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Diario di viaggio dagli Emirati Arabi

Adesso che l’avventura è conclusa, posso dirlo senza troppe remore: il mio viaggio negli Emirati Arabi mi eccitava moltissimo, ma mi faceva anche molta paura. Mi spaventava l’idea del volo intercontinentale, perché non amo volare e ho paura a farlo, anche se non siamo proprio a livelli di fobia; mi spaventava l’idea di uscire fuori dall’Europa da sola, e di farlo andando in un paese così lontano e diverso, di cui conoscevo poco codici e cultura. Era la prima volta che andavo così lontana, era la prima volta che uscivo dall’Europa geografica, e lo facevo DA SOLA.
Ecco, adesso che sono ancora immersa in quella dolce malinconia da ritorno a casa, quella cosa lì che, se le dessi ascolto, faresti la valigia e ripartiresti subito, posso dire che è stata un’esperienza fantastica, che sono stata lieta di farla, e che lo rifarò al più presto. Per certi versi, lo considero il primo vero viaggio della mia vita: sono stata molto all’estero, ho coperto più o meno tutta l’Europa, ma fino a quando sei vicina a casa è diverso. Per quanto possiamo stare qui a menarcela con le differenze, i paesi Europei hanno molto più in comune di quanto non li differenzi, e quindi girare in questo continente significa ritrovare sempre un pezzettino di sé ovunque, e, soprattutto, non richiede quello sforzo di comprensione, di accettazione, che un viaggio in terre lontane esige. Per questo è stato un viaggio vero, inteso come dimensione dell’anima, ed è stato davvero bello :) .
Il post sarà molto lungo; procedo per temi, così chi vuole può leggere solo qualcosa. Le foto, invece, le trovate qua, e alla fine del post.

L’aereo
Ho iniziato a volare a quindici anni. Fino ad allora, era una cosa che mi affascinava moltissimo, e che volevo tantissimo fare. Lo feci da sola per un viaggio studio in Francia. Non so esattamente cosa accadde in quel primo volo, ma già al ritorno ero un po’ più spaventata che all’andata. Per farla breve, a me non piace volare: soffro di ansia anticipatoria, a partire a volte anche da qualche giorno prima, per un periodo ero una di quelle che al decollo si mettevano a piangere, le turbolenze mi gettano abbastanza nel panico. Ma alla fine volo: sono atterrata in un sacco di aeroporti Italiani, e sono stata nella maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale, e alcuni anche di quella orientale. Il problema è che Abu Dhabi dista sei ore di volo, e il volo più lungo che avevo mai fatto era stato quello per Mosca, quattro ore. Ed ero da sola, perché mio marito non poteva prendere le ferie e venire con me.
La somma di queste due cose ha significato PANICO. Venerdì mattina, in aeroporto, forse all’esterno potevo sembrare una persona normale, ma dentro stavo implodendo: alternavo momenti di calma assoluta a picchi di ansia allucinanti. Avevo delle fitte al petto, e un gran desiderio che qualcuno mi desse una botta in testa e mi risvegliasse ad Abu Dhabi.
All’andata ho tenuto mediamente botta. Il crollo c’è stato verso la fine, a un’ora dalla meta, quando l’aereo, per schivare una perturbazione sull’Arabia, ha iniziato a girare di qua e di là. Una turbolenza un po’ più forte mi ha beccata in bagno, e, insomma, ho fatto la solita scena: respiro corto, piantarello, giuramenti su giuramenti che non l’avrei mai più fatto in vita mia.
Ieri, per il viaggio di ritorno, niente. Niente su tutta la linea. No ansia prima, anche Grazie a Chiara Valerio che mi ha tenuta impegnata in discussioni stimolanti fino all’ingresso in aereo, no ansia a bordo, neppure alle poche turbolenze. Mi sono sparata due puntate di Sherlock (sì, sono sempre in fissa :P ), ho lavorato, ho sentito la musica, ho sentito un misto di gioia e tristezza all’atterraggio; ero triste di tornare, ero felice di rivedere la mia famiglia.
