i dialoghi dell’episodio medio entrano su uno di quei fazzolettini che ti danno al bar assieme al caffè.
Sì, non c’è niente di davvero originale in The Mandalorian. Sì, è la fiera della citazione, da Kurosawa a Lone Wolf & Cub. Sì, promette più di quel che mantiene, ed è in soldoni un grandissimo gioco di prestidigitazione, volto a coprire con tanto fumo che l’arrosto sono 50 gr di fettina di vitella ben cotta. Ma è un problema? No. Non ce ne frega niente che è tutto già visto e semplicissimo, non ce ne frega niente che ci stanno infinocchiando per l’ennesima volta, e non ce ne frega niente per due motivi: che è tutto fatto coi sacri crismi, a parte due o tre cose, e Baby Yoda.
The Mandalorian non sta là a sparare alto. Ti vuole divertire con una storia basica, ma forte: stronzo che ritrova la sua umanità – forse – grazie a un bambino. Tutto qua. Ma inizia subito col botto, dandoti più o meno tutto quanto uno si aspetta da Star Wars: esotismo, avventure, e gente che scoatta. E come scoatta il Mandaloriano, almeno in metà episodi, solo Han Solo dei bei tempi. C’è tutto: ci sono i pupazzoni, ci sono le frasi storiche – al secondo episodio io e Giuliano già commentavamo con “this is the Way” e “I have spoken” – le astronavi, e i blaster e tutto quello che desideri. C’è, lo ripeto, perché siamo nell’eccellenza, una colonna sonora che azzecca il refrain epico e che comunque è declinata alla grandissima, con echi western ed elettronici inusuali per il canone di Star Wars ma assolutamente perfetti per ricreare quell’atmosfera retro-scifi che tanto sta bene sull’ambientazione. E c’è spesso anche una regia che non si nega qualche guizzo qua e là. E quando c’è tutto questo, perché uno dovrebbe desiderare l’originalità? Ma poi, cos’è l’originalità? Avere un’idea nuova? O saper cavare il sangue dalle rape degli archetipi più triti, permettendoti ancora una volta di perderti nella galassia lontana lontana? Dalla risposta a questa domanda dipende l’apprezzamento per questo onestissimo pezzo di artigianato che, lo confesso, io ho adorato. Nei suoi limiti, che percepivo in ogni episodio, nella sua banalità, pure. Ma mi interessava del Mandaloriano, mi interessava del Bambino, mi interessava di Quill che ancora spero non sia morto, e mi interessava anche del droide, dannazione. Mi interessava di tutti, e, finita la visione, ho continuato a pensarci, e quel mondo, il mondo di frontiera del Mandaloriano, il suo curioso codice d’onore, stanno ancora con me. È tutto qua. E non è facile ottenere questo risultato, tanto meno con una storia così basica e personaggi così tagliati con l’accetta. Ma Favreau c’è riuscito. La risposta alla domanda di Poe in Episode IX, quando si trova da solo a dover comandare la Resistenza: come facevano prima di me? Ed è facile vedere JJ in trasparenza a quella domanda. Beh, non lo so JJ come facevano, o avrei azzeccato la formula anch’io, ma Favreau c’è andato tanto vicino.
Ma dicevo che c’è un altro elemento: Baby Yoda. Ora, la pucciosità è sempre stata insita in Star Wars. I droidi sono pucciosi, i porg sono pucciosi, Babu Frik vuole essere puccioso. Ma la pucciosità di baby Yoda è fuori scala. Credo neppure alla Disney avessero capito che razza di bomba avevano tra le mani, e infatti i pupazzetti sono arrivati in ritardo. Baby Yoda è il deus ex-machina che redime The Mandalorian da qualsiasi eventuale vaccata: anche se l’episodio fosse una palla micidiale, basta che Baby Yoda tira giù le orecchie e tu hai gli occhi a cuore, e chissene del resto. È un colpo basso? Bassissimo. Ma funziona. È una strizzata d’occhi al fandom che manco JJ, ma il fandom ci casca, e dunque, dov’è il problema? Io già vorrei lo studio farcito di Baby Yoda che escono da tutte le parti.
Ultime due osservazioni: dopo anni di serialità che pareva aver ragione d’essere solo nell’esistenza di una trama orizzontale spintissima, cosicché se entravi già al secondo episodio non capivi niente, ho molto apprezzato che The Mandalorian proceda così, a braccio, con una trama orizzontale flebilissima. Ogni tanto fa piacere vedere episodi autoconclusivi, godersi una storia che in mezz’ora inizia e finisce. Certo, il gioco è bello finché dura poco, e in effetti un paio di episodi centrali sembrano più un riempimento che altro – tipo l’evasione dei tizi dalla galera, che è un’idea interessante, ma i tipi sono tutti così insopportabili che ho faticato ad arrivare fino in fondo senza sperare che il Mandaloriano li seccasse tutti nei primi cinque minuti – ma in linea di massima funziona. Funziona molto anche che finalmente la Forza ha delle regole chiare. Baby Yoda può farci un sacco di cose fighe, con la Forza, ma poi si stanca, cade addormentato e buonanotte ai suonatori. Molto semplice, certo, ma efficace nell’evitare che la Forza onnipotente ammazzi l’intreccio. Sì, JJ, qui bastava così poco.
Quindi, che dire? Per quel che mi riguarda, datemene ancora. Sarò di gusti semplici e di bocca buona, ma ho apprezzato la pietanza. Sempre più spesso, a colpirmi non è la roba stratosferica con ambizioni altissime, ma i prodotti semplici e ben fatti, in cui, per miracolo, si riesce a cogliere ancora un pochino di cuore. Il resto è pretenziosità, l’unico peccato cui The Mandalorian non indulga.

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Star Wars – The Rise of Skywalker. La fine per davvero.

