La quarantena, in questa forma che abbiamo conosciuto fin qui, sta per finire. Lo so che dal 4 maggio, per noi comuni mortali, non cambierà pressoché nulla, ma non ha importanza: cambia la percezione delle cose. Il 4 maggio è una data simbolica. È l’inizio di quella “nuova normalità” che è diventato il nuovo mantra. Che somigli incredibilmente alla vecchia quarantena è un dettaglio.
È un po’ che mi interrogo su queste settimane chiusa in casa e su questo dopo misterioso di cui non sappiamo molto, in primis quanto durerà. E ho realizzato un paio di cose: che all’inizio l’ho presa malissimo, e non credo comunque di esserne fuori, perché io non ne sono mai fuori. Basta sempre poco per farmi uscire di brocca. Ma sono riuscita anche ad adattarmi più rapidamente di altra gente. vedo in giro fare discorsi che mi sarebbero appartenuti un paio di settimane fa, ora non più. Ora ho fatto la tana nel mondo pandemico e mi sono adattata. Fino al prossimo capovolgimento di cose, ovvio. Poi ho capito che questo tempo – che, se lo guardo adesso, mi sembra essere passato rapidissimo, quasi non fosse esistito affatto – l’ho passato a fare cose che non mi appartengono. Proprio come fosse stato una sospensione della mia vita solita, ho scritto pochissimo (al netto, solo questo), lavorato lo stretto indispensabile, e fatto cose che non avevo mai fatto, o fatto poco, prima. Ho letto tantissimo ad alta voce, che non è il mio mestiere, ovviamente. Ma mi piace, mi dà una mano a mettere ancora a posto la dizione, e allora lo faccio, perché sì, anche se leggo male, come si intitola la rubrica su Instagram. Ho fatto foto. Che non è il mio mestiere. Direi che è evidente dai risultati. Ma siccome non riuscivo a dire quel che sentivo con le parole – un fatto assolutamente inedito e terrificante per me, credetemi – potevo farlo con le immagini. Mi lamento spesso, di recente, di fare poche foto, di non cercare di crescere in quest’ambito, e stare chiusa in un posto che conosco benissimo mi è parso un buon modo per esercitarmi. E anche qui, chissene dei risultati.
Ma, soprattutto, ho tradotto. Ho tradotto tutto intero un libro, The Hollow Boy, terzo libro della saga di Lockwood & Co. di Jonathan Stroud che, come credo sia ormai noto urbi et orbi, è il mio scrittore fantasy preferito (lo sapete che ha partecipato ai Libri sul Comodino dell’ultima puntata di Terza Pagina? Sapevatelo!
). La saga di Lockwood l’adoro, in Italia sono stati tradotti solo i primi due volumi, The Hollow Boy è forse il mio preferito, e allora l’ho fatto. L’ho fatto perché da sempre avrei voluto tradurre. Ho avuto vaghe esperienza con la cosa, in passato. Già a scuola, tradurre dal latino mi dava un piacere strano. Perché io non volevo solo fare la versione: volevo scrivere una roba che avesse senso pure in italiano, non quelle cose tradotte male che non hanno né capo né coda. Era come risolvere un puzzle: non solo cercare le parole sul dizionario, ma cercare la parola giusta che rendesse il senso del testo, e al tempo stesso suonasse bene nel contesto. Riscrivere, forse, coi limiti del caso. Quel piacere lì, l’ho ritrovato quando ho iniziato a imparare meglio l’inglese. Col francese è un po’ più facile: la struttura della frase è quella, molto simili all’italiano, il puzzle è più semplice. Con l’inglese no. La distanza è maggiore. Non puoi tradurre uno a uno, perché non avrebbe senso: devi risolvere la frase come fosse un enigma, mettendo assieme il senso, la comprensibilità e lo stile.
Prima di quest’impresa, in vita mia avevo tradotto solo due cose: un piccolo libro, che però non è mai stato pubblicato per vicende varie per cui, nonostante avessi finito il lavoro, non sono arrivata alla firma del contratto, e i testi di alcuni siti, tra cui una pagina di Wikipedia. Quindi io non traduco. Non è il mio lavoro. Ho fatto quel che ho fatto, di nuovo, perché ne avevo bisogno.
Innanzitutto, perché ho scoperto che mi distraeva tantissimo. Quando mi mettevo lì a tradurre, non c’era altro, e in una fase in cui concentrarmi su un lavoro creativo mi richiedeva uno sforzo sovrumano, perché l’unica cosa cui riuscivo a pensare era l’ansia che avevo addosso, la paura sorda di un futuro inconoscibile, ma che mi appariva comunque tremendo, è stata una vera e propria ancora di salvezza. Una sera mi sono messa lì a lavorare a mezzanotte; non riuscivo a dormire, mi veniva da piangere ed ero spaventatissima. Mi sono seduta alla scrivania, e mi sono fatta portare per mano dalla storia. E ha funzionato. Un’ora così, sono tornata a letto, ho messo la testa sul cuscino e mi sono addormentata.
Poi, quando ho iniziato a stare un po’ meglio, mi sono accorta che tradurre mi aiutava anche in un altro senso. È una specie di forma di scrittura a bassa intensità. Non devi inventarti una storia, creare un mondo, spremerti per raccontarla, facendo per altro appello a emozioni delle quali, in quel momento, mi sentivo completamente prosciugata. Devi farti guidare da un altro, e rifrasarlo. È stata come una cura, per me. È stato come reimparare ad avere a che fare con la fantasia, che mi si era d’improvviso disseccata, come succedeva quando ero adolescente, volevo scrivere, e non mi fidavo di nessuna storia mi venisse in mente per farlo. È stato importante fosse una storia che amavo; l’effetto che aveva su di me, di profondo piacere, mi ha ricordato l’importanza delle storie, dell’ascoltarle e del narrarle.
Infine, quando ormai la voglia di raccontare cose mie mi è tornata, mi ha permesso di godere più profondamente di una storia che amo. Quando leggi un libro per puro piacere, soprattutto se è in un’altra lingua, qualcosa ti sfugge sempre. Ma se lo devi tradurre, non ti puoi distrarre, devi stare attaccato ai punti e alle virgole, e quel termine, che in prima lettura avevi vagamente capito e non avevi approfondito, perché tanto il senso lo avevi colto, ora lo devi per forza comprendere meglio che puoi. Ho scoperto preziosismi di stile che prima avevo perso, metafore geniali che non ricordavo e che mi facevano scendere i brividi di piacere giù per la schiena. È stato come vederlo al microscopio, ma senza perdere lo sguardo d’insieme, come navigarci dentro, immergercisi e godere della sensazione di stare sott’acqua, una delle cose che più amo nella vita.
Ora, ho finito. Sono 420 venti pagine che nelle mie intenzioni forse un giorno leggerà mia figlia – stiamo leggendo assieme il primo, La Scala Urlante – ma più probabilmente non leggerà mai nessuno. Perché non è questa la ragione per cui l’ho fatto. È stata la mia cura, null’altro. La Cura di Licia, per parafrasare un altro libro amato, La Cura del Gorilla di Sandrone Dazieri. E so che andrò avanti. Tradurrò quello dopo e così finché avrò voglia, perché mi aiuta, e credo di averne ancora bisogno, anche solo perché mi tiene un po’ lontana dai social, che in questo periodo mi fanno più male del solito.
Le storie ci salvano, è questa la verità, e a volte lo fanno in modi che non avremmo mai immaginato. Questa storia oggi ha salvato me, e non potrò mai dimenticarlo.