Archivi tag: Utoya

Uno di Noi

Non è esattamente quel che si definirebbe un libro da estate, ma io ve lo consiglio comunque, perché, a dispetto dell’argomento, scorre via velocissimo, e le sue 500 pagine e più io me lo sono bevute in una settimana. Si tratta di Uno di Noi, di Åsne Seierstad, che ho scoperto grazie a Roberto Saviano; in sintesi, è il racconto della strage di Utøya e di ciò che le è girato attorno, a partire dalla vita del suo autore, Anders Breivik, ma anche di alcune delle sue vittime.
Non intendo qui farne una vera e propria recensione, ma è un libro che ha scavato molto profondamente in me, e quindi sento la necessità di parlarne.
All’epoca, la strage mi colpì molto, ma credo fu così per tutti. Mi andai persino a leggere il libro che Breivik aveva scritto per motivare e completare gli effetti della strage. Era la prima volta che scoprivamo che ad attaccarci non erano solo “gli altri”, in cui, erroneamente, identifichiamo chi ha origini in terre lontane e professa religioni diverse dal cristianesimo. La guerra aveva un altro fronte, speculare, e interno: Breivik era “uno di noi”. Era bianco, era biondo, era cristiano, la sua famiglia era norvegese.
All’inizio, pensavo che il titolo si riferisse proprio a questo, al fatto che, per una volta, non potevamo mettere alcuno schermo tra noi e l’orrore. E invece, arrivata alla fine, mi sono dovuta ricredere. Breivik non era “uno di noi”, e il problema era proprio il suo essere solo, non appartenente a nulla, a fronte di frotte di giovani che invece partecipavano di una comunità, erano parte di qualcosa. Il singolo contro il gruppo, l’emarginato – adesso spiego in che senso – contro la società da cui ritiene di essere stato rifiutato.
Siamo abituati a pensare al male come un’entità ontologica che si incarna in qualcuno che, per forza di cose, deve essere profondamente diverso da noi. Ci immaginiamo i grandi cattivi come persone comunque in qualche modo straordinarie, super-cattivi da film, malvagi in tutte le loro manifestazioni e strenuamente, quasi eroicamente tesi al male. Il libro di Seierstad prende questa tesi e la fa a pezzetti. Breivik è un uomo qualunque. Prima di Utøya non era altro che uno dei tanti che non era riuscito a combinare nulla di buono nella vita: qualche impresa ai limiti del legale fallita, il tentativo naufragato di distinguersi nel mondo dei graffiti, i lunghi anni trascorsi letteralmente a giocare tutto il tempo online a World of Warcraft. L’inetto medio, che spesso incontriamo in rete, carico di livore perché mai in grado di accettare che i suoi fallimenti non sono colpa d’altri, ma di se stesso. Una figura di fallito che immaginiamo come pressoché innocuo, uno lasciato indietro dalla vita, il cui destino è vivacchiare ai margini. È proprio questa descrizione l’unica che riesce a far perdere i gangheri a Breivik durante il processo. Può tollerare di essere descritto come un mostro, come un pazzo, persino, ma non come un poveretto.
Ma questo poveretto che ha preso solo calci in faccia, un bel giorno decide che non ci sta. Decide che se non è riuscito in altro modo ad essere all’altezza delle proprie smisurate ambizioni, allora verrà ricordato non per qualcosa di positivo, ma per qualcosa di tremendo. Nel chiuso della sua stanza, si informa online, immagina un’organizzazione segreta di cui è fiero combattente e alto rango, inventa una missione che faccia di lui un eroe, e si appresta a uccidere più di settanta persone, la maggior parte delle quali giustiziate a colpi di pistola e fucile. Non c’è niente di eroico, niente di grande in questa figura. Breivik si immagina come qualcuno di straordinario perché ha ammazzato tanta gente, perché ha fatto qualcosa che nessuno prima di lui aveva tentato in queste forme, in questi modi, ma alla fine dei giochi è sempre lo stesso inetto di prima. È ancora solo, e sempre lo sarà.