Ci ho messo tipo due settimane, e alla fine ci sono riuscita per caso, ma infine sono andata a vedere L’Ascesa di Skywalker. Prima di partire con la recensione, che non sarà SUPER SPOILER – ma tanto, voglio dire, a non averlo visto eravamo rimasti io e tipo due eremiti nel deserto di Atacama – ho finalmente la spiegazione del perché l’Universo non voleva che andassi: seduta al cinema, mentre aspetto l’inizio, tra le pubblicità pre-visione partono le inconfondibili note di Last Christmas, versione originale degli Wham. Mi illumino d’immenso e capisco: l’Universo voleva evitarmi di finire nel Whamalla. Grazie, Universo, ho apprezzato. Espletate le formalità, possiamo passare alla recensione. Eh. Eh.
Vabbè, non ho gran fiducia in JJ. Mi dicono che in realtà molti dei danni che io attribuisco a lui siano da ascrivere a Lindelof; non lo so, ma credo siamo tutti abbastanza d’accordo nel dire che nei film di Star Trek e Star Wars sia sempre stato piuttosto derivativo. Into Darkness è L’Ira di Khan peggiorato, e The Force Awakens si tiene molto sul sicuro, riproponendo il canovaccio di A New Hope. A me, a differenza più o meno dell’universo fandom, l’interpretazione del canone – o il suo sovvertimento, meglio – operato da Ryan Johnson in The Last Jedi era piaciuta, indi per cui non avevo grandi speranze su questo Episode IX. Poi avevo iniziato a leggere pareri in giro, che un po’ mi confermavano nei miei timori, o così mi sembrava…e quindi niente, mi sono seduta al cinema prevenuta.
Già su “I morti parlano!” del prologo mi stava prendendo male, per cui, più o meno al minuto due, ho dovuto prendere un bel respiro, e dirmi che toccava che sgombrassi la mente e cercassi di godermi il film senza pregiudizi, o sarebbe stato meglio che mi fossi alzata.
Ora, più o meno fino a metà, ossia alla famigerata agnizione su chi sia Rey, mi è venuto da chiedermi cosa la gente non avesse apprezzato del film. Fin lì c’era più o meno tutto: l’azione, l’umorismo ben dosato, il divertimento. Piccola parentesi: indubbiamente, JJ è uno che l’umorismo di Star Wars l’ha capito e interiorizzato molto più di Johnson. Le battute sono sempre estremamente godibili, ben calibrate, l’uso dei droidi magistrale – anche se l’ulteriore tentativo puccioso col droide monoruota secondo me era del tutto evitabile -. Da quel punto di vista il film è perfetto.
Poi, arriva un punto preciso, in cui d’improvviso mi sono chiesta se a JJ fossero spuntati gli attributi. È il “momento Snoke” del film; ve lo ricordate, in The Last Jedi, quando così, out of the blue, Kylo ammazza Snoke? Poteva benissimo scoprirsi che no, era una finta; si poteva azzerare tutto, restando probabilmente anche nei canoni di una narrazione più lineare. Ma no, è vero, il cattivo muore a metà film e da quel momento la sensazione è che possa accadere qualsiasi cosa.
Ecco, c’è anche in The Rise of Skywalker. A Rey escono i raggi dalle mani, e pare abbia ucciso Chewbacca. Lì, per due minuti, ho percepito che il film poteva decollare. Che da quel momento potevano esserci sviluppi inattesi. Chissà, per una volta magari il buono predestinato non era solo tentato dal Lato Oscuro, ma ci finiva dentro davvero. E invece, stacco di due minuti, e abbiamo scherzato, dai. Ammazza Han, ma, ti prego, non Chewbacca. Pure C3PO alla fine recupera la memoria, che sennò ci intristiamo. Lì avrei dovuto capire.
Io lo sapevo che il fulcro di questo film era rettificare le eresie del precedente, e di queste, soprattutto la più contestata: che Rey fosse figlia di NN. Lo sapevo. Lo sapevo perché le interviste lo lasciavano intendere, lo sapevo perché chi l’aveva già visto lo faceva capire. Quindi, ripeto, lo sapevo. Ma quando si scopre chi è Rey, con una scena che volutamente cita il più famoso “No, I am your father” della storia, lì ho capito che fino a quel momento era stata tutta una finta: no, ragazzi, Star Wars è gente che scopre di essere figlia del cattivo, buoni che per l’ennesima volta finiscono in caverne dove si devono picchiare col loro peggior incubo, cattivi che ti tentano facendoti vedere flotte stellari ribelli devastate da incrociatori galattici. Per JJ Star Wars è questo, senza deviazione alcuna, senza guizzi: una riproposizione il più fedele possibile di cose che erano già state dette egregiamente quaranta anni fa.
Intendiamoci, sono topoi. Non ho niente contro i topoi. Star Wars stesso ne citava a pacchi, non essendo il primo racconto in cui un figlio deve uccidere un padre ingombrante. Ma il problema dei topoi è che confinano col luogo comune: sono così forti perché sono stati ripetuti migliaia di volte nella nostra storia, e proprio per questo, se non li maneggi bene, sei solo il milleunesimo che li ripropone stancamente.
Star Wars trent’anni fa aggiungeva qualcosa a quella storia trita: un’ambientazione assolutamente originale, tanto per cominciare, un mix di western, fantasy e fantascienza che prima di allora nessuno aveva tentato, e poi c’era la principessa che picchiava e salvava, invece di essere salvata, e la scena della grotta in The Empire Strikes Back, nella sua rozzezza, alla luce degli effetti speciali contemporanei, aveva una potenza incredibile, che conserva intatta dopo quarant’anni, perché riportava un mito antico in un contesto moderno. L’hanno rifatta uguale due volte: in The Last Jedi, dove già mi aveva lasciata abbastanza perplessa – ma almeno serviva a capovolgere il mito, spiegandoci che Rey non era nessuno -, e qua, dove invece è para para che nell’episodio V.