E insomma, non lo so se mi è passata. Non credo, ma me ne sono fatta una ragione. Perché per quanto tu possa essere spaventato, vale la pena gettare il cuore oltre l’ostacolo: la vita è una, il mondo enorme, non ha senso rimanere bloccati nel proprio angolino privato. E poi ho visto dall’alto l’Africa, e il Sahara, e l’incredibile nastro verde del Nilo del deserto, e le acque cristalline del Mar Rosso, e la quiete assoluta e oleosa del Golfo Persico. E anche se stavo a 10 km di distanza (in verticale :P ) è stato bello vedere luoghi così lontani, che pure fanno parte della nostra storia.

La fiera
Come saprete, negli Emirati ci sono andata per partecipare alla Fiera Internazionale del Libro di Abu Dhabi. Non sapevo che aspettarmi precisamente, e ho trovato Torino: esatto, il Salone del Libro. Centro fieristico super-avveniristico, collegato direttamente all’albergo, tanti stand, ma molta più calma che nella città savoiarda. Gli Emirati sono un paese giovane, nel momento di massima apertura verso l’Occidente, e quindi il mercato librario è ancora non paragonabile a quello di un paese come l’Italia. Però è stato piacevole girare tra gli stand con calma, con la gente tranquilla che parlava piano e si godeva la giornata, in un mix interetnico clamoroso, in cui la donna in abaya e niqab passeggiava accanto all’occidentale in tailleur.
Sono stata molto contenta dei miei due incontri. Il primo è stato nello spettacolare stand della famiglia reale emiratina, una specie di casetta di legno graziosissima, in cui le donne di famiglia e i loro ospiti hanno incontrato gli scrittori stranieri. L’atmosfera era rilassata, tra dolcetti e donne e ragazze avvolte in splendide abaya, le domande interessanti e interessate. Ci hanno anche chiesto della crisi dei migranti in Europa, segno che è un tema piuttosto sentito, da quelle parti.
Il secondo incontro, aperto al pubblico, è stato ugualmente stimolante, e per la persona con cui l’ho fatto, sempre Beatrice Masini, come nello stand della famiglia reale, e per le domande del pubblico. E poi non c’erano solo italiani; due emiratini in dishdasha e ghutrah si sono seguiti tutti l’incontro dall’inizio alla fine, e c’erano anche altri spettatori stranieri (portavano le cuffie per la traduzione simultanea :P ). Il momento più bello è stato quello in cui una ragazza, credo libanese a giudicare dai tratti e dal nome, mi ha chiesto un autografo per me e sua sorella, dicendomi che la seconda era una mia grande fan. È difficile spiegare quanto possa essere bello e soddisfacente, per uno scrittore, sapere che le sue parole sono arrivate, e sono state apprezzate, così lontano. Non me lo aspettavo, perché io non sono tradotta in arabo, ed è stato davvero bello.

Abu Dhabi, Dubai, gli Emirati
Sono stata solo due giorni, per cui non azzarderò conclusioni sociali e antropologiche. Posso solo raccontarvi quello che ho visto, e quello che mi ha colpita. Innanzitutto, quando si va così lontano, e in luoghi con una cultura davvero diversa dalla nostra, il primo problema è il punto di vista. Non starò certo qui a ricordare quando sia difficile per un Occidentale (e viceversa per un arabo) avvicinarsi con la mente sgombra dai pregiudizi al mondo arabo. Cresciamo invasi da tonnellate di informazioni sull’argomento, che però quasi sempre si riducono a due concetti: Oriente e Occidente si odiano da secoli, e le donne là sono meno che niente. È difficile togliersi di testa queste cose, e, viceversa, non occorre neppure cadere nel paradosso opposto, ossia credere che alla fine si tratti solo di propaganda, e che in Oriente vada tutto liscio e non siano poi tanto diversi da noi. Ecco, lo sforzo è quello di osservare, e basta, perché credo sia questo viaggiare: portare certo la tua sensibilità, la tua storia, e la tua cultura con te, ma al tempo stesso aprirsi all’altro, cercando per quanto possibile di considerare i suoi usi, i suoi costumi, la sua cultura, come un diverso sguardo sul mondo, che non sta a noi giudicare. Ecco, io ho cercato di guardare, di farmi attraversare da odori e colori diversi da quelli cui sono abituata. Non posso rispondervi su quanto la donna sia libera negli Emirati, non posso dirvi quanto realmente la religione permei la società; posso solo dirvi come mi sono sentita io a camminare, da Occidentale, sola, per quelle strade.