Perché l’altro elemento chiave è appunto la solitudine. Breivik la conosce da piccolissimo, con una madre malata che non l’ha mai desiderato, e ha cercato di sbarazzarsi di lui affidandolo ai servizi sociali, ed è la cifra della sua esistenza: vuole disperatamente essere parte di un gruppo, di più, vuole esserne il leader, ma non funziona mai, perché non ne ha la stoffa, perché non ce la fa. Prova a farsi un nome coi graffiti, ma il gruppo lo respinge per le sue pose da grand’uomo. Prova a fare l’imprenditore, ma, a parte muoversi sul confine tra legale e illegale, non è capace di fare altro, e tutte le sue imprese falliscono miseramente. Prova a entrare nella massoneria, a farsi un nome tra l’estrema destra norvegese, ma non funziona niente, non riesce a spiccare da nessuna parte, di più, non riesce a essere parte di niente.
Dall’altro lato, ci sono i giovani di Utøya. Sono ragazzi impegnati politicamente, soggetti attivi della società, parte di un progetto più grande. Gente che ha trovato il proprio posto nel mondo, che non vuol dire che si sono adeguati allo status quo: i ragazzi di Utøya il mondo lo vogliono cambiare, e lo fanno un pezzetto per volta partendo dal loro piccolo. Sono ragazzi brillanti, che sanno cosa sono e cosa vogliono, anche se sono giovani. Sono tutto quello che Breivik non è mai stato e mai sarà. Ed è per questo che Breivik li uccide: sì, tutti i deliri sull’islamizzazione dell’Europa che si racconta per giustificarsi davanti a se stesso, i cavalieri templari e le menzogne che è costretto a raccontarsi per non fare i conti con la propria mediocrità, ma il nucleo vero di quanto ha fatto è tutto qua: ha ucciso ciò che non è mai riuscito ad essere.
Mi sono tornate in mente molte cose, leggendo questo libro. Anche Hitler era un fallito, un piccolo uomo che non riusciva a rassegnarsi alla propria piccolezza. E ho pensato al Nome della Rosa, agli eretici come esclusi, alla rabbia di chi sta ai margini. E più mi addentro in queste storie, anche in quelle dei terroristi di questi tempi, più mi accorgo che il segno è sempre uguale: la marginalità. La marginalità delle periferie, di chi è nato in Europa ma viene trattato come un reietto, di chi semplicemente non è mai stato amato e non ha mai imparato a farlo, e per questo è condannato alla solitudine.
Ora, io non voglio cercare di giustificare l’ingiustificabile, ma voglio cercare di capire. Scrivo, e il male mi interessa per forza: come si forma, dove risiede, perché in alcuni emerga e in altri no. Perché tante persone ogni giorno hanno la storia che ha avuto Breivik: è pieno di gente non amata, rifiutata, ma non tutti finisco a uccidere ragazzini su un’isola. Il perché, perché alcuni di noi riescono a superare le proprie ferite e altri no, rimane un mistero, Il Mistero intorno al quale si dipanano le nostre vite, e riflette la letteratura.
Questo non è un libro facile. Le infinite pagine con la descrizione della strage sono state per me pressoché intollerabili, ma l’autrice spiega chiaramente perché ce le abbia messe, e non c’è niente di morboso, in esse. Ma se vuoi capire Breivik, devi vedere cosa ha fatto. Ho dovuto far ricorso a tutte le mie risorse per andare avanti, ma resto convinta che questo libro serva. È un bel libro, prima di tutto, che non giudica, non interpreta, ma semplicemente riporta quanto è stato. Unire i punti spetta al lettore, e io li ho uniti in questo modo, altri, probabilmente, lo faranno in modo diverso. Ma è importante leggerlo. Tra l’altro, l’autrice si infiamma solo quando si tratta di mettere in luce le mancanze del governo norvegese quando si è trattato di rispondere alla crisi; molte vite si sarebbero potute salvare se la polizia fosse intervenuta tempestivamente, se il governo non si fosse trincerato dietro lo stupore di chi pensa “da noi non può succedere”. Per tutto il resto, non so se Breivik si poteva fermare, o cosa andasse fatto, nel lungo percorso della sua storia, per salvarlo da se stesso. Se i servizi sociali avessero insistito e l’avessero tolto a sua madre…se sul suo percorso avesse trovato qualcuno in grado di capire…non lo so. Invecchio, e inizio a pensare che nella vita occorre anche accettare che alcune cose non si possono fermare, non si possono cambiare. Si possono evitare in futuro, in parte, si può imparare dai propri errori, ma resta sempre qualcosa che non è al di là del nostro controllo, e occorre accettarlo.