The Last Jedi ci ha provato. Può piacere o meno, ma ci ha provato a dare nuova vita a Star Wars. Ha provato ad aggiornare il mito, con un film nel complesso più discontinuo e meno riuscito di questo, ma ci ha provato. The Rise of Skywalker no. The Rise of Skywalker ripropone, con tutti i crismi, per carità, la formula di quarant’anni fa. Le stesse cose con facce nuove. E basta. Ha senso? Boh. Ma l’effetto su di me è stato quello di completare quella vaga sensazione che avevo provato quando per la prima volta avevo visto The Force Awakens. Ve lo ricordate? Avevo percepito che Star Wars non aveva forse più nulla da dare. Ecco, ora ne sono convinta. Questa è la fine vera. Non perché, non senza perizia, JJ ha chiuso tutte le sottotrame, tirando le fila di un intreccio che chiudere per bene era impossibile, visto le libertà che Johnson si era preso. È la fine perché Star Wars inteso così, come un canone immutabile in cui devono esserci per forza delle cose – quelle già elencate, più le battaglie disperate, i ribelli che si salvano all’ultimo minuto – senza possibilità di sgarrare, ecco, quella è una formula che a me non dice più niente. E non sto dicendo che questo Teh Rise of Skywalker non sia un film ben fatto e che non mi sia divertita: sto dicendo che anche basta. Non mi ci ritrovo più, e soprattutto non ritrovo quell’afflato mitico, epico, che continua imperterrito a spirare dai film classici. Non c’è più e basta.
Ora, ognuno avrà la sua idea di cosa sia Star Wars, perché ognuno ha amato cose diverse. Per me è quell’epica lì, che qui, banalmente, non c’è. Ho assistito a tutto con un discreto grado di freddezza, perché a grandi linee sapevo come sarebbe andata. Nella Galassia lontana lontana va così da innumerevoli anni. La gente moriva, e per me era tutto normale, perché le cose andavano come dovevano, come sono sempre andate. Tranne una sola, luminosa eccezione. Ben Solo.
Ben Solo innanzitutto gode dell’interpretazione di uno degli attori che più mi piacciono e più mi suscitano simpatia tra quelli della nuova generazione. Ben Solo non è un personaggio originale, Ben Solo è pure mezzo sghembo, come la sua maschera rimessa insieme con l’Attack rosso, e non tutto torna, in lui. Ma ha una potenza che agli altri manca. Sarà Adam Driver che è bravissimo, e ci crede alla morte. Ma qualsiasi cosa legata al suo arco, l’ho amata. È l’eroe dei nostri tempi, più di Rey, più di tutti gli altri che “vinciamo perché non sia soli” e blablabla che, boh, preferivo molto di più la lode al fallimento di Yoda, che tutto ‘sto buonismo. Che poi, vorrei capire le frotte di ribelli alla fine del film dove stavano quando li chiamava Leia, ma vabbé. Ben è un poveretto che solo alla fine prende in mano davvero il suo destino, e fa quel che deve. È irrisolto fino all’ultimo, l’unica soddisfazione di una vita passata a cercare di raggiungere le inarrivabili aspettative sue e di chi lo circonda la raggiunge un attimo prima di schiattare, novello André, e lì c’è tutto: il dramma vero di chi è costretto a muoversi in tempi senza eroi, e ad esserlo suo malgrado. L’unica figura vera, in mezzo ad action figures semoventi che bene o male conoscono tutti il loro ruolo. Dai, chi ci crede che Ray è tentata. Va da Palpatine già convintissima. Ben ci va con la chiara consapevolezza che ha da schiatta’ e chissà se servirà pure. Ed era partito come un Frignetta.
Per il resto, un paio di appunti collaterali. La Forza ormai è incomprensibile. Già lo era relativamente nei film classici, ma a grandi linee avevi presente cosa potevi e non potevi fare. Adesso no. Adesso Rey ci ferma le navi a mezz’aria, e quindi ti domandi perché non apra le onde novella Mosè per andare alle rovine della Morte Nera. È una roba senza limiti, che a volte si usa, a volte no, non è chiaro perché. È un problema di tutta la nuova trilogia.
Nota di merito, invece, per la capacità di JJ di riannodare i fili. È evidente che prende dal film precedente le cose che gli sono piaciute – la telepatia Rey-Ben, la manovra Holdo, anche se butta lì una battuta per strizzare al solito l’occhio ai fan, ma Poe entra ed esce dalla velocità luce come dalle porte scorrevoli – e blasta quelle odiate – Luke e la spada laser – ma riesce a rimettere tutto assieme anche con una certa classe. Ho apprezzato alcuni rimandi interni, tra cui la nave di Luke al santuario, l’astronave dei genitori di Rey, i libri del credo Jedi…piccole cose, che però danno solidità e coerenza interna all’intreccio. Per quelli che “visivamente è stupendo”, sorry, ma non ho trovato niente di paragonabile all’ultima ora di The Last Jedi e il pianeta che gratti il sale ed esce il sangue. Incomprensibile la scelta di segare Rose, che dà tanto l’idea che si siano voluti compiacere i fan in uno dei loro deliri meno giustificabili e più odiosi (tutta la pippa razzista sul fatto che Rose fosse asiatica, per intenderci).
Per il resto, è un film godibile, ben girato, ben fatto. Ma che domani mi sarò dimenticata. Questione di gusti, con ogni probabilità. Me lo rivedrò di sicuro, innanzitutto in lingua originale, che ormai mi sono abituata alla voci, soprattutto al vocione baritonale di Ben, e poi ci farò tutte le maratone Star Wars, ma le faccio anche con Episode I, II e III, che vedo abbastanza come fumo negli occhi.
Mi rendo conto che alla fine è venuto fuori un confronto continuo con The Last Jedi, e forse è semplicemente sbagliato, e ogni film è un discorso a sé, e tutte le regole di una critica seria, che io non ho mai fatto, e mai farò, perché non ne sono in grado. Ma forse ci avevo creduto, forse ci avevo visto dentro qualcosa, là.
Star Wars è morto, viva Star Wars? Boh. Magari nella serialità, chissà. Forse ha ragione chi dice che ormai la vera creatività sta là, che lì si osa per davvero. Intanto, resta il passato, che non passerà mai, che ci aspetterà fedele ogni volta che faremo partire il file, e la scritta A New Hope riempirà lo schermo nero di stelle.