Innanzitutto, la natura ha una paletta di colori ridottissima. È difficile spiegare quel beige della sabbia sottile, che ti resta, come una patina impalpabile, sui sandali. Mentre mettevo a posto le infradito che ho comprato lì (le mie scarpe mi avevano graffiato i piedi :P ), l’ho sentita sotto le dita, e ho pensato al deserto, piatto e bigio, che si stende fuori da Abu Dhabi. Sabato c’era una specie di tempesta di sabbia, ed era tutto sospeso e scolorito. Le palme, che sono molto diverse da quelle che abbia qua, più basse e folte, sui rami bassi sono stinte dalla sabbia. È un panorama che a me piace, perché in Italia non c’è veramente niente di uguale; infatti, il mio unico rimpianto è stato quello di non essere riuscita ad andare nel deserto, come hanno fatto alcuni colleghi. Motivo in più per tornare :) .
Il caldo, poi, è asfissiante. Credevo di vivere in un posto molto caldo, ma non c’è paragone col sole che hanno là; quando esci dagli alberghi, la sensazione è quella di infilarsi in un forno. Qualcuno dirà che è caldo secco, ma non è sempre vero; siamo comunque sul mare, e ogni tanto l’umidità si fa alta. Il sole è a picco, caldissimo, la luce intensa. I tramonti sono brevissimi, la notte cala con una rapidità straordinaria, e piuttosto presto. È una terra bruciata, cannibalizzata dal sole, un posto aspro e difficile.
Ecco, in questo posto qui loro sono riusciti a tirar su aiuole verdissime che ancora non capisco da quale acqua siano annaffiate, e un trionfo di tecnologia. Tanto Abu Dhabi che Dubai, i due posti che ho visitato, sono una selva di grattacieli. A Dubai c’è il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, che conta quasi 830 mt di altezza, ma la parte moderna è tutta un trionfo di vetro e acciaio. Abu Dhabi non è da meno, anche se la modernità è meno ostentata, più misurata. Io, personalmente, la preferisco, è una città per certi versi più sobria, ma capisco che Dubai è più d’impatto, coi suoi mall smisurati, le piscine enormi, i marchi dell’extra-lusso esposti in vetrina: Armani, Dolce & Gabbana, Manolo Blahnik (la vetrina di Manolo ormai me la sogno la notte :P ), la Ferrari. Ecco Dubai è un posto straniante; visto il caldo, si vive tanto nei centri commerciali, che sono il trionfo del non-luogo. A parte qualche tocco arabo – splendido – qua e là, potresti essere ovunque nel mondo: per esempio, c’era un negozio di Intimissimi. La gente che ci circola viene da tutto il mondo: tantissimi turisti occidentali, ma anche expat europei, e vagonate e vagonate di immigrati Pakistani, Indiani, Filippini. È una cosa a suo modo unica al mondo, non credo esista un posto simile altrove: è un concentrato di capitalismo e globalizzazione, e per certi versi l’immagine di ciò che gli Emirati pensano sia l’Occidente, dal quale hanno preso tutti gli aspetti più esasperati: il lusso, la moda, i grattacieli.