Insomma, solito gran delirio per dirvi di leggerlo, e magari condividere con me le vostre impressioni.
Chiudo con una citazione che mi ha molto colpita, e segna la distanza abissale tra il mondo come lo vede Breivik e come lo vedevano i ragazzi di Utøya. Breivik è appena stato arrestato, la strage si è appena conclusa, e la polizia lo interroga.

«Mi considerate tutti un mostro, non è vero?»
«La consideriamo un essere umano».
«Mi giustizierete. Me e tutta la mia famiglia».
«Siamo pronti a proteggere la sua famiglia, se fosse necessario. Per noi una vita è una vita. Lei sarà trattato esattamente come chiunque altro».

1 Tags: , , , ,

Un viaggio oscuro

Alla fine non ho resistito. Il post che avevo iniziato a scrivere ieri, finisce in quello di oggi. In mezzo, una lunga sessione di scrittura, che aiuta sempre. Semplicemente, se non ne scrivo adesso non ne scriverò mai più, e invece ci sono cose che sento di dover dire, anche se non sono l’unica e neppure la prima, ma che significa.
Come vi dicevo, ho fatto in questi giorni una lunga cavalcata nel “lato oscuro”: ho letto le 1500 pagine del memoriale di Breivik. Non tutte, ovviamente. Le ho scorse, ho letto quelle sulle quali si appuntava la mia curiosità. Non è stato bello e non è stato neppure facile. I terroristi hanno una specie di ossessione per la logorrea: dai chilometrici proclami delle BR, agli sproloqui di Bin Laden fino alle 1500 pagine di Breivik, sembrano non essere capaci di spiegarsi in poche righe. Se ne discuteva qualche tempo con Valberici su Twitter, e ci eravamo detti che probabilmente quel che il terrorista cerca è una narrazione di cui essere protagonista, un racconto che ne giustifichi l’esistenza. Ma questa gente non conosce l’abc del narrare, e manca anche tutto sommato di fantasia, e per questo produce polpettoni lunghissimi e indigeribili.
In ogni caso, ho scorso le 1500 pagine, perché è facile dire “è un pazzo” e marcare una linea di definizione netta tra noi e lui, più difficile è capire chi a questo “pazzo”, se pazzo è davvero, ha dato le armi, chi l’ha nutrito e l’ha cresciuto. E poi la letteratura si interroga spesso sul male: cosa di meglio per uno scrittore di uno che quel male lo racconta di sua spontanea volontà, parlandoti non solo della sua ideologia, ma anche della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi amici.
Dicevo che non è stato piacevole. Innanzitutto perché la famosa linea che ci piacerebbe tracciare tra noi e lui è labile e indefinita. Cercate di capirmi, non voglio giustificare nessuno. Ma, come dice Guglielmo ne Il Nome della Rosa, “Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d’adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? E fu per questo che rinunciai a quella attività [di inquisitore]. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi.” E noi dobbiamo essere ben consci che ci vuole poco per saltare dall’altra parte, davvero poco. L’ardore folle che ha spinto Breivik a sentirsi il difensore di una razza in via d’estinzione, se lo si svuota del contenuto ideologico, è simile alla forza buona e giusta che spinge a morire per i propri ideali, senza trascinare con sé centinaia di innocenti, è la stessa che da secoli induce gli uomini a lottare per migliorare le cose. La differenza? Che Breivik non muore in prima persona, ma uccide altri, e non lotta per persone vere, concrete, ma per un ideale astratto che non trova concretizzazione in nessuna delle persone che ha intorno. Se il primo punto è chiaro, il secondo forse merita un po’ di approfondimento.