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Solo A Star Wars Story, la recensione: Rogue One scansate

Non ho mai sentito un reale bisogno che l’universo filmico di Star Wars venisse espanso. Non pregavo per una nuova trilogia, e ho accolto la notizia che ci sarebbero stati degli spin-off con una discreta indifferenza. Quando ho saputo che ne avrebbero girato uno su Han Solo, mi sono semplicemente detta che non se ne sentiva il bisogno. Ho seguito con filosofico distacco tutte le notizie su attori protagonisti incapaci e registi silurati in corso d’opera. Sentivo che era una storia che non mi riguardava. Il trailer me lo sono visto perché, dai, per me è quasi lavoro. E comunque si tratta di Guerre Stellari. E, a sorpresa, I’ve had a good feeling about it. Non era un trailer paraculo, come molti di quelli più recenti. Diciamocelo, ormai il trailer è un genere cinematografico a parte, con opere che raccontano storie praticamente autonome rispetto al film, che del film stesso ti dicono pochissimo, e della pellicola spesso sono di gran lunga migliori. Il trailer di Solo no. Era un trailer come se ne vedevano una volta, e trasmetteva l’idea di un film col giusto mood, solido e un po’ old style. E quindi nulla, alla fine sono andata a vedere anche il film. Oggi. E alla fine mi è partito l’applausino, perché per l’80% della visione sono stata col sorriso sulle labbra, mi sono divertita per due ore, e io non so cos’altro si possa chiedere a un film di Star Wars se non che quel che ci dà Solo. Davvero. Non ci saranno spoiler, per cui andate avanti tranquilli. Quel che ci sarà, saranno ampi pipponi sui massimi sistemi della narrazione d’intrattenimento, su questo siete avvisati :P .
Metto le mani avanti. Non siamo dalle parti capolavoro. Non ci sono guizzi particolari, se non un paio di belle idee sulle scene d’azione, ma nulla che faccia strappare i capelli. Fin dalla prima inquadratura, Solo non vuole essere altro che un onesto film d’intrattenimento, basato su una trama semplice e personaggi coi quali è facile empatizzare. Non ti vuole spiegare che pure la Ribellione è composta da brutti ceffi, e il male e il bene sono mischiati e bla bla bla (per quanto, c’è una scena di 30 secondi, all’inizio, che spiega meglio di tutto Rogue One quanto sia scema e brutta la guerra), non ti vuole insegnare grandi verità sulla vita, non ti vuole insegnare proprio niente tout court. Ti vuole divertire. Ripetiamo: DIVERTIRE. Ed è in questa sua straordinaria onestà d’intenti, e nel fatto che comunque Ron Howard è uno che il cinema lo conosce e lo sa fare, la sua grandezza. D’altronde, non stiamo parlando di sei tizi disperati che devono schiattare dopo due ore di film; Han è il pirata guascone per eccellenza, il personaggio che per tutta la trilogia classica ha tenuto sulle spalle la parte ironica e divertita della saga. E Solo è proprio questo: un film intriso di quello spirito degli episodi IV, V e VI che, nel corso degli anni, semplicemente si è perso – e solo in parte, e in modo non del tutto riuscito, si è cercato di recuperare in The Force Awakens -, una grande e bella avventura su gente che vuole esplorare la galassia, conquistare la bella del suo cuore, ma soprattutto esplorare la galassia, e sparare alla gente.
Sembra tutto estremamente ovvio, che uno a volte al cinema abbia anche solo voglia di divertirsi, soprattutto quando va a vedere un film così pop, e invece non lo è. Tutti i film del genere più recenti non possono esimersi dal cercare di essere “adulti”, qualsiasi cosa questo voglia significare, dall’avere una “svolta dark”, che, sia maledetta, ha rovinato anche roba bella come Harry Potter. Non a caso, la critica più incomprensibile che ho letto sul film si lamenta che è “roba per ragazzini”. Esatto. Come tutta la trilogia classica di Star Wars, che, vi do una notizia straordinaria, non è Godard, non è Truffaut, ma è un film – seminale, certo, che rilegge e rinnova temi antichissimi, fondando sostanzialmente un’epica moderna – per bambini, cresciuti e non. È una fiaba. E non c’è nulla di male nell’esserlo, e nell’apprezzarlo. L’uomo di fiabe vive, ha sempre vissuto. Siamo noi che, per darci un tono, abbiamo costruito intorno a Star Wars un apparato critico la cui unica funzione è ormai solo nasconderci la verità: che questa storia ci piace perché ci fa tornare bambini. Che vergogna, eh?
Comunque. Per quel che mi riguarda, Solo è il gran film di avventura a tema Star Wars che aspettavo da Il Ritorno dello Jedi. Una cosa diversa rispetto al filone principale della saga, ma di cui personalmente sentivo il bisogno. Succedono tante cose, in una trama lineare, semplice, ma intorno alla quale si tesse una girandola di eventi perfettamente calibrata: non ci si annoia mai, ma non ci si deve mai fermare a pensare cosa stia effettivamente accadendo, perché tizio si ritrova lì e a far che. Tutto è chiaro e cristallino, e scivola via in scioltezza. I personaggi, a parte una grossa eccezione, sono interessanti, divertenti, e ci si appassiona loro in meno di zero. Le inevitabili morti coinvolgono lo spettatore, ed entrare nel film, nella sua atmosfera, è facilissimo. L’eccezione è Qi’ra; personaggio messo lì perché il romance è un elemento topico di film del genere (ci arriviamo), non è risolto, forse volutamente. Infatti mi ha sorpresa, ma il film ha un finale spalancato, che sta proprio sulle spalle di Daenerys (dai, purtroppo Emilia Clarke ormai Dany ce l’ha stampata addosso, è un personaggio da lei inscindibile). Resta il fatto che le sue azioni sono le meno giustificate del film, e forse due minuti due per spiegarci cosa sono queste cose indicibili che ha fatto (o almeno farci vedere come queste cose indicibili l’abbiano trasformata, e fatta diventare una donna diversa e più dura) potevano essere utili. Ma è peccato veniale.