Poi, se come noi, ti perdi :P , può capitarti di finire dietro le quinte, nella parte di città più povera, in cui vivono gli immigrati. Anche lì è una babele, ma di segno diverso: emiratini e occidentali un giro quasi nessuno, ma tanti altri arabi, e poi Pakistani, e Indiani, e Africani…tutti coloro che rendono possibile lo sfarzo dei mall e dei grattacieli, che li hanno materialmente costruiti e che ci lavorano, nei rami più bassi della catena sociale, però. È un posto strano, pieno di mercatini che vendono roba a buon mercato, di quella che trovi alle fiere di paese o nei negozi cinesi – che qui abbondano – interrotti qua e là dalle moschee, bellissime anche quando sono piccole, dai minareti, da qualche tocco decorativo che ti fa capire di essere nella penisola araba.
Una cosa che ho adorato sono state le spezie; le usano tantissimo in cucina, e in numero e specie assai diverso da quelli cui siamo abituati noi, per cui nei mercati ogni tanto vieni investito da questo aroma intenso e variegato. Puoi trovare i souk seguendo il tuo naso, come ho fatto io al souk moderno di Abu Dhabi, il World Trade Center (sì, lo so, a noi occidentali fa un effetto ben strano questo nome…) costruito da Norman Foster; è una struttura non tanto grande, tutta in legno, che riesce miracolosamente a sposare la modernità con la tradizione. È difficile descriverla, vi consiglio di guardare le foto. E insomma, seguendo il naso sono finita nella parte più tradizionale, piena di spezie in bella vista, coi mercanti che cercano di attirarti al negozio quando passi, e con in esposizione vesti colorate e eleganti abaya. Per carità, una roba turistica di sicuro (anche se gli emiratini ci vanno), ma ben fatta.
Menzione a parte per i dolci: meravigliosi. Deve piacerti, come a me, la roba dolcissima, perché il miele è la base pressoché di ogni preparazione, ma io li trovo straordinari. Innanzitutto c’è grande varietà, e un ottimo uso della frutta secca. I datteri, ve lo dico, sono un’altra cosa rispetto a quelli che arrivano qua: sono molto più dolci, e ce ne sono di diverse varietà, da quelli piccolini a quelli belli grossi. Comunque, a me la cucina araba piace tantissimo, perché è molto varia, e speziatissima. A me piace l’aglio, e loro come contorno mangiano l’aglio arrosto (è buono, fidatevi); ho mangiato piatti riempiti di aglio fino allo sfinimento, e mi sono piaciuti tantissimo. E poi la roba piccante è favolosa. Infine, usano un sacco di melanzane, che io amo. Ecco, culinariamente mi sento araba d’adozione :P
Un’altra cosa che mi ha colpita è stata la pulizia specchiata degli ambienti comuni. Ho visitato la meravigliosa Moschea Sheikh Zayed di Abu Dhabi, e in moschea si entra senza scarpe. Io non avevo i calzini, così sono dovuta andare in giro a piedi nudi. Pensavo sarebbe stata una tragedia, e invece sul marmo avresti potuto mangiarci. Anzi era piacevole la frescura della pietra sotto le piante dei piedi, che ha reso una goduria arrivare poi sul tappeto della sala in cui si prega.

Gli uomini, le donne, l’Islam
C’è chi mi ha chiesto com’è la condizione delle donne negli Emirati. Purtroppo non posso rispondere, perché sono stata troppo poco. So che le emiratine lavorano, e lunedì mattina in aeroporto ci ha portate un’autista donna, credo Filippina. Ho letto che ci sono due ministre donna, e anche una pilota di caccia militari. Le occidentali, per quanto mi è dato di capire parlandone con le italiane che vivono là, fanno più o meno la vita che si fa in Europa. Certo, è un paese con una morale diversa dalla nostra. Nei mall di Dubai le turiste vanno vestite come vogliono, anche in minigonna o con le canottiere, e anche sulle spiagge le ragazze occidentali sono tranquillamente in bikini. Abu Dhabi è più conservatrice, e all’ingresso dei mall c’è scritto che è gradito un abbigliamento consono, ossia gonna al ginocchio e spalle coperte. Non è un gran problema, considerando che al coperto l’aria condizionata fa sì che la temperatura si aggiri sui 20-22°, e quindi un giacchetto fa comodo. In pubblico non sono tollerate effusioni, ma ho visto tranquillamente coppie emiratine tenersi per mano.
