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Naturalmente…Il Nome della Rosa

Ero indecisa se fare questa cosa. Un po’ perché amo il libro in un modo così viscerale, ha fatto e fa così parte della mia vita – e anche della mia scrittura – che mi sembrava un po’ senza senso, un po’ perché, nonostante l’hype a manetta, io di questa serie tv su Il Nome della Rosa avevo una paura matta. Poi però qualcuno mi ha chiesto pareri su Facebook, io ho risposto con un commento lungo due chilometri, e allora niente. Non posso esimermi dalla recensione della serie ispirata a Il Nome della Rosa, andata in onda ieri sera su Rai1. Here we go :P .
Più di altre volte, servono moltissime premesse. Per chi fosse capitato qui per caso, premetto che ho letto il libro ventuno volte, più o meno una volta l’anno da quando avevo quindici anni, e mio papà mi passò la sua copia gualcita, edizione 1982, dicendomi che pensava mi sarebbe piaciuto e che era uno dei suoi libri preferiti. Lo lessi in vancanza al mare, fu amore a prima vista, e da allora questa passione non dico è mai finita, ma mai manco scemata. Una volta ho anche tenuto una specie di lezione, a Piazza Santa Maria in Trastevere, sul perché questo libro mi piacesse e mi ossessionasse così tanto. Per dire che il mio non può in alcun modo, nel bene e nel male, essere un giudizio oggettivo. Non posso prescindere da questo amore, non posso prescindere dai molteplici legami affettivi che mi vincolano ancora oggi a quella copia ingiallita.
Altra premessa: alcune scene sono state girate sul Tuscolo, uno dei posti che più amo al mondo, e dove vado a rifugiarmi per passeggiare quando sono stanca, depressa, in qualsiasi modo bisognosa di silenzio e bellezza. E quindi, altro pregiudizio. Detto ciò.
Ho grandi difficoltà a esprimere un giudizio compiuto su quel che ho visto. Innanzitutto perché, durante la visione, mi si aprivano continuamente nel cervello pop-up tipo “ehi, questo è spiccicato il libro!”, “ommioddio il portale!”, “no, Jorge me lo immagino tutto diverso” e via così. Ho cercato di guardarlo come un prodotto a sé, una reinterpretazione di una cosa che amo molto, ma ho fatto una fatica bestiale e non credo di esserci riuscita molto. Per cui facciamo così: pro e contro. Cominciando dalle note dolenti, così chiudiamo in bellezza.
Il più grosso contro è il passato di Adso, e le modifiche apportate al personaggio. È una questione un po’ di gusto personale, quindi non di problemi oggettivi della narrazione, ma, secondo me, far di Adso un pischello vissuto che mena, ha dimestichezza con le donne e c’ha i daddy-issues secondo me diminuisce molto quella dialettica maestro-allievo tra lui e Guglielmo che era molto importante nel libro. Lo dice anche Eco nelle postille: Adso è il lettore, soprattutto quello più ingenuo. Come lui, Adso non sa niente, e perché è un tedesco catapultato in quella terra dei pazzi che è l’Italia – ora come allora -, e perché ha sedici anni, e perché ha sempre vissuto serenamente nel convento di Melk. Questo dava una prospettiva fresca alla storia: se non capivi le cose era ok, non le capiva manco Adso, e c’era sempre qualcuno pronto a spiegartele. Con questo nuovo Adso, invece, si crea una sorta di distanza con lo spettatore, che non ha un alter-ego nella storia. Per altro, questa modifica fa iniziare la storia con una scena inventata che ha fatto prendere un colpo apoplettico a me lettrice di lungo corso, ma vabbè.
Altro punto leggermente a sfavore, mi pare che la trama proceda di gran carriera. Non che sia un problema: il ritmo tiene, e ci sta, è ovvio che una riduzione debba spingere soprattutto sul pedale della trama gialla, che del libro è la cosa più facilmente spendibile. Però di ‘sto passo lunedì prossimo scopriamo l’assassino, per cui non so bene cosa accadrà nei restanti episodi…
Nei contro metto anche una biblioteca che è come quella del libro, ma l’avrei preferita un po’ più intrisa di mistero. Ok, Anche nel libro Adso quando entra è deluso, ma io avrei pompato un po’ di più sulla suspence. Ma il cliffhanger di fine puntata (anche se immagino di sapere chi ha aggredito Adso…) mi lascia intuire che forse quest’aspetto verrà esaltato lunedì prossimo.
Ultimo contro, alcune scelte di cast. Intendamoci, le interpretazioni mi piacciono molto: Remigio è viscido a sufficienza, Salvatore il povero cristo babelico del libro, e via così. Ma qui sono influenzata dal film dell’86, che, al netto di una trasposizione che dire libera è un eufemismo, aveva azzeccato delle facce clamorose. Ron Perlman indimenticabile, i monaci tutti mezzi deformi e morbosi, uno Jorge che pareva una statua…ma, anche qua, problema mio, non intrinseco della serie.
