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Licia @Brave – Storie di Ragazze Coraggiose

Chi ha partecipato all’incontro tra me, Edoardo Rialti e Matteo Strukul domenica mattina, a Lucca Comics & Games di quest’anno, forse ha notato la presenza di persone che facevano riprese video e foto, e non appartenevano all’organizzazione di Lucca. Ecco, adesso posso dirvi cosa ci stavano fare :P .
Cominciamo coi link, che è più facile: questo mercoledì, su Laeffe, inizia una nuova trasmissione che si chiama Brave – Storie di Ragazze Coraggiose. Si tratta di otto puntate, ognuna dedicata a una donna con una storia particolare da raccontare. Andate sul link, perché spiega tutto molto meglio di come possa farlo io, e ci sono un bellissimo video e un bel po’ di foto. E insomma, l’avrete capito, una delle puntate è dedicata a me, che coraggiosa non lo sono, però una storia da raccontare ce l’ho :P .
Io mi sono divertita molto a fare questa cosa; è stato faticoso, ma bello, e sono davvero contenta che mi sia stata data quest’opportunità di raccontarmi. Dentro ci troverete cose di me che magari già conoscete, ma anche altre di cui non mi è mai capitato di parlare. Insomma, è una cosa bella.
Ne approfitto per ringraziare la produzione e tutte le persone che hanno lavorato con me, e anche le persone che mi hanno dato una mano in questa avventura: Luigi Pulone e Francesco D’Alessio, che mi hanno aiutata a raccontare la mia parte scientifica, Valentino Notari, Pamela Fornari e Iole Trombetta, che invece mi hanno aiutata con tutta la parte sulla scrittura e le mie storie. Già ve lo detto, ve lo ripeto, grazie davvero tantissimo per il vostro tempo e la vostra disponibilità. Non che ne dubitassi, eh :P , ma questa comunque era più grossa del solito.
E insomma, niente, vi dirò esattamente quando la puntata su di me andrà in onda – uno dei prossimi mercoledì, comunque – ma vi consiglio di seguire tutta la serie, che è piena di ritratti di persone davvero interessanti. Poi fatemi sapere che ne pensate :) .

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Da Vinci’ Demons seconda stagione

E così ieri sera è finita anche la seconda stagione di Da Vinci’s Demons, e, puntuale come le tasse, ecco la mia review :P . Non vi tedio col mio giudizio generale su questa serie, piuttosto vi rimando alle puntate precedenti qui e qui.
Dunque, che dire. Comincerei dalla sigla. Nella prima stagione non me n’ero accorta, ma stavolta c’ho fatto caso: le immagini della sigla sono tutte spoiler. Ce n’è una presa da tipo l’ultimo fotogramma dell’ultima puntata. Cioé. Più o meno a metà, quando mi son resa conto della cosa, è partito il conto alla rovescia per le scene che mancavano, e dunque la caccia al tesoro per capire di cosa avrebbero parlato gli episodi successivi. Questa, unita al fatto che la sigla la puoi sentire anche al contrario, che tanto non cambia, è una di quelle piccole cose che mi solleticano in una serie televisiva. Comunque, entriamo nel merito.
Direi che questa seconda stagione è stata più o meno in linea con la prima. Chiusi la visione, un anno fa, timorosa per gli sviluppi della trama, e devo dire che invece la serie continua a mantenersi saggiamente sul filo della vaccata, senza mai cadere di sotto, in un equilibrio complesso tra cose fighe e momenti WTF che finiscono elegantemente a sciogliersi gli uni nelle altre. Sì, ok, la storia viene trattata malissimo (ma quello non muore dieci anni dopo? Ma l’America non l’ha scoperta Colombo?), ma non peggio di quanto venga brutalizzata la scienza nella serie sci-fi media, e comunque a me fa venir voglia di andarmi a studiare le personalità storiche reali dietro i personaggi, per cui direi che non c’è niente di male. Oltre al tempo, anche lo spazio è estremamente realtivo nel mondo di Da Vinci’s Demons, con gente che percorre mezzo mondo in una puntata circa, o a volte con un semplice cambio di scena. Per quel che mi riguarda, non è un grossissimo problema, quando è al servizio del mantenimento del ritmo, che è poi la cosa migliore della serie.
Quindi tutto ok? No. Perché la seconda stagione mi è sembrata molto più altalenante della prima. A fronte di picchi assoluti (tipo la prima puntata, o la sesta, tra le cose più belle viste in questi diciotto episodi totali), ci sono momenti di stanca, episodi che si trascinano lentamente, e qua e là un certo senso di delusione. Mi spiego.
Innanzitutto, la seconda stagione paga lo spezzettamento dei punti di vista. Mentre bene o male la prima era tutta incentrata su Leonardo e la sua quest, nella seconda il Nostro se ne va nella Americhe a cercare il Book of Leaves, mentre Firenze se la vede bruttissima, tra Clarice che fatica a tenere insieme i cocci, Lucrezia che è in missione per l’enigmatico papà-Papa, e Lorenzo che è protagonista di un’infinita sottotrama nel Regno di Napoli. Ora, senza nulla togliere a tutti gli altri personaggi, è ovvio che il focus dello spettatore è tutto su Leonardo: si chiama Da Vinci’s Demons, non Clarice’s Lovers o Lorenzo’s Quest. È ovvio che l’interesse sarà tutto per quello che deve andare a scoprire l’America con vent’anni d’anticipo: tutti gli altri, anche chissenefrega, direi. Ecco, fatta eccezione per alcuni episodi, in cui le sottotrame sono state gregiamente intrecciate e interconnesse, almeno a livello tematico, tutto è parso un po’ slegato: sembrava dovessimo vedere Firenze tanto perché, ehi, ne abbiamo parlato nella prima stagione, mica ce ne possiamo dimenticare, ma senza che ci fosse una reale tensione narrativa. Inoltre, la trama di Lorenzo ha proceduto a passo di lumaca, con alcuni momenti francamente buttati là a perder tempo (l’attacco dei briganti, per dirne uno). Ci sono poi alcuni personaggi che son stati splendidamente caratterizzati, ma usati un po così: parlo soprattutto di Ferrante, non del tutto riuscito, e che esce di scena pure un po’ da cretino, e per certi versi anche Amerigo (che però viene introdotto con una scena fighissima).
Purtroppo, pure la trama di Leonardo mi ha un po’ delusa. Non so cosa mi aspettassi, ma nella stagione precedente abbiamo visto gente che deve scuoiare poveri abissini per portarsi dietro una mappa, non prima di averli liberati da una specie di shangai gigante, e Dracula che si mena con Leonardo. Per la scoperta dell’America mi aspettavo roba oltre. Invece, diciamocelo, a Leonardo & co. gli va di lusso: sì, li catturano, sì, la prova per guadagnarsi la fiducia dei Maya, e l’avvelenamento (che è al centro dell’epidosio più bello della stagione e forse dell’intera serie), sì, i tre enigmi per entrare nel Vault of Heaven…ma la sensazione è che la buona sorte sia più o meno sempre dalla loro. Non hai quella sensazione di costante pericolo, di difficoltà a non lasciarci le penne, che mi sarei aspettata. Peccato, perché l’inizio del primo episodio prometteva faville. Per chi l’avesse visto, pensateci, c’era tutto: l’esotismo, il confronto fra nemici, la morte, la gnocca. Feuilleton distillato che mi ha indotta a stoppare la visione e fare un bell’applauso.
Comunque, al netto la serie continua a divertirmi molto, è la cosa che guardo con maggior piacere in questo periodo, e ha avuto dei gran bei momenti: i primi due episodi ottimi, il sesto, già l’ho detto, fighissimo, gli ultimi due ottimo dittico, con un finale che ridefinisce ancora una volta il concetto di cliffhanger (ma io avevo capito chi era la tipa in catene più o meno a inizio episodio…). Resta tantissima voglia della terza, e la colonna sonora che io trovo meravigliosa. Molti i pezzi indimenticabili. Qui sotto vi attacco uno dei miei preferiti. In sintesi, serie consigliata a chi non pensa che la nostra storia sia una cosa seria e un feticcio intoccabile e che ama l’avventura pura e semplice.