Io sono andata in giro anche da sola, e non ho notato alcune differenza di comportamento tra la gente di qua e quella di là. Forse mi guardavano anche meno di quanto la gente non faccia qua in Italia…alla moschea, quando ho ritirato l’abaya (ecco, in Moschea il codice di abbigliamento è molto rigido: no braccia scoperte, no pantaloni attillati, no gonna corta, e testa coperta; ci sono poi accessi diversi per uomini e donne, ma per il resto, ti fanno visitare tutto quel che vuoi, compresa la sala della preghiera, che nella Moschea di Parigi, ad esempio, è off limits), la ragazza velata che li distribuiva ha scherzato sui miei capelli corti, dicendo che le piacevano, e al souk di Abu Dhabi i commercianti mi davano corda chiedendomi da dove venissi. Insomma, io mi sono sentita a mio agio. Ho cercato di vestirmi sobriamente perché tutto sommato mi sentivo a casa loro, e volevo, per quanto possibile, non avere comportamenti che potessero urtarli, ma non ero camuffata da emiratina: ero pur sempre un’occidentale, vestita da occidentale, e seguivo il mio solito stile, che, lo sapete, è un po’ appariscente :) . Ed è andata bene così, non ho vissuto alcun episodio spiacevole.
Le emiratine indossano tutta l’abaya, il lungo camicione nero tipico. Non bisogna immaginare una roba troppo punitiva (non ho loro fotografie perché è considerato maleducato fotografare le donne, figurarsi metterle su internet…); l’abaya è leggera e frusciante, spesso stretta in vita, a volte persino trasparente. In fiera ho visto una ragazza che sotto portava degli audaci leggings neri che si vedevano benissimo in controluce. Inoltre, non c’è un’abaya uguale all’altra: sono quasi tutti nere, ma a volte hanno inserti colorati, ricami, perline, a volte sono direttamente grigie o beige…se volete avere un’idea, ne ho comprata una, e potete vederla qua. Sotto, con le scarpe le emiratine si sbizzarriscono: tacchi vertiginosi, sneakers, roba raso terra…di tutto. Io, per scrupolo, mi ero portata solo roba castigatissima, perché non sapevo che ruolo giocano i piedi in quella cultura, e sono rimasta fregata :P
La maggior parte delle donne porta il velo sul capo, a coprire i capelli, che, mi dicono, sono considerati un elemento di seduzione, e per questo coperti. Il velo lascia il volto scoperto, e in genere è in tono con l’abaya. Credo ci sia un trucco Jedi di qualche tipo per indossarlo, perché a me, nella moschea, cadeva di continuo e dava terribilmente fastidio; a loro non si muove di una virgola, e ci fanno di tutto. Una certa percentuale di donne, poi, porta anche il niqab, ossia il velo che copre naso e bocca e lascia scoperti solo gli occhi, anch’esso nero. Pochissime, perché mi pare di capire sia un elemento molto tradizionale e segno di distinzione e nobiltà, indossa una mascherina metallica su naso e bocca, che credo si chiami burqa; io ho visto di striscio una donna con questo capo, ma sono davvero pochissime. Questo tipo di abbigliamento, però, è tipico delle emiratine. Le altre donne musulmane seguono le tradizioni dei loro paesi d’origine, per cui si vedono anche veli e vestiti colorati.
Le donne quindi sono più o meno una diversa dall’altra; gli uomini emiratini, invece, sono davvero tutti uguali. Portano un lungo camice bianco, detto dishdasha, immacolato, e non so come fanno a mantenerlo tale, e in testa la ghutrah, in genere bianca, ma a volte anche rossa e bianca, quella che io ho sempre chiamato kefiah.