In coda alle 1500 pagine, c’è un diario che Breivik ha redatto negli anni in cui ha progettato l’attentato. Ne emerge l’immagine di un qualsiasi trentenne, incline al divertimento e forse giusto un pelo solitario. Sebbene negli ultimi tempi per sua volontà avesse iniziato a isolarsi dal mondo – per essere sicuro che nessuno potesse scoprirlo o tentare di fermarlo – aveva degli amici di cui parla. Mai una volta accenna però a loro come persone da salvare dal multiculturalismo, la forza malvagia che nella sua testa sta portando letteralmente alla morte il mondo occidentale. Se la parte ideologica si dilunga sui crimini che a suo parere il “marxismo culturale” ha causato (stupri, omicidi, torture, arriva a elencare i numeri di quello che lui considera un vero e proprio genocidio) nel diario non identifica mai queste vittime con i suoi amici. Loro sono un mondo a parte, al quale non appartiene più, che ha deciso di abbandonare. Non è per salvare loro, che combatte. Per altro, la fidanzata di un suo amico è un’attivista laburista. Non spende per lei parole d’odio, non valuta nemmeno la possibilità che prima o poi gli tocchi ucciderla perché “traditrice”; accenna vagamente a lei, e non la identifica col nemico.
Ecco, Breivik lotta per un’idea nel senso deteriore del termine: non lotta per persone vere e reali, ma per qualcosa di astratto che non si incarna mai. Parla di stupri che non ha mai visto, di vittime che non ha mai conosciuto, di morti che restano sempre sul piano astratto. E che rivoluzione è quella che non salva qualcuno di vero e reale, che non considera le persone per ciò che sono, carne viva e sentimenti, ma solo etichette?
Detto questo, la seconda osservazione è che Breivik è un figlio della democrazia. La parte introduttiva del suo memoriale si dilunga sull’assenza di libertà di parola nell’Europa moderna. E perché non ci sarebbe libertà di parola? Perché esiste uno stigma sociale – in Norvegia, suppongo, qui da noi non direi – verso gli xenofobi, gli omofobi, i razzisti. Breivik non si sente libero perché non può dire che gli islamici andrebbero deportati o costretti alla conversione senza che qualcuno gli dia del razzista. È evidente che qui c’è un malinteso di fondo su cosa sia democratico e cosa no. Certo, la libertà di espressione, ma è chiaro che certe cose non sono opinioni, sono semplici violazioni delle regole del vivere comune: dire che l’omosessualità è una malattia non è un’opinione, è una tragica inesattezza scientifica, invitare a sparare sui clandestini sui barconi non è un’idea legittima, è apologia di reato. Breivik questo non lo capisce. Se questo sia segno di follia o è la democrazia che da qualche parte ha fallito, che non ha saputo spiegare se stessa, io non so dirlo. Ma è qualcosa su cui riflettere.
Infine, nulla della parte ideologica del memoriale mi è sembrata nuova o originale. L’avevo già letta, ascoltata, confutata migliaia di volte: alla tv, ogni volta che hanno trasmesso un proclama di Bin Laden o chi per lui, quando ho letto l’articolo della Fallaci all’indomani dell’11/9, quando ho sentito certa gente come Borghezio e Calderoli aprire bocca e dar fiato ai polmoni. I razzismi sono tutti tragicamente uguali, basta cambiare due parole e dall’odio per l’occidente si passa all’islamofobia senza alcun problema. Del resto, l’ha detto anche Borghezio: si è riconosciuto in quel che dice Breivik. E non a torto, aggiungo.