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Misfits 3×01

Sarò onesta: ho sempre considerato Nathan uno degli elementi portanti di Misfits. Non l’unico, ovviamente, ma uno dei punti di forza della serie, assieme alla fantastica fotografia, all’ottima sceneggiatura, ai guizzi di regia, insomma a tutte quelle cosette che mi hanno fatto amare Misfits per due stagioni. Quando ho saputo che Sheehan avrebbe lasciato, sì, lo ammetto, mi sono stracciata le vesti. Questo per dirvi che il mio grado di prevenzione nei confronti della terza stagione di Misfits era alto. E probabilmente è colpa di questo atteggiamento di fondo se questa prima puntata mi ha lasciata un po’ così. Eppure non è tanto l’assenza di Nathan a pesare. È che l’alchimia delle passate stagioni non funziona. L’impressione è che si sia rotto qualcosa.
Innanzitutto, Misfits in genere ha delle puntate granitiche, monoblocco: la struttura è semplice, lineare, compatta. Certo, c’è la trama orizzontale, ma in linea di massima tutto ruota intorno al cattivo di puntata, o ad uno snodo di trama che porta avanti la trama di stagione. Stavolta, fino a metà puntata sono stata lì a chiedermi la storia dove l’avessero lasciata. C’è la cattiva di puntata, che però è francamente risibile. In passato avevamo avuto cattivi memorabili, tipo il lattofilo o la tipa casa e chiesa del finale della prima stagione, oppure scarsi a livello di personaggio ma con poteri fighi, tipo il tizio che credeva di vivere in Grand Theft Auto. Stavolta la biondina con la frangetta storta non attira, e comunque non è il fulcro della puntata. Che oscilla invece pericolosamente tra vari registri: da un lato, dobbiamo capire che fine hanno fatto i Nostri, e come se la cavano coi nuovi poteri, dall’altra dobbiamo metterci il cattivo, infine dobbiamo presentare il famigerato nuovo personaggio, Rudy. Il risultato generale è che nessuno dei tre filoni di trama viene trattato con un minimo di tensione narrativa. Lo spettatore rimane spiazzato di fronte a eventi che si accumulano per inerzia e sembrano non voler coagulare attorno ad alcun punto focale.
Ma veniamo a Rudy, che tanto lo sappiamo che quello era il nostro maggior timore. Innanzitutto, non capisco questa fretta di farcelo conoscere così, di botto, in una sola puntata. Nella prima stagione si erano presi il loro tempo per presentarci i personaggi, li avevamo scoperti man mano. Per dire, solo a fine prima stagione comprendevamo quale fosse il potere di Nathan. Invece di Rudy non solo conosciamo il potere (e vabbeh), ma anche i suoi trascorsi con Alisha, che volendo potevano tenere in piedi molti episodi, si risolvono in quattro e quattr’otto, in modo sciatto e sbrigativo. Già è abbastanza implausibile che un teppista da servizi sociali ci resti così male perché la tipa con cui perde la verginità – tra l’altro notoriamente donna di facili costumi – lo molli dopo l’iniziazione sessuale (ma magari questa ce la spiegheranno, magari all’epoca Rudy era un ingenuo verginello), francamente ridicola è la vergogna che Alisha prova davanti alle accuse di Rudy. Voglio dire, due anni fa Alisha si fece conoscere dai suoi compagni con una fellatio simulata su una bottiglietta di plastica, Simon ha ben presente cosa faceva la sua donna prima di mettersi con lui, non è mica un mistero né una sorpresa che la chiamassero “cock monster”. Il risultato, è che anche il pezzo in cui Alisha chiede scusa a Rudy per quanto gli ha fatto risulta artefatto, vagamente moralistico e comunque fuori luogo. Ma vabbeh. Rudy, invece? Che ce ne pare di Rudy?
Rudy al momento parla come Nathan senza esserlo. È un personaggio diverso, ma fa le stesse cose, dice le stesse cose, nell’economia complessiva della narrazione svolge lo stesso ruolo. Una cosa che avrei preferito non vedere. Senza contare il fatto che al momento ai miei occhi non ha alcun elemento di interesse, anzi lo trovo vagamente fastidioso. È che è gratuitamente volgare. Ok, Misfits è sempre stato volgare, ma era una volgarità in contesto, e l’uso della parolaccia, del doppio senso, trovava più o meno sempre la sua ragione d’essere. E poi, ahò, faceva ridere. Rudy e la sua “fissazione”, chiamiamola così, non fanno ridere. Non lo so perché. Sembra coprolalia fine a se stessa, ed è una cosa che ho smesso più o meno venti anni fa. In tutta la puntata si salveranno due o tre battute, di cui una in effetti di Rudy, ma mi pare un po’ pochino.
Per il resto, si intravede un accenno di trama orizzontale, ossia il venditore di poteri che vuole resuscitare la moglie/ragazza/sorella/diosacosa, ma al momento la cosa lascia un po’ così. Sì, Kelly col suo potere assurdo fa ridere, sì Simon e Alisha sono tanto carini, sì Curtis…Curtis boh, è un po’ inutile come sempre, ma se questo deve essere un assaggio di quel che seguirà io non mi sento molto invogliata a prendere un altra cucchiaiata. Ma parla la donna che s’è vista tutta Terra Nova e tutta Falling Sky, e questa puntata di Misfits dà comunque quaranta piste ad entrambe, per cui credo che proseguirò nella visione. Con le dota incrociate, però.