Bon possiamo andare ai pro. Turturro. E che gli vuoi dire, a Turturro. Perfetto. Con tutto il bene che voglio a Sean Connery – e gliene voglio a palate – non è mai stato il Guglielmo del libro. Era Sean Connery che faceva il monaco francescano. Turturro no. Anche solo visivamente, è uscito dalla pagina scritta. Ok, il personaggio è leggermente ammorbidito, ma manco tanto. La serie anzi secondo me è molto efficace nel mostrarti con un paio di scene le caratteristiche del personaggio: bello il siparietto Brunello, esplicativo quello coi poverelli e il lebbroso (Guglielmo queste cose nel libro le dice, per cui diciamo che ci sta), spettacolare il dialogo con l’Abate. Ah, Berengario troppo lui: recitazione giustamente sopra le righe e faccia azzeccatissima.
Altro pro: un tentativo fortissimo, direi quasi intriso di amore per la materia di partenza, di stare il più aderenti possibile al libro, anche nelle piccole cose. Per dire, brivido di piacere davanti al portale: cioè, voglio dire, il portale! C’è! La parte in assoluto meno televisiva di tutto il libro e ce l’hanno messa! Oppure le finestre d’alabastro della biblioteca, che è una piccola cosa, ma è da queste piccole cose che si vede che dietro tutto c’è una passione per il libro, e questa credo sia la cosa più importante per un prodotto del genere. I dialoghi sono quasi interamente presi di peso dalla pagina, a parte lievi differenze. Mi lascia un po’ così l’assenza di Ubertino, ma magari compare più avanti.
Apprezzatissima anche la decisione di metterci dentro le dispute sulla povertà. Anche qui, argomento anti-televisivo per eccellenza, gente che dibatte sulla povertà della Chiesa…e invece hanno trovato un modo efficace di mettercele. E non è questione di lana caprina, perché tutto nel libro si corrisponde in un dialogo continuo tra trama gialla, metafisica e aspetto formale. Segare via gli eretici e la povertà di Cristo significava fare un’altra cosa, non Il Nome della Rosa. Ok, l’inserimento di questo elemento è stato fatto semplificando le cose, ma questo era necessario: bisogna pur essere consapevoli che si sta guardando una fiction, e non un trattato sul basso medioevo. Una certa dose di spettacolarizzazione e semplificazione è necessaria.
Anche tutte le modifiche di trama hanno una spiegazione perfetta in termini narrativi, nel contesto di una serie tv. Giusto – e tutto sommato pure bello – mostrare i dolciniani, anche se finora non si sono approfondite le motivazioni più profonde della loro ribellione. Ha senso anche mostrare di più Bernardo Gui e il Papa, e dar loro un ruolo di maggior peso mella trama complessiva. Un cattivo ci vuole, e, siccome l’assassino rimane figura sfuggente fino alla fine dell’intreccio, ci sta inserire questa sottotrama.
Ha senso anche espandere la storia d’amore di Adso, che è una cosa ero sicura sarebbe stata fatta: ha senso perché apre la trama verso l’esterno (in un libro ok l’unità di tempo, luogo e azione, in una serie tv molto meno), e inserisce un elemento che permette di aggiungere ciccia alla trama principale. Insomma, secondo me a livello di adattamento è stato fatto un gran lavoro, un buon lavoro.
Ultima cosa, ammazza che belle le scenografie e la fotografia. L’abbazia mi ha lasciata senza parole, perché era identica spiccicata a come l’immaginavo. Il Tuscolo e Tusculum meravigliosi come si presentano ai miei occhi ogni volta che ci salgo, e in genere una scelta azzeccatissima di tutte le location.
Insomma, mi piace. Quanto può piacermi una riduzione televisiva di qualcosa che ho nel DNA, che mi ha formata come persona e anche come autrice. Mi piace perché mi ha fatta sentire a casa, mi ha messo addosso voglia di rileggere il libro – e l’ultima lettura è di gennaio… – e perché ho voglia di vederne ancora. C’è qualcosa, in questa serie, che mi parla una lingua conosciuta, e che sa di un amore antico. E allora niente, dai, bene così. Era difficile fare una cosa che mi non mi facesse venire i brividi per novanta minuti, e invece no, sono contenta. Il libro è il libro, inavvicinabile, strepitoso, sempre vivo nella mia mente. La serie è un’altra cosa, che però mi piace e continuerò a seguire.

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Il Nome della Rosa ieri e oggi. Soprattutto oggi.

Una volta l’anno rileggo Il Nome della Rosa. Lo faccio perché lo amo molto, è il mio libro preferito. Sono a sedici riletture. Voi direte: lo saprai a memoria, non ti offrirà più nulla di nuovo. E invece no. Come tutti i grandi libri, quelli che non smettono di parlarci anche se chi li ha scritti è ormai polvere della polvere – non è il caso di Eco, beninteso :P – ogni volta che lo rileggo ci trovo dentro qualcosa di nuovo. È come un vestito magico, capace di essere comodo, ma al tempo stesso adattarsi a qualsiasi situazione: al party chicchettoso, quanto al pomeriggio scaciato con gli amici. E quasi sempre quel che mi dice riguarda il mio vissuto o il contemporaneo.