Ora, di sicuro tra i proclami fatti dalla Lega in questi anni e le azioni di Breivik c’è una bella differenza. Ma occorre anche dire chiaro e tondo che in questi dieci anni molti politici hanno sostenuto una campagna d’odio, il tutto senza alcun senso di responsabilità. Immagino che per molti politici possa sembrare un gioco a costo zero aizzare la paura del diverso, parlare di “asse del bene contro il male”, di incentivare la logica del noi contro loro, porta voti e sembra non avere controindicazioni. Ma tra le migliaia di persone che ti stanno a sentire, e alla sera poi torneranno placidi alle loro famiglie e al mutuo da pagare, ce ne potrà sempre essere uno che ti prenderà molto, troppo sul serio. Le parole sono importanti, diceva Moretti, e tanto più lo sono quando hanno la forza di arrivare a molte persone, e influire sul pensiero di molti. Ora, qualcuno potrebbe obiettare che è con questo ragionamento che si arriva poi a dire che i videogiochi causano Columbine, ma qui l’ordine di grandezza, e le idee in gioco, sono completamente diverse. Qui si parla di odio indirizzato verso persone vere, con nomi e cognomi, di popoli criminalizzati, non di sparatorie finte in contesti ludici. Se Utoya dimostra qualcosa, è che la logica del “male contro il bene” non ci ha per niente resi più sicuri: ha inasprito la contrapposizione tra occidente e mondo arabo e ha persino aizzato un nemico interno all’occidente, che c’è sempre stato, per carità, ma in questi anni si è sentito giustificato, incoraggiato dal profluvio di politici, partiti e partitelli che hanno ripetuto a gran voce l’opinione dell’uomo qualunque rendendola oggetto di programma politico. Checché ne dica Breivik, checché ne dicano tutti quelli che oggi spalancano tanto d’occhi allo scoprire che l’assassino non farà più di trent’anni di carcere, che urlano che il multiculturalismo ha fallito, la capacità di accettare e accogliere l’altro per quello che è, il rispetto, la tutela dei diritti propri e altrui è l’unica cosa che ci può salvare, l’unica. E Utoya non è la prova che la democrazia e il multiculturalismo hanno fallito, al contrario: sono la dimostrazione che quando si rinuncia a vedersi specchiati nell’altro, quando si accetta di reificare anche una minoranza, allora ogni orrore è possibile, perché disumanizzare anche solo uno di noi, significa disumanizzarci tutti.
Sono uscita dalla lettura sgomenta. Perché il deliro di Breivik davvero toglie speranza. Il suo è un mondo senza luce, dominato dalla paura e dal dolore, in cui persino la vittoria non porta gioia, solo disperazione. Poi, ieri sera, ho letto questo. E ho pensato che non c’è modo migliore di rispondere a gente come Breivik. Affermare che l’uomo è sempre uomo, persino quando compie l’indicibile, persino quando ci appare disumano, è l’unico modo per combattere in chi vuole dividerci in uomini e topi. La gente come Breivik non si sconfigge con l’ergastolo, non si sconfigge con la pena di morte, né chiudendosi a riccio. Si sconfigge col coraggio di seguire fino in fondo ciò in cui si crede, si sconfigge con la forza di non avere paura. La paura è la vera nemica del nostro tempo, la più subdola delle schiavitù, che ci vorrebbe chiusi in casa, terrorizzati persino dal nostro vicino di casa. A gente come Breivik dobbiamo rispondere con la gioia, con la condivisione, dimostrando che la democrazia è forte e salda, e sa attraversare anche la più terribile delle tempeste.
Io ci credo che sia possibile, davvero. E ho imparato che credere è il primo passo per realizzare, che la speranza non è qualcosa di dato, ma che costruiamo noi giorno per giorno. E allora mi sono messa al computer, e con questo post ho chiuso i conti col mio viaggio nel lato oscuro.

40 Tags: , , , , ,