Per il resto, il film fa quel che deve, davvero. L’adesione al canone di Star Wars, in termini di scene tipiche della saga, è commovente. C’è l’inseguimento, il mostro, la storia d’amore, lo humor. C’è tutto quel che ti aspetti, servito con tale garbo e maestria che non stai mai lì a dirti “eh, ma è tutto già visto”. No, dannazione, no! È già visto se è messo in scena in modo sciatto e banale, ma Howard è uno che questi meccanismi li conosce bene, e quando li mette in scena, non lo fa perché gli son finite le idee, ma è perché come fossimo nell’epica classica, in cui sai che Aurora ha le rosee dita e, quando l’eroe muore, le armi tuonano su di lui. È il canone del genere, è ciò che rende questa storia archetipica, e dunque così amata. Per altro, i rimandi all’universo di Star Wars sono così tanti che a un certo punto uno smette anche di vederli e contarli: rimandi in termini di scene, di elementi di trama, di oggetti e personaggi. È un film profondamente dentro l’universo di Star Wars, più di qualsiasi altro dei nuovi.
E poi c’è questa cosa meravigliosa, per cui tu sai cosa succederà in certi punti, perché è storia: sai che Han vincerà il Millennium Falcon a carte, sai che la sfangherà, e farà la dannata rotta di Kessel in dodici parsec. Il rischio noia è quindi altissimo. E invece no: perché quando dietro la camera hai uno che sa fare il suo lavoro, quello riuscirà a crearti la tensione anche dove non può essercene, sparigliando le carte, creandosi isole di libertà creativa anche nell’alveo di una trama che chiunque sa essere già scritta. Non vi faccio spoiler perché questi pezzi di bravura vanno apprezzati anche grazie all’effetto sorpresa, e io ho apprezzato davvero molto.
Spendo due parole anche per il cast, che, a mio modesto parere, è azzeccatissimo. Sì, anche Alden Ehrenreich, che ha la faccia giusta, e non sarà il mejo attore del bigoncio, ma come Han Solo pischello funziona, e bene. Lando fantastico, e grandi anche tutti gli altri.
Insomma, io ve lo consiglio tantissimo. A patto che sappiate lasciarvi ancora andare a godere dell’avventure pura e semplice, che non si propone scopi alti, ma solo dell’ottimo intrattenimento, realizzato al meglio delle capacità di tutti coloro che hanno contribuito a produrlo. In questo senso, è un grandissimo film, come se ne vedono pochi, di recente, e come vorrei vederne di più.
Il cinema è bello perché è vario, ce n’è per tutti i gusti, e ormai anche Star Wars è un universo enorme, in cui ognuno può trvare la declinazione più adatta ai propri gusti. E Solo è il piatto giusto per il mio palato.

P.S.
Per chi volesse capire il titolo della recensione, qui trovate ampia disamina del perché Rogue One non mi è granché piaciuto.

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Star Wars VIII – The Last Jedi o Film a Metà

Come due anni fa, quando la Forza si risvegliò, l’alberello di Natale a tema Star Wars è acceso, e io sono pronta a recensire. Nonostante la mia (intollerabile) mancanza di piani per andarmelo a vedere, ieri sera mi sono imbucata allo spettacolo delle 18.30, e ho visto The Last Jedi, che secondo me è L’Ultimo Jedi, ma la distribuzione dice di no, so’ di più, sarà.
A differenza di due anni fa, stavolta ho molto più chiaro cosa penso di questo film, ma sarà comunque lunga. Non c’è nessun vero spoiler, ma accenni piuttosto vaghi alla trama.
Comunque, facciamola breve prima di scendere nel dettaglio: se il film fosse stato tutto come la prima ora e mezza, non starei probabilmente neppure più a scrivere. Avrei archiviato la pratica sequel di Star Wars come una roba che non ha sostanzialmente più molto da dire, se non ciurlare in un manico del quale non è rimasto poi molto. Se invece fosse stato tutto come l’ultima ora, adesso sarei qua a gridare al capolavoro. Perché, sì, il film è drammaticamente diviso in due un po’ in tutto: regia, ritmo, densità di eventi, potenza visiva e della rappresentazione. Il risultato viene portato a casa alla fine solo perché l’ultima ora è meravigliosa, e, incredibilmente, riesce a tirare fuori dal pastrocchio generale un’unità tematica complessiva davvero miracolosa. Vi giuro, sembra che a un certo punto il regista sia entrato in una stanza con dentro riuniti tutti i produttori, li abbia falciati a colpi di AK 47 e abbia urlato sui corpi caldi “E mo si fa come dico io!!”. Proprio con questa moderazione, che è poi la cifra dell’ultima famosa ora.
Per certi versi, sembra che il film abbia fatto propria la lezione di Games of Thrones: voi sapete che, con tutto l’amore del mondo per un prodotto d’eccellenza sotto tanti aspetti, io alla fine penso che sette stagioni della serie siano servite solo a far crescere i draghi di Daenerys e che l’azione comincia davvero all’ultimo minuto dell’ultimo episodio della stagione sette. Ecco. La prima ora e mezza di Star Wars VIII serve a perdere tempo. Sembra che qualcuno gli abbia ordinato di fare due ore e mezza di film, pena la morte, e quindi gli sceneggiatori si siano messi là a pensare come allungare la broda. Quindi vai di lentissimi inseguimenti navali, in cui inseguitore e inseguito, per motivi imperscrutabili, vanno esattamente alla stessa velocità. Meno male che in mezzo ci sono due notevoli combattimenti che non riescono a battere l’irraggiungibile macello dell’inizio dell’Episodio III, ma tengono botta. Poi ci sono piani di combattimento basati sul semplice fatto che nella Resistenza la gente non si parla, perché no gnegnegne, ma che comunque servono solo e letteralmente a perdere tempo, e soprattutto Rei che si fa mille pippe sull’isola delle monache-pesce insieme a uno scorbuticissimo Luke, con tanto di citazione alla scena seminale della caverna de L’Impero Colpisce Ancora, ça va sans dir molto meno potente.