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Spartacus: sangue, sesso e morte

Mi rendo conto che è fatto la figura della peracottara – come si dice a Roma – nel promettervi consigli per gli acquisti che poi non vi ho dato, ma adesso che sono in vacanza ho meno tempo libero di prima. Tra questa insana passione per la pasticceria – per inciso, visto che si parla in giro di questa roba qui, io non faccio e decoro dolci perché mi sento dentro chissà quale vocazione a far la donna di casa, ma perché è un modo come un altro per esprimere la mia creatività, al pari dei libri, dei disegni, delle foto, e delle ottanta altre cose che faccio in vita mia – Irene, marito e Ragazza Drago 5 sono sempre a far qualcosa. Solo adesso, forse, ho trovato un momento per parlarvi del mio secondo consiglio per gli acquisti.
Con colpevolissimo ritardo di due anni – e dopo aver superato l’angoscia nel vedere una cosa in cui recita un attore morto da poco – ho scoperto Spartacus Blood and Sand.
Ora. Indubbiamente non è una cosa per tutti i palati, sicuramente richiede da parte dello spettatore un abbandono di cui non tutti sono capaci, ma una volta entrati nello spirito, dentro c’è veramente tutto quello che uno può volere.
La storia è quella, arcinota, di Spartaco, il gladiatore trace che fece vedere i sorci verdi alla Roma repubblicana, protagonista di una ribellione di schiavi che fu una cosa piuttosto grossa. La prima serie si concentra sulle origini: la cattura di Spartaco, la sua condanna a morte, la sua folgorante carriera da gladiatore e infine la decisione di ribellarsi.
Innanzitutto, Spartacus è un prodotto nel quale l’estetica è parte del godimento complessivo, ed è un elemento dello sviluppo al pari della sceneggiatura. Quest’estetica ha un debito fortissimo nei confronti di 300: esaltazione dei corpi nudi, principalmente maschili – e quando nudi intendo proprio nudi, ci sono un bel po’ di volatili in bella vista :P – ritratti principalmente nel gesto atletico, molto spesso in ralenty, fotografia curatissima, sangue a tonnellate e iperviolenza. La cosa interessante è che però il tutto è al completo servizio della storia. La fotografia laccata, l’ossessione per i corpi ha una sua gustificazione nell’economia della narrazione, e rimanda direttamente al tipo di società che Spartacus mette in scena: una società in cui l’apparenza e i soldi sono tutto. La Roma di Spartacus è un posto in cui tutto è immanente, gli dei sono un mero pretesto e tutto si riduce al qui ed ora, un presente che deve essere consumato in fretta e con voracità. Non conta chi realmente si sia, ma quanto si vale: ogni persona ha un prezzo, e per raggiungere i proprio scopi non c’è nulla di illecito. Un affresco che ho trovato interessante, vividissimo, e tutto sommato anche piuttosto attuale.
Di contro, c’è Spartacus, che fin dall’inizio si oppone a questa visione. Per lui ogni persona ha un valore in sé, che prescinde dal mero valore monetario, ogni esistenza è preziosa e la vita non si riduce ad una estenuante ricerca del piacere del momento, bensì si deve spendere per qualcosa di più grande. La sua ribellione dunque non è più solo mera vendetta: è la sua visione della vita che si scontra con quella dei romani.
Ottimi sceneggiatura, regia e soggetto. La regia lascia il segno, piena com’è di scelte originali e azzeccate (una su tutte: i primi piani insistiti, mentre dietro l’azione si sposta di luogo e tempo, dando l’idea del tempo che passa). I dialoghi sono curati e spesso assai belli, il ritmo viene sempre gestito in modo egregio, frenando quando necessario, accelerando quando si deve accelerare, e praticamente senza momenti di noia. I personaggi sono a tutto tondo, proprio perché calati in un contesto che alla fin fine ha tantissimo del fumetto: i combattimenti sono sempre esagerati, con elementi spesso direttamente gore, sangue e profusione e morti come se piovesse. Eppure i personaggi sono veri, intensi, si soffre e si gioisce con loro, anche per quelli più ignobili. E di ignobili ce ne sono a palate.
Su tutti, svetta il viscidissimo Battiatus, perfettamente accoppiato con la perfida moglie Lucrezia. Impossibile non tifare per la loro spudorata scalata al potere. Spartacus porta ad un nuovo livello la trama di intrigo: le congiure ordite da Battiatus sono quanto di più machiavellico visto sullo schermo, la sua capacità di cadere – quasi – sempre in piedi, di volgere a proprio favore anche le sciagure, di non fermarsi davvero davanti a niente ne fanno un personaggio indimenticabile.
Le note negative? Innanzitutto la gratuità di un buon 40% dei nudi. Sembra ci sia tipo un tetto minimo di ette e culi da far vedere a puntata, e gli autori se ne inventano di ogni per mostrare seni e piselli al vento. Va bene, la società dissoluta, i costumi liberi e quel che ti pare, ma certe volte è veramente troppo. Tipo quando Licinia deve scegliere un maschera da indossare per il suo incontro clandestino con un gladiatore, e non trova di meglio che farne provare un tot a tipo dieci schiave nude. Perché? Era necessario? Anche no. Ora, non è che mi scandalizzi per un paio di nudi, ma la pretestuosità di alcuni di essi è semplicemente irritante, così com’è irritante qualsiasi elemento di trama che sia messo lì non per effettiva necessità, ma solo per stimolare i bassi istinti dello spettatore.
Infine, ci sono alcuni snodi di trama gestiti non proprio al meglio: tutto sommato, la carriera di gladiatore di Spartaco resta un po’ ingiustificata, soprattutto dopo uno snodo di trama sul quale non mi dilungo perché è spoiler. Ma nel complesso tutto funziona come un meccanismo perfettamente oliato, tra ottimi interpreti e una trama outrée.
Resta una grande incognita per il futuro: può Spartacus sopravvivere senza Andy Whitfield e senza Battiatus (e questo qui non è un gran spoiler, ve lo dico)? Whitfield era veramente perfetto. L’attore che è stato chiamato a sostituirlo sembra non avere una caratteristica che invece mi piaceva molto nello Spartacus di Whitfield: era sì un cristone muscoloso e pompato, ma anche fisicamente spiccava sugli altri gladiatori e su Crixos in particolare: bastava guardarlo, e capivi a volo che non era solo uno che mena. McInthyre invece sembra Ken il Guerriero. Per il resto, la seconda stagione – non conto il prequel Gods of Arena – deve rifondare il prodotto dalle basi: ormai il patatrac è successo, la componente di intrigo andrà a farsi benedire, e anche l’arena per forza di cose sarà meno presente. Funzionerò tutto lo stesso? Non lo so, spero di sì, perché la prima stagione, devo confessarlo, mi ha davvero esaltata. Un bel prodotto divertente, ben fatto, appassionante. Ce ne fossero di più…

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Sponsorizzato dal Family Day

Mi riferisco a Falling Skies e Terranova, il primo appena finito, il secondo appena iniziato. Ebbene, i punti di contatto sono molti, a partire da Spielberg che produce entrambi, ma il più evidente è che la famiglia è al centro di tutto. È un male in assoluto? No, certo. Anche Borgia parla di famiglia, ma lì siamo proprio su un altro pianeta. La cosa è un male se si decide di parlarne nel modo più becero possibile. Anyway, passiamo alle mie opinioni su questi due telefilm.