Ecco, ho completato l’ultima lettura un mesetto fa. E c’ho trovato dentro così tanta attualità da far paura. Soprattutto per quel che riguarda tutta la parte sulla disputa sulla povertà di Cristo e i movimenti ereticali. Che, così, a occhio e croce, potrebbero non sembrare esattamente storia d’oggi. Eppure.
Ad un certo punto, interrogato da Adso, Guglielmo cerca di spiegare cosa siano i movimenti ereticali, da dove nascano e perché finiscano sempre nel sangue. E dice due cose che si adattano perfettamente ai nostri tempi: periodicamente, le società vengono attraversate da un bisogno di purificazione. Chiamiamola ciclotimia sociologica, non lo so, ma bene o male nella storia le cose vanno più o meno così: si instaura un certo ordine sociale, tale ordine sociale prospera, ad un certo punto inizia a corrompersi, e invariabilmente finisce per darsi al potere fine a stesso. A questo punto, gli esclusi da quel sistema sociale esplodono, e cominciano a premere per un cambiamento dei costumi. Nel caso del Nome della Rosa, nascono i movimenti dei Fraticelli, l’Ordine Francescano, e si arriva a Fra’ Dolcino e il monte Rubello.
Venendo ai giorni d’oggi, non si può negare che il sistema socio-economico che ci ha allevati è in crisi. Il sistema ci appare marcio, è tutto un magna magna, le cose non funzionano, bla bla bla. Siamo ad un punto di rottura, e, come periodicamente accade, c’è un gran bisogno di purificazione. Solo che spesso questi lavacri non si fanno in acqua, ma nel sangue. Il movimento dell’”antipolitica”, al quale ormai tutti i partiti si rifanno più o meno velatamente – l’abolizione o la diminuzione del finanziamento pubblico ai partiti è rapidamente diventata la promessa elettorale più gettonata a destra come a sinistra – esprime proprio questo bisogno di purificazione, di ritorno alle origini. Un bisogno che non è male di per sé; bisogna sicuramente rompere col sistema costituito se si vuole cambiare le cose. Il male è che quasi sempre passa uno che è in grado di catalizzare i bassi sentimenti della folla, e invece di problematizzare la questione, semplifica al massimo i concetti, facendo riferimento solo alla pancia della folla.
Occorre ammazzare tutti i preti, perché sono corrotti e sono alla base del potere che ci affama. Ieri.
Occorre mandare a casa tutti i politici, perché sono corrotti e mantengono in vita quel potere che ci impoverisce. Oggi.
E qui veniamo alla seconda citazione de Il Nome della Rosa che mi ha davvero colpita, durante quest’ultima lettura. Qualcuno forse l’avrà vista apparire tra i miei twitter qualche tempo fa: solo i potenti sanno sempre con grande chiarezza chi siano i loro nemici veri.
E anche questo è verissimo in questi nostri tempi bui. Nei quali va molto di moda aizzare la folla contro quello che appare il bersaglio più facile: il politico, il “privilegiato”. Pensate anche solo alle questione Giulia Ichino, se non alle folle oceaniche delle piazze di questa chiusura di campagna elettorale. Ma è davvero questo il nostro nemico? Davvero è colpa solo dei politici se le cose stanno come stanno? Ma chi ce li ha messi i politici là? Chi continua a votare a ripetizione gente impresentabile?
Ecco. Ho l’impressione che quel qualcuno capace di indicarci il nemico non dico sbagliato, ma quanto meno non unico, sia arrivato, esattamente come arrivò venti anni fa. E che, come allora, se vogliamo anche molto peggio di allora, non parli alla nostra ragione, ma alla nostra pancia. Ma la gente è un mostro acefalo, che agisce per riflesso, e una volta che l’hai scatenato difficilmente si fa imbrigliare. Tanto è vero che molti di questi capipopolo hanno fatto una bruttissima fine, se si vanno a sfogliare i libri di storia.
A me il gesto di pancia non piace, e la folla m’ha sempre fatta molta paura. Non c’è nulla di peggio dell’intelligenza del singolo che si scioglie nell’incoscienza dei molti.
Vi linko in chiusura un articolo, col quale si può anche non essere d’accordo, e i cui toni – per quanto azzeccatissimi per tenere incollata l’attenzione ad un testo parecchio lungo e complesso – sono sicuramente sopra le righe. Dice però una serie di cose verissime e sacrosante sulla democrazia rappresentativa, cose che finora non avevo letto da nessun’altra parte espresse con tale chiarezza. Leggete, riflettete, e poi andate a votare, domenica e lunedì. E cercate di farlo per i motivi giusti: perché siete d’accordo col programma, perché ci avete pensato, e non perché è passato uno che vi ha detto quel che volevate sentirvi dire.

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