Non che sia un brutto guardare, eh? C’è anche un colpo di scena o giù di lì, però relativamente telefonato. Ma tutto è sostanzialmente piatto e anche già visto. Ed è stato lì che mi sono detta una cosa che avevo già tirato fuori per The Force Awakens: Star Wars non ha più molto da dire, se non fare infinite variazioni su temi già noti, aggiungendoci giusto qualche pezzo in computer graphics in più e tante bestioline carine (voglio un porg, ora).
Poi, lentamente, le cose iniziano a ingranare. Fino al botto. Il colpo di scena vero. Quello in cui Rian Johnson dice “sì, dai, vi ci ho fatto credere, ma ho scherzato: mo facciamo sul serio”. E da lì tutto decolla. Ma davvero. Innanzitutto compare una regia, con un’infilata di scene memorabili che hanno come unico problema che sono tipo ottanta in un’ora. Un tripudio per gli occhi di coattaggine allo stato puro, in cui chiunque, ma davvero chiunque, tira fuori le palle e va over the top, facendo cose che i nerd in genere vedono solo nei loro sogni più umidicci. Tipo c’è un duello che è praticamente speculare a quello (da me amatissimo) di Rey e Kylo nella neve che è una vera goduria per gli occhi (e c’è pure Myra :P ). C’è Luke che tra poco inizieranno a girare meme a pioggia con quello che fa. Ci sono anche delle scene evidentemente paracule, messe lì per fare fan service, ma messe così al posto giusto, fatte così bene, che, voglio dire, lo so che mi stai blandendo, ma in finale chissenefrega, dammene ancora! C’è il pianeta che gratti il sale e sotto c’è il sangue, quello lì dei trailer, in cui questa roba del rosso viene usata all’ennesima potenza, imbastendo tutto un sottotesto di destino e morte che levati. È epica, è il miglior aggiornamento possibile di Star Wars a questi tempi di passaggio che viviamo, è quel che tutta questa trilogia avrebbe dovuto essere nelle tre ore precedenti, dannazione. Quell’ultima ora là ci dice proprio questo: che viviamo in tempi senza più eroi, e quelli rimasti sono tristi, stanchi, e non sono per niente come ce li siamo immaginati. E che anche le cose in cui credevamo, la Forza e quella roba là, quando la vedi per davvero è tutta diversa da come te l’avevano raccontata. Viviamo la fine dell’innocenza, viviamo l’età adulta. Non possiamo più guardare a Star Wars come trent’anni fa, perché siamo cresciuti, e quel che abbiamo adesso per salvare il mondo è la summa di ciò che siamo: due ragazzini sperduti, che cercano il loro posto nel mondo, e che nel farlo fanno cose belle e cose terribili, e, come tutti i ragazzini, hanno poteri immensi, ma una testa da bambini. Ecco, questo è lo Star Wars del XXI secolo, che coglie lo spirito dei tempi, e lo trasfonde in un’epica contemporanea, nella quale possiamo specchiarci e riconoscerci, ma cui possiamo anche ancora credere, come credevamo nella favola di quasi quarant’anni fa.
Tra l’altro, Johnson fa operazione raffinatissima di svuotamento dall’interno dei topoi di Star Wars, una cosa che per certi versi è l’opposto delle strizzate d’occhio (Leo Ortolani®) di Abrams. Tutto sembra andare come già nei film precedenti: il guascone che però poi diventa buono, il cattivo che passa al lato chiaro all’ultimo istante, il maestro ucciso dall’allievo. E invece no. Invece a un certo punto sembra davvero che qualsiasi cosa possa succedere. This is not going to go the way you think, diceva Luke nel trailer, e alla fine, mannaggia a lui, è vero.
Ora, avrete capito che tutta questa parte qui mi ha esaltata. Ma. Ma il film nel suo complesso è davvero troppo discontinuo. Tra l’altro, la saga continua a fallire nel cercare di proporre un cattivo che non sia incarnazione del male assoluto ma che al contempo abbia delle motivazioni valide. Ora, non voglio dire che Kylo sia Anakin II la vendetta, ma, sebbene lo trovi un gran bel personaggio, che in questo film si sviluppa pienamente, secondo me sul lato delle motivazioni c’è ancora da lavorare. Sì quello che ci dicono, ma non basta. Spero nel prossimo film. Taciamo anche dei due personaggi più inutili della nuova saga, Snoke e Phasma. Quest’ultima io speravo venisse un po’ rivalutata in questo nuovo episodio, e invece niente: conta quanto il due di coppe con la briscola a bastoni. Il nulla pneumatico. Snoke si attesta su un’utilità leggermente superiore, ma resta una cosa difficile da decifrare, e soprattutto profondo quanto la pozzangherina che sta nel tempio Jedi dove Luke ha messo le tende.
Quel che porta a casa il risultato, comunque, è il fatto che il film nel suo complesso ha un senso. E il suo senso è che coi vecchi personaggi abbiamo chiuso. Ragazzi, sono andati, hanno dato il loro, ma non hanno più un ruolo da giocare in questa storia. La meravigliosa scena finale col bambino ce lo dice con chiarezza. E, come ha detto qualche mio amico su Facebook, bisogna uccidere i propri padri, a un certo punto, sennò si resta bambini per sempre. E questo film ci mette sopra la lapide.
Sembrerebbe dunque un ottimo ponte lanciato verso il futuro. Solo che in questo futuro ci sta Jar Jar Abrams, regista dell’episodio conclusivo, che nei franchise c’ha il terrore di produrre idee originali, e che è stato la rovina del nuovo Star Trek, tanto è vero che appena si è sciacquato è venuto fuori quel bel prodottino che è Beyond. Abrams è derivativo alla morte, non vedo come possa dare una chiusura a questa storia che non sia il rigiramento di frittata de Il Ritorno dello Jedi. Qua invece le cose sono enormemente più complesse, e Kylo Ren mi sta a tanto così da diventare personaggio memorabile, ma se te me lo riporti a casella zero, e mi diventa Anakin Reloaded, ecco, è la fine.