Falling Skies
Avete presente la vecchia pubblicità dello Jägermeister, quella di Degan prima che si desse ai conigli spellati spacciati per feti alieni? Era celebre per la frase “Bevo Jägermeister perché…perché…non so perché”. Ecco, io non so perché ho visto fino in fondo la prima stagione di questo telefilm. Avevo subodorato la moscezza complessiva del tutto fin dal primo episodio, ma ho insistito per tutte e dieci le puntate. Comunque, è un dato di fatto, l’ho visto tutto. Evidentemente, al di là di ogni altra considerazione, si fa vedere.
Comunque. Falling Skies non è brutto. A parte il fatto che, come al solito, i personaggi agiscono in modi assurdi quando si tratta di mantenere quel minimo sindacale di suspance sulla trama (avete due ragazzini che sono stati con gli Skitter un sacco di tempo e non gli fate manco una domanda al riguardo, neppure quando vi offrono la possibilità su un piatto d’argento, tipo quando Rick accenna al fatto che gli Skitter hanno un piano) non si può dire che sia scritta veramente male, e gli effetti speciali non sono male. Ok, la storia è vista e rivista, ma questo non è necessariamente un problema. No, il fatto è che Falling Skies ha il terrore di osare. Vuole, fortissimamente vuole essere un prodotto medio, senza una sorpresa che sia una, senza uno slancio. È un treno lanciato su un paio di binari dritti e senza attrito: procede in linea retta inanellando una quantità di stereotipi da far spavento. C’è veramente tutto, pare un film di Emmerich senza le catastrofi. C’è il padre costretto a far l’eroe, che fa sempre la cosa giusta, il figlio adolescente scapestrato, il bambino traumatizzato, il militare stronzo, il medico saggio, quella che si affida alla fede, pure la donna incinta. E non c’è alcuno sforzo di indagare dietro lo stereotipo. No, ognuno fa quel che deve, ognuno aderisce graniticamente all’etichetta che ha scritta in fronte. Se sono il buon padre, non farò mai una cazzata. Se sono il guascone un po’ stronzo e un po’ simpatico non scantonerò mai nella bastardaggine pura. Va da sé che di fronte a personaggi del genere il coinvolgimento dello spettatore è meno di zero. L’unico istinto che ho provato durante la visione era il desiderio viscerale che Lourdes, con la sua fede plastificata da predicozzo à la Settimo Cielo, morisse malissimo. Spoiler: non lo fa. Per il resto, non sono mai stata coinvolta nelle vicende dei nostri. Va aggiunto che nonostante l’ambientazione postapocalittica la tensione narrativa è zero. Non c’è angoscia, non c’è sensazione di pericolo. Le scene di azione sono noiose e tirate oltre il limite di sopportazione, le interazioni tra i personaggi assolutamente banali. E poi ci sono buoni sentimenti a pacchi. Ripeto, nessuno di questi elementi preso da solo sarebbe un problema: è l’averli messi tutti assieme e averli cuciti con una regia incolore, una scrittura scontata e una serie di interpretazioni appena passabili a rendere il tutto indigesto. Già La Guerra dei Mondi aveva sviscerato (male) il tema “padre con figli in mezzo alla fine del mondo”, e davvero non si sentiva il bisogno dell’ennesimo compitino sull’esaltazione della genitorialità. A breve scriverò un lungo post incazzato su questa santificazione della maternità (o demonizzazione dell’esperienza, a seconda dei contesti) che gira di questi tempi peggio dell’influenza. Comunque, sforzandosi con l’ernia, su 12 puntate gli sceneggiatori sono riusciti a partorire due (2) idee, una delle quali in finale di stagione, tanto per metterci un cliffhanger che tiri la visione della seconda. Io me la vedrò? Mah, tutto sommato penso di no.

Terranova
Terranova parte abbastanza bene, con un dispiego di mezzi che mi fa temere che il resto sarà fatto con due lire. Il mondo prossimo al collasso ha il suo perché, i dialoghi sono quel filo più credibile di Falling Skies. Poi, vabbeh, presto cominciano le dolenti note. Che sono le stesse di Falling Skies. Ancora la famiglia, e che palle. Padre, madre e due virgola cinque figli, per citare il John dei Simpson. All’inizio ho sperato che almeno il padre ce lo giocassimo. Purtroppo no, ed è uno dei personaggi più irritanti del mazzo. Lo schema è sempre il solito: padre eroico, adolescente problematico con daddy issues (mannaggia a Lost che ha spinto il format ai suoi estremi…), Lisa Simpson, bambina. In più c’è la madre, che in Falling Skies mancava. Ora, rimanendo alle prime tre puntate, nel complesso mi sembra che la scrittura sia migliore di quella di Falling Skies, e il contesto in generale più interessante, anche se non inedito. Soliti problemi di trama (ragazzini che escono fuori dal perimetro per bere senza sapere una cavolo di dinosauri e in generale di come sopravvivere fuori? E non sono mai morti? Ferormoni sintetizzati con le mani, suppongo, vista l’assenza di fabbriche acconce all’uopo?), ma la storia dei geroglifici attira, così come i velati riferimenti fatti ad essi dai vari personaggi. Ma proprio come Falling Skies, anche questo prodotto sembra pervicacemente essere “medio”: un po’ di sangue, ma non troppo, un po’ d’azione, ma non troppa, e che nessuno si azzardi a toccare il sacro stereotipo della famiglia, mi raccomando. E poi stavolta le interpretazioni degli attori a volte chiedono vendetta al cospetto di dio e degli uomini: il padre ha una faccia basita che neppure in Boris…Vedrò la quarta puntata, poi valuterò se vale la pena proseguire.

