Il 18 luglio del 2003 faceva piuttosto caldo. Io non ero ancora al massimo della mia cicciottaggine, ma pesavo buoni 12 kg più di adesso. Indossavo una casacca bianca ricamata di lino che amavo molto, col collo coreano, e un paio di pantaloni larghi, che all’epoca indossavo spesso. Ricordo anche le scarpe: un paio di sandali aracioni con delle grosse perle di vetro.
Ero arrivata all’appuntamento con un anticipo pazzesco, e, va da sé, l’attesa mi stava attorcigliando lo stomaco come non mai. Stavo in piedi a Piazza di Spagna, insieme a Giuliano, e aspettavo. Le foto le avevo viste online, ma da una foto è difficile riconoscere una persona che non si è mai vista, tanto più che la persona in questione, l’avrei scoperto di lì a qualche minuto, era nell’unico periodo della sua vita senza barba, e quindi, rispetto alle foto che avevo visto io, irriconoscibile.
La cosa era cominciata con una telefonata la settimana prima. Una telefonata alle tre del pomeriggio, mentre giocavo a Risiko sul pc. Avevo dovuto farmi declinare le generalità tre volte, un po’ perché non riuscivo a trovare il tasto per spegnere le casse dello stereo che diffondevano suoni di colpi di cannone, gemiti di soldati moribondi e squilli di tromba, un po’ perché non riuscivo proprio a crederci.
«Sono Sandrone Dazieri, chiamo da parte della Mondadori».
La terza volta il tizio al di là della cornetta l’aveva ripetuto ridacchiando.
Non c’eravamo detti molto, durante quella telefonata: giusto il tempo di prendere un appuntamento da lì ad una settimana. Io, che Roma l’ho sempre conosciuta malissimo, non avevo trovato di meglio che fissarlo a Piazza di Spagna, dove trovarsi nella calca di turisti è sostanzialmente impossibile.
Buttata giù la cornetta, avevo saltato in giro per casa per cinque minuti buoni. Come al solito, dopo quei cinque minuti erano iniziate le pippe esistenziali: è uno scherzo, è una truffa, non è vero. Poco contava che Google mi confermava che esisteva uno scrittore che si chiamava Sandrone Dazieri e pubblicava con la Mondadori. Nella mia testa queste cose succedevano sempre agli altri.
Passata l’ora dell’appuntamento, iniziai a preoccuparmi. Per fortuna c’eravamo scambiati i numeri di cellulare. Avevo individuato un tizio in attesa sotto la colonna dell’Immacolata che non coincideva per niente con le foto che avevo visto, ma che evidentemente era alla ricerca di qualcuno. Chiamai, ed ebbi conferma che si trattava di Sandrone Dazieri.
«Piacere, Licia».
«Piacere, Sandrone».
«Lui è Giuliano».
«Ah, la guardia del corpo».
Cazzo, ho cominciato male, mi maledissi mentalmente. In ogni caso, cercai di tenere botta. Occorreva trovare un posto dove parlare in pace, e a me non ne veniva in mente neppure uno. A Piazza di Spagna ci andavo a pomiciare da ragazzina, al massimo avevo mangiato un paio di volte dal McDonald, e non mi sembrava il caso.
«Allora andiamo al bar del mio albergo».
Il posto lo ricordo come molto buio; un bell’hotel di design o giù di lì, ma tutto coperto di graniti e marmi scuri. Presi un bicchiere d’acqua gassata, dovevo restare bella lucida e già ci pensava l’ansia a confondermi tutto.
Ricordo che tenni un atteggiamento da persona per nulla impressionata per tutta la discussione, mentre dentro di me mi dicevo: “Ma davvero? Un contratto? Cioè, volete anche pagarmi??”. Giuliano me lo disse sulla strada del ritorno, vagamente preoccupato.
«Ma…e l’università? Vuoi mollare così?».
Di tutto l’ambaradan, comunque, registrai sostanzialmente due cose.
«Io sono quello in Mondadori che si occupa di tutto ciò che non è letteratura» disse Sandrone passandomi il bigliettino da visita, e io ci rimasi un po’ male. Venivo dal classico, pensare che avessi scritto una roba che non era letteratura mi deprimeva alquanto. La seconda era che Sandrone era stato chiaro: noi ci si prova. Lavoriamo un po’ sul libro – si parlò già di dividerlo in tre parti – se ci piace il risultato finale lo pubblichiamo, e poi vediamo. Può andare bene come può andar male. Nella mia testa il discorso divenne automaticamente: il tuo libro non vedrà mai la luce del sole. Questo non mi scoraggiava. Avevo un’opportunità, per me era già una gran cosa che la Mondadori fosse interessata a quel che avevo scritto, il resto sarebbe stato un di più. Da allora ho preso sempre tutto così: io faccio quel che devo, che è quello che davvero conta, poi quel che arriva è sempre un regalo. Probabilmente è anche per questo che le cose mi sono andate spesso bene. Comunque.
Ci lasciammo con la promessa che avrei ricevuto il contratto.
Nei giorni successivi ho avuro dei momenti in cui ero convinta che tutto nella mia vita sarebbe cambiata. Non avevo ben presente che vita facesse lo scrittore, favoleggiavo di una fama che tutto sommato mi spaventava anche. Però poi il tempo passava, io facevo la stessa vita di sempre, e smisi di pensarci. La verità è che non credevo che sarebbe successo tutto quello che è capitato dopo. Non pensavo che avrei venduto, non pensavo che avrei avuto successo, non immagivano che questo sarebbe diventato il mio lavoro. Quando vidi il mio libro sullo scaffale mi parve già un mezzo miracolo. E lo era, più passano gli anni più me ne convinco. Ma è cominciato tutto così, il 18 luglio di dieci anni fa. Tantissime cose sono partite da lì, cose che spesso hanno anche marginalmente a che fare con la scrittura. La vita è un’infinita ramificazione di cause ed effetti impossibili da risalire, di coincidenze, sudore e fortuna mescolati in differenti proporzioni.
Peso 12 kg meno di allora, ho un marito e una figlia e faccio la scrittrice di professione, ma tutto sommato non sono cambiata poi così tanto da allora. A 23 anni forse avevo già trovato la mia dimensione, e probabilmente questo mi ha salvata.
Sono passati dieci anni e sembrano dieci giorni.
Grazie Sandrone, a noi e a tanti altri anni di lavoro assieme.
E grazie anche a Massimo, che ho incontrato dopo, ma che non è stato meno importante.