Per cui, boh. Vorrei essere speranzosa per il futuro, ma non ci riesco. Vorrei andarmelo già a rivedere, ovvio, magari in inglese. Mi tengo questa mezza buona storia, e mi accontento così. Comunque, è la cosa migliore prodotta su Star Wars da Il Ritorno dello Jedi, e vale la pena andarlo a vedere. Per cui, andate, che la Forza è viva e lotta con noi.

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Star Wars. Tutto.

Nell’ultima settimana o giù di lì mi sono rivista tutto Star Wars, dove per tutto intendo tutti e sei i film. Ora, potremmo star qui e disquisire quanto i tre episodi nuovi della saga siano o meno Star Wars, e con ogni probabilità io vi direi che preferisco considerare tali solo gli episodi 4, 5 e 6, ma resta il fatto che George Lucas aveva in testa un progetto a sei film (o nove, secondo voci incontrollate…), e che questo progetto è ora stato completato. La novità di questa visione è che non ho visto i film in ordine di realizzazione, ma seguendo la cronologia della trama: questo significa che sono partita con La Minaccia Fantasma e ho finito con Il Ritorno dello Jedi. Tutto in inglese.
Era la prima volta che facevo una visione del genere. Volevo cercare di apprezzare la saga così come era stata nella mente di Lucas fin da principio, e sotto sotto volevo anche cercare di rivalutare la trilogia nuova, che mi ha sempre lasciata un po’ meh.
Ora, giunta alla fine della maratona posso fare una prima considerazione: che non c’è modo che l’esalogia possa veramente essere considerata un corpus unico. Ci sono differenze abissali tra gli episodi nuovi e quelli vecchi, roba che sembrano scritti e diretti completamente da altra gente (il che in effetti è vero, ma è vero pure che dietro al soggetto c’è sempre Lucas). Per quanto uno si sforzi, gli è proprio impossibile immaginarsi l’Anakin dei nuovi film sotto la tutona nera di Darth Vader. Gli unici due personaggi che mostrano una certa continuità sono l’Imperatore – bella forza, è interpretato dallo stesso attore… – e Obi Wan. Lì tanto di cappello a Ewan McGregor che s’è studiato Alec Guinness ed è una sua credibilissima versione giovane. Per il resto, cambia tutto.
Cambiano evidentemente gli effetti speciali: a parte alcune cose (tipo Yoda, che nel complesso è meglio nei film vecchi), quelli della trilogia nuova sono infinitamente migliori. Il problema è che Lucas pare un bambino in un negozio di caramelle: siccome adesso con la CG di può fare tutto, lui fa tutto. La trilogia nuova è letteralmente sommersa dagli effetti speciali, soverchiata ad ogni possibile livello. Levi quelli e non resta niente. L’effetto è di pomposo barocco. Pensateci. La trilogia classica è veramente minimale: le astronavi dell’Impero sembrano uscite da un film di Kubrik, con tutto quel bianco e nero, le linee pulite e la mancanza totale di arredamento. Persino la Città fra le Nuvole di Lando è ultraminimale. Lo stesso dicasi per le uniformi degli ammiragli e degli Imperiali in generale, o i vestiti di Leia, per dirne una.
La trilogia nuova è tutto il contrario. Tutto è di un’opulenza da far sanguinare gli occhi. Padme cambia vestito ad ogni inquadratura, e non si tratta mai di roba comoda, ma sempre di vestiti allucinanti. Tipo la sottanina vedo-non-vedo-famo-che-vedo che indossa in quel di Naboo, sul lago, quando ha accanto un Anakin evidentemente preda di tempesta ormonale.
“Non ci possiamo amare, non ci pensare”, dice, ma poi gli si presenta mezza nuda a colazione.
Padme è la donna che non veste per casa. Se non ha un trespolo di tre metri in testa anche per andare dal tinello al bagno non è contenta. Taciamo delle pettinature: se il coiffeur di Leia andava polverizzato (Star Rats docet) quello di Padme si fa di acidi.
Ma anche tutto il resto è un tripudio di colori da trip mentale, roba assolutamente distante anni luce dalla morigeratezza della trilogia classica. E questo impedisce di pensare che sia veramente lo stesso universo, e sia davvero la stessa storia.
Il barocco però non si esplica solo negli effetti speciali: invade tutto, sceneggiatura compresa.
Una delle battute più azzeccate della trilogia classica è quella tra Leia e Han, quando quest’ultimo viene messo sotto carbonite. Lei gli dice “ti amo”, e lui risponde “lo so”. Perfetto. Dice tutto quel che deve dire, su Leia, su Han, su quel che provano l’una per l’altro. Ecco invece un esempio di dialogo preso dalla trilogia nuova; per coerenza, dedichiamoci a Anakin e Padme, la coppia della trilogia nuova:
Anakin: “Dal momento in cui ti ho incontrata, quanti anni sono ormai, non è passato un solo giorno senza che pensassi a te. E adesso che sono di nuovo con te… soffro da morire. Più sto vicino a te, più mi tormento. Al solo pensiero di stare un attimo senza di te, mi sento soffocare. Sono ossessionato da quel bacio, che non avresti mai dovuto darmi. Ho una ferita, nel cuore, e aspetto che un altro bacio la rimargini. Tu mi sei entrata nell’anima, che si tortura per te. Che devo fare? Dimmelo tu, e io lo farò.”
O Padme, mentre portano lei e Anakin a morire nell’arena:
Padme: “Non ho paura di morire, sto morendo un po’ ogni giorno da quando sei rientrato nella mia vita”.
Voglio dire, nulla di male in generale, ma quante dannate parole, quante…ma davvero la portata di un amore si misura dal grado di sbrodolamento dei dialoghi? Uno scambio di battute come quello de L’Impero Colpisce Ancora sarebbe completamente impossibile nella trilogia nuova.