Bonus Track
I Borgia

Dei Borgia di Tom Fontana posso dire solo tutto il bene possibile. È una serie ottima sotto molteplici punti di vista, e soprattutto riesce nel miracolo: appassionare con la storia degli intrighi di una famiglia rinascimentale. Finora una delle puntate più tese e appassionanti è stata quella sul Conclave. Sì, avete capito. Una puntata su una trentina di cardinali riunita in un posto chiuso per scegliere il papa. Sulla carta, la storia più barbosa della narrativa di tutti i tempi. Sullo schermo, un capolavoro di tensione narrativa.
Anche I Borgia parla di famiglia, e anche I Borgia ha i suoi stereotipi: la rivalità tra fratelli, il padre che ne preferisce uno all’altro, per dirne due. Ma il livello di profondità col quale le psicologie dei personaggi vengono indagate riempiono di nuovo senso figure tutto sommato note, archetipiche.
I Borgia mi fa appassionare alla storia, I Borgia mette in scena una galleria di personaggi indimenticabili, anche quando appaiono solo per breve tempo (Carlo VIII, ad esempio), I Borgia dimostra che se sei bravo, se hai mestiere puoi rendere appassionante qualsiasi storia, anche una intricata, complessa e sulla carta così poco catchy come quella de I Borgia. Perché la serie non cede al lato più ovvio della vicenda: Lucrezia non se la fa col padre o col fratello, ad esempio, visto che la storiografia ha accertato che la maggior parte delle voci che girano al riguardo furono messe in circolo dal suo primo marito. Eppure l’incesto fa audience.
Insomma, io ne sono entusiasta, e prego per una seconda stagione. Se è in programma una seconda stagione di Falling Skies, allora se devono fare almeno altre dieci de I Borgia.

Postille al post di lunedì
Non so, forse si leggeva tra le righe, forse no, ma manca un pezzo al fiume di parole che vi ho riversato addosso su tutta questa storia della Nonciclopedia. E ossia che un limite a quanto si può dire, online o nella vita vera, esiste, ed è stabilito per legge. Esistono l’apologia di reato, l’istigazione all’odio razziale, l’apologia del fascismo e via così. E questi sono i limiti invalicabili per chiunque faccia parte della società alla quale apparteniamo. Ma quel che penso è che se è giusto condannare Tizio quando esprime posizioni, che so, omofobe (anche se la legge non lo prevede, e questa purtroppo è un’altra, lunga e brutta storia…), non si può prendere la sua omofobia a pretesto per attaccarlo quando, che so, parla di filologia romanza. E poi…e poi basta. La cosa positiva del tutto è che ho imparato delle cose, la cosa negativa è che ho (ri)scoperto un sacco di cose brutte sul mio modo d’essere.

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Visioni estive

Sono orfana di serie tv. Finito Lost, in attesa tremebonda di un Misfits che chissà come sarà senza Nathan, sono alla ricerca di qualcosa con cui riempire queste serate di pausa che mi sto prendendo tra un libro e l’altro. Sì, perché ho finito la prima stesura del primo tomo de I Regni di Nashira, e lo sto facendo decantare un po’ in attesa dell’editing, e prima di pensare al quinto de La Ragazza Drago voglio riposarmi un pochino. Ho scritto un sacco, davvero, e forsennatamente. Ho bisogno di un po’ di pausa. Comunque, come al solito sto divagando.
I palinsesti estivi, si sa, non sono il massimo se hai voglia di vedere qualcosa di interessante. Ma per fortuna c’è Sky, che in vacanza ci va sempre a mezzo servizio, per cui qualcosa di interessante c’è sempre. In particolare, ho beccato due cose: Falling Skies e Borgia.
Dunque, Falling Skies. Il trailer prometteva bene, e l’attacco, con l’invasione aliena raccontata attraverso i disegni e i racconti dei bambini, era da applauso. Peccato che poi tutto appassisca abbastanza rapidamente. L’invasione aliena è un tema stra-abusato, se ne vuoi parlare devi inventarti qualcosa di nuovo, o essere un grandissimo narratore. Di nuovo in Falling Skies non c’è niente, e quanto a narrazione il ritmo in molti pezzi latita. I personaggi al momento sono più che altro etichette, per altro viste già in miliardi di altre produzioni simili: il padre saggio e coraggioso infilato in una situazione estrema, il bambino traumatizzato, l’adolescente inquieto, il militare stronzo. Al solito: va bene giocare con gli stereotipi, ma presentarceli invece così, senza un minimo di rielaborazione, fa solo sbadigliare. C’è qualcosa che si salva? Mah, nel complesso la serie si fa vedere, per quella piacevole sensazione di intrattenimento senza impegno. Tutto è abbastanza innocuo, e comunque i mondi post-apocalittici hanno sempre il loro perché. Ma per chi si è visto roba come Battlestar Galactica, o anche solo un Ken il Guerriero, siamo proprio su un altro pianeta, e per psicologia dei personaggi, e per efficacia della messa in scena.
Veniamo a Borgia. Allora, non è la serie americana con Jeremy Irons, ma un’altra europea uscita lo stesso anno. Quella che ho visto io è l’anteprima dei primi due episodi: gli altri andranno in onda a novembre.
Piccola parentesi: i Borgia sono una famiglia italiana. Come efficacemente detto altrove, nella loro storia non manca proprio niente: incesti, omicidi, papi con duemila amanti e ottocento figli, tutti gli ingredienti che fanno tanto feuilleton, insomma. Ecco, perché a nessun italiano è venuto in mente di fare una bella fiction sui Borgia? Ci hanno dovuto pensare i francesi, mentre noi continuiamo con le agiografie dei santi e dei poliziotti. Come lo sapete io ho i miei cult nella fiction italiana, ma resta il fatto che comunque papi, santi e forze dell’ordine se la regnano nella fiction. Vabbeh. Veniamo al merito della serie. Devo dire che m’è piaciuta. Due ore di ottimo intrattenimento. Si comincia maluccio, a dire il vero: a causa della caterva di personaggi che devono venire introdotti, per altro legati tutti da parentele multiple e dispersi in giro per mezza Italia, l’inizio è piuttosto confuso. Scene brevissime, si salta di continuo da Pisa a Roma, da una location all’altra, in una girandola che rischia di fare venire il capogiro allo spettatore. Rapidamente le cose però si assestano, e ci si appassiona quasi subito alle vicende dei bastardissimi Borgia, perennemente impegnati in due principali attività: fornicare possibilmente con minorenni o donne sposate e brigare per avere il potere assoluto. Bella la fotografia, belli i costumi, belle anche le ricostruzioni della Roma rinascimentale, che, per chi ci vive come me, sono un piacere per gli occhi. Ok, hanno l’aspetto di quadri ad olio, ma mi è sembrata un’ottima trovata per mascherare una CG non proprio sublime, mentre un po’ più grave è che di tanto in tanto i personaggi sembrino appiccicati su sfondi dipinti, ma è un’impressione che si ha giusto un paio di volte in tutto. Per il resto, nonostante gli intrighi tessuti dal futuro Alessandro VI siano abbastanza complessi, la narrazione è solida, e lo spettatore capisce tutto. I personaggi sono molto interessanti, e ben narrati nelle loro contraddizioni. Mi aspetto molto da Cesare Borgia, che pare un bel personaggio, di quelli tormentati e combattuti tra opposte inclinazioni. Poi, vabbeh, c’è un certo qual gusto per lo shock che lascia un po’ perplessi (il pappa che ciuccia dalla tetta, il sangue a ettolitri), ma tutto sommato è una porzione minoritaria del prodotto, e comunque rende bene il periodo storico, che – sebbene si fosse alle soglie del Rinascimento – era bello truce forte. Insomma, io mi sono divertita, e mi scoccia alquanto dover aspettare novembre per vedere il seguito.

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Due cose che mi sono piaciute

Scopro subito le carte. Ho iniziato a vedere Squadra Antimafia 3 perché Sandrone ne è l’editor. E quando ho visto la prima puntata, era roba come tre o quattro anni che non vedevo fiction italiana. Avevo persino abbandonato Montalbano, un po’ perché i libri mi piacciono sempre meno, un po’ perché…no, non lo so. Forse m’ero solo stufata.
Alla prima puntata, mi sono subito esaltata per Rosy Abate. Tutta la storia di come ritorna in Italia m’aveva veramente galvanizzata: voglio dire, troppo figa. Alla seconda puntata ho apprezzato i riferimenti precisi e puntuali alla realtà: innanzitutto il tema dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici, che come sapete mi è molto caro, poi l’accenno l’eutanasia. Alla terza, ci stavo già dentro.
Lo posso dire? Lo dico. Mi sono veramente appassionata. Perché è un prodotto fatto veramente bene: ha tutto quel che deve avere una buona serie televisiva, la trama appassionante, l’azione, i bei personaggi, e, ripeto, la guardi e impari anche qualcosa. Cosa vuoi di più? Ah, e poi è una storia di donne, e che donne. A tirare le fila di tutto son sempre loro: LA mafiosa, LA poliziotta, persino il politico corrotto, con tanto di toy boy, è una donna.
Ho atteso l’ultima puntata con trepidazione: stirerà mica le zampe l’Abate? E De Silva? Si salva? E l’enigmatico deputato? Mi ammazzerete mica Leo, che se lo fate, giuro, vi picchio? Io in genere le puntate le guardo in differita: la sera scrivo, per cui me la registro, e me la vedo in pillole le sere successive. Non avete idea dei giramenti quando mi sono accorta che la registrazione mi aveva saltato gli ultimi 60 secondi. Ok, era evidentemente l’epilogo della narrazione, e dunque gli snodi principali di trama erano stati risolti, ma ugualmente io volevo quei dannati, ultimi 60 secondi. E in effetti poi li ho ottenuti, e che cavolo.
Mi spiace in effetti parlarne solo ora, a serie finita, ma ha visto in giro i dvd delle prime due stagioni, che sto pensando di recuperare, e suppongo quindi usciranno più in là anche quelli di questa terza. Io vi consiglio di recuperarli, perché merita. Io intanto aspetto la quarta :P

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Lo devo confessare: non è una buona annata libraria. Non so se sono io che sono diventata più esigente, più scassapalle o cosa, ma quest’anno ho incrociato sulla mia strada parecchi libri che non mi sono piaciuti più di tanto. In genere, su una media di quaranta libri l’anno, quelli che davvero mi deludono saranno un 10%. Ecco, quest’anno su 19 saranno almeno 10 o giù di lì. Stavo quasi pensando di buttarmi sul sicuro, che poi sarebbe I Promessi Sposi – lo so che al 99% degli italiani fa schifo, ma a me piace molto – quando ho preso in mano Un Calcio in Bocca Fa Miracoli, che, come saprete, mi sono procacciata in quel di Torino. Anche qui, ho iniziato a leggere perché Il Ruggito del Coniglio a me è sempre piaciuto un sacco. Ma, vista la sfiga con le letture che sta segnando questo 2011, ero un po’ titubante.
Mi è bastato l’attacco.

Sono un vecchiaccio.
Dovrei dire che sono una persona anziana, come mi hanno insegnato i miei genitori per i quali chiunque, anche un infanticida antropofago, arrivato a una certa età meritava rispetto.
La verità, però, è che sono un vecchiaccio.

Che gli vuoi dire? Non ti puoi che innamorare subito. E infatti.
Non è solo un libro di piacevolissima lettura, divertente e ben scritto. È un libro che ti lascia addosso qualcosa, quella dolce malinconia che in genere segna il passaggio all’età della ragione, quando capisci che non sei immortale, e ad un certo punto la giostra smetterà di girare.
Pur scegliendo un registro tutto sommato leggero, punteggiato di commenti caustici e battute, il libro dice – e bene – cose molto più profonde di tanti altri tomi che si prendono infinitamente più sul serio, e poi sbagliando bersaglio di un chilometro.
E poi per una volta c’è un quadro onesto della vecchiaia: né negazione del tempo che passa, né triste crogiolarsi nel vittimismo da nonno badante munito. Solo tanta, mesta consapevolezza che il meglio è alle spalle, ma che questo non significa affatto che non si possa continuare a dir no, e a essere se stessi fino alla fine.
Io l’ho trovato veramente delizioso. Me lo sono centellinato, questo libro, e adesso che l’ho chiuso, come sempre coi libri che ho amato, lo spingo verso altri lidi, perché le belle cose diventano ancora più belle quando le si condivide in tanti. Per cui, nulla, vi consiglio anche questo. E se non vi fidate di me, buttate un occhio di persona.