Nel contempo, anche lo spirito generale della saga cambia decisamente nel passaggio dalla vecchia alla nuova trilogia. La vecchia, anche nei momenti più oscuri, che non mancano, si concede sempre quel minimo di ironia di fondo, affidata più che altro ad Han Solo. E non è quell’ironia che si trova spesso in molti film di intrattenimento moderni, che sta messa lì a sproposito e ti ammazza la tensione. È l’ironia di chi sa esattamente che prodotto sta realizzando, e sa cosa vuole in quel momento il pubblico. È anche quell’ironia lì che fa grande Star Wars.
Ecco, la trilogia nuova ci prova, eh, ne La Minaccia Fantasma, con Jar Jar Binx, e fallisce miseramente. Jar Jar non è simpatico, è infantile e fastidioso, e la sua non è ironia che dia quel quid alla trama, sono gag slapsitck che c’entrano una fava col resto. Sommersi dalle critiche per Jar Jar, gli autori decidono di correggere il tiro con gli altri due film, e l’ironia semplicemente scompare. Tutto è preso devastantemente sul serio. Non sembra stiano girando un film di intrattenimento, sembra stiano girando Il Settimo Sigillo. E se vuoi mantenere quel tono lì, allora devi cambiare tutto; il livello di approfondimento dei personaggi non giustifica in alcun modo il prendersi terribilmente sul serio degli autori, né lo fanno i frizzi e lazzi in CG che circondano il tutto. Perché, ragazzi, una cosa è Il Settimo Sigillo, e un’altra è la galassia lontana lontana, e con questo non voglio dire che l’intrattenimento non veicoli anche riflessioni profonde sull’uomo e il mondo, ma lo fa con altri mezzi. Mezzi che George Lucas s’è dimenticato nei vent’anni che passano tra Il Ritorno dello Jedi e La Minaccia Fantasma.
Comunque, a volte penso che non è tanto Lucas che s’è rimbambito, ma il modo di raccontare storie che è drasticamente cambiato allo scoccare del millennio. Trovare un film di intrattenimento con la stessa potenza di Star Wars è ormai impossibile. Tutto deve avere quel minimo sindacale di buonismo di fondo, assieme a possenti buchi di trama, conditi infine con sceneggiature che ogni tre per due ti devono presentare lo spiegone, che sia mai lo spettatore non capisca. Sembra che certe storie ormai si raccontino solo così, non sia possibile altrimenti. Ora, anche la trilogia classica di Star Wars c’ha le sue belle incongruenze, le sue cose inspiegabili, ma a confronto di quelle della trilogia nuova sono peccatucci veniali, spesso tipici un po’ del genere. Esempio, posso anche crederci che la seconda Morte Nera ha praticamente lo stesso difetto costruttivo della prima, solo che stavolta il buco in cui si deve infilare la nave è il decuplo della volta precedente, è un grande classico delle megacostruzioni dei cattivi; non capisco invece francamente perché Obi-Wan perda tonnellate di tempo a cercare sulle carte un pianeta di cui ha già le coordinate, Kamino, e che dunque potrebbe raggiungere tipo due secondi dopo che ne ha sentito il nome. O perché tra L’Attacco dei Cloni e La Vendetta dei Sith nessuno indaghi un po’ su chi abbia ordinato l’esercito dei cloni, con chi cappero era in contatto il maestro Siphodia e via così. O perché la votazione più importante della storia della Repubblica veda assente Padme, presumibilmente protetta da due Jedi proprio in vista di essa, e al suo posto ci sia Jar Jar. Pensateci, alla fine la Repubblica crolla perché Jar Jar Binx vota a favore dell’esercito. Che dire, ma allora ve la siete veramente meritata.
Potrei andare avanti all’infinito. Mi concedo solo un’ultima riflessione, che credo sia importante anche nel mio lavoro di scrittrice. La trilogia classica funziona perché è semplice: nel primo film c’è l’Impero, ci sono i ribelli, bisogna distruggere la Morte Nera. Fine. Lineare, semplicissimo. Lo schema si complica appena nei due film successivi, ma stiamo sempre lì: ci sono gli eroi, gli antieroi, la missione. La trilogia nuova, invece, è un casino. Oggettivamente, di che parla La Minaccia Fantasma? Qualcuno di voi sa dirlo in due parole? E mi sa riassumere schematicamente tutto il progetto di Palpatine per prendersi la Repubblica?
È tutto un casino, gente che va di qua e di là per farci vedere quant’è bella la Galassia – che bella è bella, per carità – ma senza che le motivazioni di tutti questi spostamenti siano davvero chiari. E i personaggi hanno motivazioni confuse, fanno cose che non si capiscono bene. Dio, ne Il Ritorno dello Jedi tutto il tormento di Darth Vader appare chiarissimo attraverso tre inquadrature tre della maschera, cazzo, della maschera! Tutto intero La Vendetta dei Sith non riesce ad essere altrettanto esaustivo sul perché alla fine Anakin faccia quel che fa, e sono tre ore di film quasi tutte di dialogo.
Quindi, niente. La visione mi ha confermato che la trilogia classica è potente, saldamente realizzata, capace ancora oggi di divertire, commuovere, affascinare. Non è un caso che abbia segnato così profondamente la cultura popolare del nostro tempo. Io, quando Irene fa la cacca nel pannolino, “percepisco una vibrazione nella Forza”, e sono certa che questa cosa non vale solo per me. Cosa resta invece della trilogia nuova? Due belle battute (per la cronaca, “è così che muore la repubblica, sotto scorcianti applausi” e “solo un signore dei Sith vive di assoluti”) e certe soluzioni visive francamente splendide: i pianeti sono tutti bellissimi, idem gli alieni, il design delle astronavi, e anche tutti i primi venti minuti de La Vendetta dei Sith, che mi avevano fatto ben sperare per il seguito. Il resto? Il resto è stato inghiottito dal tempo.

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