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Un eroe contemporaneo

E qui occorrerebbe aprire con questa. Solo che non è che ci azzecchi poi tantissimo col resto, ma ugualmente non potevo esimermi, dato il titolo.
Con colpevole ritardo, ho scoperto Boris. Le prime puntate le vidi su Cielo, ed erano praticamente tutte della seconda stagione. Incuriosita mi presi il cofanetto della prima, me la vidi da sola, e adesso me la son rivista con Giuliano. Inutile dire che ci siamo appassionati al volo. Non ci addormentiamo se non ci spariamo almeno due puntate a sera. È che quel set è una metafora così dannatamente efficace di come vanno le cose in questo paese che uno non può non solidarizzare. Con tutti, per altro, vittime di un meccanismo inesorabile che spinge verso il basso, livellando ogni guizzo di creatività, ammazzando sul nascere ogni ambizione. Ma quello che ci ha fatto davvero innamorare è stato Renè Ferretti. C’è qualcosa di tragico e di grande, in Renè. Perché Renè non è uno che non è capace di far di meglio, non è che Gli Occhi del Cuore 2 sia il massimo che sa fare. La tragedia sta proprio qui: lui è uno bravo, ha fatto cose, continua a farle, a volte, come il famigerato cortometraggio sulla formica. Ha vinto persino premi. Ed è approdato infine a quell’inferno i terra di produttori maneggioni, direttori di rete fantozziani e attori cani. E la passione e la bravura ogni tanto emergono, nella sua capacità di far fronte all’ennesima richiesta assurda di Corinna, all’ennesimo delirio di Stanis, al pugno con cui dirige una cosa che gli fa oggettivamente schifo, piegandosi a tutti i limiti di una professione infame. È uno che le cose brutte le fa di proposito. Perché è quello che gli chiedono, perché i mezzi sono quelli, perché il sistema è così, e non ci puoi fare niente.
Ok, la facilità con cui si piega al compromesso ricorda fin troppo bene quella caratteristica tutta italiana di dire “le cose sono così, non posso fare altro che adeguarmi”. Non glielo ha imposto il medico, di girare Gli Occhi del Cuore. O forse no? Il mutuo da pagare ce l’hanno tutti…Ma la sua tragicità sta proprio nel fatto che nonostante tutto è uno bravo, e lo resterà. E per questo è una specie di eroe. Perché tutte le bastonate del mondo non gli tolgono il talento, che di tanto in tanto sfoga in solitaria. Perché in fin dei conti resta un puro. Fa uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare, no?
A volte mi sono messa lì a pensare chi sia il “cattivo” nella serie. Perché tutti sono fin troppo consapevoli di star girando monnezza. Duccio la farebbe pure una fotografia migliore, servisse a qualcosa, Lopez passerebbe pure alla fiction di qualità, se la rete decidesse che venderebbe. Sono tutti incastrati in un meccanismo perverso che li costringe a dare il peggio. Ma quando si va a cercare chi quel meccanismo l’ha creato, non si trova. I vertici di rete? Il pubblico che si beve le peggio schifezze? Non si sa. Semplicemente è così, da sempre. E la tragedia è questa.
Non so, a me pare che la metafora sia fin troppo scoperta. Sono anni che chiniamo il capo e facciamo il meno che possiamo convinti che sia così vuole la maggioranza. Non andiamo a votare, che tanto il nostro voto è inutile a fronte di quello degli altri. Ci facciamo raccomandare per non dover aspettare tre mesi per una TAC, perché tanto è così che funziona. Ci rassegniamo ad una televisione inguardabile perché siamo convinti che così piaccia alla maggioranza. Ma chi sono questi altri? Chi è che ha cominciato? Chi è stato il primo che ha imposto il peggio come norma? Ma sarà mica che siamo topi che non solo si sono costruiti la trappola da soli, ma continuano a tenerla ben oliata e funzionante?
Io non lo so se il mondo della fiction è come Boris. L’Italia di sicuro lo è.

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Commentiamo il telefilm del giorno: Misfits 02×06

Ok, mi rendo conto che inizio ad essere stucchevole. Due post in due giorni sui telefilm sono troppi. Però non posso farci niente. Per il resto la mia vita è avvitata su lavoro astronomico e lavoro letterario; i dettagli del primo non penso possano interessarvi (il grafico che presenta un’anomalia, il talk da preparare…) e sul secondo sono io che non me la sento di dirvi niente, perché sono in fase di stesura del mio nuovo libro, ambientato in un mondo nuovo di zecca, e voglio mantenere un po’ di suspence. Restano libri e telefilm, ogni tanto un po’ di musica.
Per la verità, non voglio fare un vero commento della sesta puntata della seconda stagione di Misfits. È straordinaria, come le undici che l’hanno preceduta. Ormai adoro Nathan, vorrei un Simon di pelouche da coccolare la sera, mi capita di identificarmi nelle insicurezze di Kelly e vorrei tanto abbracciare e consolare Alisha. No, quel che mi ha colpita sono state alcune scelte narrative. Il diavolo di nasconde nei particolari, ma pure la cura degli stessi fa la differenza tra chi le storie le sa raccontare e chi no.
Per questo, vorrei parlarvi dei primi minuti della puntata. Si possono descrivere l’essenza di un personaggio, la sua storia, le sue ossessioni e il suo destino in tre minuti scarsi muti? Se sei un autore di Misfits, sì. Allego prova video.

Io una cosa così la chiamo in un modo solo: perfezione. Del montaggio, innanzitutto. L’alternarsi delle ripetitive, ossessive scene della colazione, inframmezzate a quelle del lavoro di questo oscuro ragazzino inglese: ci parlano di una vita alienante, tutta tessuta intorno alla ripetizione ossessiva di gesti ormai senza senso. Trenta secondi per dirci chi è il Nostro, e cosa pensa. Poi, stacco su di lei. Il sogno di un riscatto, dell’interruzione del ciclo eterno di una vita senza senso. E qui interviene la musica. Che cambia di colpo, raccontandoci i palpiti del nostro Milk Guy. Poi, stacco sull’evento cardine: la tempesta. E di nuovo la musica, in un crescendo grottesco. E interviene la recitazione. Lo sguardo del nostro protagonista nel momento in cui capisce qual è il suo potere ci dice tutto: sono modifiche minime dell’espressione, un sorriso accennato, una luce nuova negli occhi. E lo spettatore capisce tutto: che il Milk Guy ha smesso con le sue colazioni desolate e solitarie, che non ci saranno più latte e cereali, e che ha chiuso anche col suo lavoro del cazzo, e che la tipa che prima lo ignorava, beh, adesso forse ci sta.
Questi tre minuti, dai quali sento di avere da imparare una caterva gigantesca di cose, dicono tutto di Misfits, un prodotto girato con quattro attori in tre location, costato presumibilmente due lire e mezzo, ma così denso e pieno di idee da far paura. Misfits fa spavento per il grado estremo di consapevolezza, per la padronanza assoluta del mezzo, e per il rifiuto categorico di cedere al compromesso. Per questo piace. Perché osa.
Potrei poi dilungarmi sulle battute di Nathan – che tra l’altro fa la sua porca figura in smoking – oppure sull’immagine geniale di Super Madre Teresa che muore impalata sul premio che le hanno dato per la sua bontà, ma non aggiungerebbe nulla al tutto.
Io vorrei, vorrei davvero essere così brava a raccontare storie. Temo purtroppo non lo sarò mai.

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Finali

Comincio a credere di avere un problema coi finali delle serie. Fino ad oggi, ho portato a termine la visione solo di tre serie televisive: Lost, Dawson’s Creek e Battlestar Galactica. Ebbene sì, con un ritardo di due anni ieri ho visto il finale di Battlestar Galactica. Dall’incipit, avrete capito che non mi ha entusiasmata, esattamente come non mi hanno entusiasmata né il finale di Dawson’s Creek, né, come ben sapete, quello di Lost. Forse mi aspetto troppo dai finali di stagione, non lo so, ma finora l’unico finale che ho apprezzato è stato quello dell’ottava stagione di Scrubs, che non è il finale della serie, visto che ne hanno prodotta una nona.
Anyway. Ho fatto l’una ieri per capire quale fosse il piano dei Cyloni, ed è da quando mi sono svegliata che ci penso. So che alcuni di voi hanno seguito la serie, e mi piacerebbe discuterne un po’. Astenersi chiunque non abbia visto tutte le quattro stagioni, perché ci sono spoiler. Per questi ultimi, è una serie che vi consiglio molto: è tutto sommato breve, intensa, ottimamente scritta e girata, recitata da dio e con una colonna sonora da urlo. Vale la pena, insomma.
Torniamo però al finale. Suppongo che tutti quelli che stiano leggendo queste righe abbia visto tutta la serie. Dunque, a differenza del finale di Lost, quello di Battlestar quanto meno è molto coerente con tutto lo sviluppo della serie. Si parla di Dio dalla puntata uno, Caprica Sei non fa altro che dirci che è tutto un piano di Dio, quindi la sterzata religiosa finale è perfettamente coerente col tutto. In fin dei conti, delle infinite tematiche trattate in quattro stagioni, due sono le preminenti: la contrapposizione tra il credo politeistico umano e quello monoteistico Cylone e il rapporto uomo/dio. In fin dei conti, anche la ribellione di Cavil è esattamente quella della creatura di fronte al suo creatore. Quindi, quanto meno i conti tornano. Tornano anche le sottotrame, chiuse tutte con coerenza. Voglio dire, ce la menano con Hera dalla prima stagione, che si chiudeva proprio sulla culla che la conteneva, quindi piace vedere che il cerchio si chiude. Dà molto quell’impressione à la “sapevamo tutto fin da principio” che in Lost manca completamente, per dire. E probabilmente davvero sapevano tutto da principio, visto che si tratta di una serie che si sviluppa su un arco narrativo tutto sommato breve. Quattro stagioni sono poche, in fin dei conti.
E allora? Allora cosa non torna? A me non torna il tono del doppio episodio finale. Sembra scritto da altri autori. Ma dove sono finiti gli sceneggiatori che ci hanno fatto amare uno stronzo opportunista come Gaius? Gli autori che ci hanno consegnato un episodio così profondo e intenso come Crossroads? Battlestar per quattro stagioni ha saputo mostrarci un quadro desolatamente veritiero dell’umano; rinunciando a qualsiasi tipo di visione consolatoria, ci ha mostrato un’umanità vera e palpitante, continuamente combattuta tra un insopprimibile anelito all’ideale e la continua tentazione della caduta. Ogni episodio è sempre stato denso, pieno di sottotesto, vagamente allusivo a un mondo di significati nascosti. Come ogni singolo episodio precedente è stato ellittico, suggerito, tanto The Plan è quasi fastidioso nello spiattellarti la verità. Dio, che fino a quel momento è un elemento vago, sempre invocato e sempre sfuggente, diventa una presenza terribilmente palpabile. Due elementi dell’episodio chiariscono cosa voglio dire: la distruzione della colonia, che avviene perché la mano di un pilota morto, per caso, pigia un bottone, e la scomparsa di Kara. Ecco. Dio non è più quella fede vaga cui uomini e Cyloni si richiamano. È uno che materialmente fa pigiare un pulsante ad un morto, materialmente resuscita Kara per poi farla sparire. Ma dov’era Dio quando i Cyloni hanno sterminato gli umani? Qual era allora il suo piano? Tutto questo sangue, tutta questa morte solo per dare vita ad Hera, e permettere a noi di venire al mondo? Mi rendo conto che questo è LA domanda, quella che informa l’esistenza di qualsiasi uomo sulla terra. Ma la risposta di Battlestar non mi convince. Questo Dio che improvvisamente agisce e prende forma mi sembra un deus ex-machina. Perché risolve tutti gli snodi di trama. È Dio che distrugge la colonia, è Dio che ha fatto tornare Kara, è Dio che le indica la rotta per la Terra. Un Dio che mai prima, in Battlestar, si è palesato così chiaramente.
Ora, immagino che durante la visione di The Plan lo spettatore dovrebbe dirsi stupito che tutto torna. Avete presente quella sensazione lì che avete quando risolvete un enigma? Io ce l’ho quando vengo a capo di un problema di trama. Ce l’ho avuta di recente, costruendo il nuovo mondo in cui è ambientata la mia nuova storia. Una sera, tutto è tornato.
Ecco, di fronte alla canzone che non solo serviva a risvegliare gli Ultimi Cinque, non solo era la canzone dell’infanzia di Kara, ma fornisce anche le coordinate per raggiungere la terra (e, incidentalmente, è All Along the Watch Tower, che Bob Dylan scriverà la bellezza di 150 000 anni più tardi) io non ho pensato per niente che tutto tornava. Ho pensato che Dio ci stava mettendo una manona grossa quanto una casa. Questo è il vero, grosso problema di The Plan: che tutto diventa troppo chiaro, troppo palese. E anche un po’ buonista. Capirca Sei e Gaius che si devono amare per far tornare i conti – e ci peritano anche di dircelo esplicitamente, grazie ai due “angeli” che ce lo enunciano testuali parole – Cavil che, poverino, lui voleva solo vivere, e quindi mollerebbe subito Hera per l’immortalità, quando ci avevano fatto credere che il suo problema vero era la sua umanità, il corpo in cui l’avevano infilato e il destino cui i Cinque l’avevano condannato. Non lo so, mi rendo conto che è difficile da spiegare, ma tutto sembra risolversi in un lieto fine posticcio. Dentro di me è come se sentissi che doveva finire diversamente. Con la morte di Cyloni e umani, ad esempio, e la sopravvivenza solo di Hera, Gaius e Caprica Sei. In fin dei conti, non era quello che ci dicevano le profezie? Perché mi sembra che tutta la serie puntasse in quella direzione, che ci stese dicendo che gli errori non possono essere emendati, che il dolore non si dimentica e ci cambia. Invece qui sopravvivono tutti, e i cattivi invece muoiono: Tory schiatta, Cavil si suicida senza una motivazione ben chiara.
E poi il finale à la Lord of the Rings è francamente insostenibile; duecento dissolvenze a nero, duecento addii, duecento finali. Certo, ci interessa sapere che fine fa ogni personaggio, ma dilungarsi così tanto su ognuno di loro, e mostrare ogni finale come fosse l’ultimo, caricandolo emotivamente, distrugge il climax. E comunque Kara che scompare dicendo che ha finito il suo compito, come un supereroe di bassa lega, è qualcosa che avrei preferito non vedere.
Ma Battlestar è più grande persino del suo finale. È vero, la fine conta, ma certe volte non così tanto. Il quadro costruito in quattro stagioni memorabili resta, la capacità di scavare a fondo nella condizione umana è ineguagliato, almeno per una serie televisiva d’oltreoceano. Battlestar resta al di là delle cadute di stile, resta nel cuore e nella mente, un fulgido esempio di come il fantastico e la narrativa nel suo senso più puro sanno penetrare nelle questioni che contano meglio e più a fondo di molti prodotti ‘alti’, con velleità artistiche mancate di mezzo miglio. Battlestar resta, è LA storia, come tutte le grandi storie, che ci raccontano sempre la stessa cosa, senza però smettere di dirci cose nuove

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