Per quel che riguarda me occidentale, non ero tenuta a portare il velo, e, a parte la decenza di cui ho già detto, ho vestito come volevo. Sono anche stata in piscina, con un tankini, ma altre occidentali erano invece in bikini e nessuno ci trovava nulla da ridire. A Dubai il bikini si vede tranquillamente anche sulla spiaggia pubblica. Le donne islamiche preferiscono coprirsi di più: in genere hanno una muta leggera; io ho visto una ragazza con una maglietta a mezze maniche o giù di lì.
Su quanto l’Islam – che è comunque religione di stato, anche se c’è libertà di professare altre confessioni, ma senza fare proselitismo, che è vietato – influisca sulla cultura generale, al solito, non so rispondere. Credo che l’abbigliamento, prima ancora che un fatto religioso, sia una questione culturale precedente, ma il confine è sottile. Tante cose della cultura italiana sono precedenti al cattolicesimo e poi sono state assimilate, ma ci sono anche elementi che vengono mutuati dalla religione e poi hanno perso la connotazione cattolica. Insomma, è complesso.
Una cosa che mi ha davvero colpita è stata l’adhan, il richiamo alla preghiera del muezzin. Non essendo mai stata in un paese islamico, non mi era mai capitato di ascoltarla: viene recitata cinque volte al giorno, diffusa con microfoni dal minareto. In linea di massima, per la gente del luogo è una cosa normale, e non ho visto nessuno fermarsi a pregare al richiamo del muezzin (ma le moschee sono ben frequentate, almeno per quanto ho visto a Dubai). Per me è stato diverso. La prima volta ho sentito l’adhan alla fiera, durante il – bellissimo, per altro – incontro di Michela Murgia, che si è interrotta e ha atteso che l’adhan finisse. Ecco, in quella cantilena quasi triste, che riempiva lo spazio vuoto della fiera, chiara e armoniosa, ho sentito un richiamo che non mi era affatto estraneo, e che faceva risuonare in me cose che conoscevo. È il senso del sacro, che, nel bene e nel male, appartiene all’uomo da sempre, e probabilmente lo accompagnerà per sempre. Mi sono sentita come certe volte quando entro in Chiesa, ed è stato un momento intenso in cui, dentro di me, sembrava d’un tratto che Oriente e Occidente si toccassero, dimostrandosi meno alieni di quel che si possa credere.
L’ho sentito poi molte altre volte, e ho visto in albergo, e sul volo del ritorno, le indicazioni della direzione de La Mecca, perché il fedele possa orientarsi nella preghiera, ma alla fine mi ci ero abituata, e mi sembrava un po’ come il suono delle campane: un modo per scandire il tempo, tanto sacro che profano.

Tirando le somme
Avrete capito che è stata un’avventura, e un’esperienza di vita. Ho avuto modo di mettermi alla prova, di confrontarmi con alcune mie paure, e vedere da vicino una cultura verso la quale spesso ci accostiamo con grande diffidenza. Andare lontano, vedere usi e costumi diversi, mi ha aperto la mente; è stato un esercizio di tolleranza e di apertura al prossimo, una cosa della quale avremmo un gran bisogno. Inizio a credere che due cose ci possano salvare: la cultura, e il viaggio. Le cose non sono mai come te le raccontano, e devi vederle in prima persona, per averne la tua personale interpretazione; che poi non sarà quella giusta, o quella vera, ma tutto sommato nulla lo è mai. È tutta una questione di orizzonti, e di punti di vista.

Emirati Arabi

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En français

Sicché, ieri sono tornata dal mio viaggio in Francia. Per i meno attenti, ho pertecipato ai Caffés Litteraires de Montélimar, una città nel sud della Francia. Sono stata lì dal 3 al 6 ottobre, e ho fatto tre incontri: due a scuola e uno col pubblico.
Che dire. È stato davvero, davvero bello. Con l’andar degli anni la passione per i viaggi di lavoro mi è andata un po’ scemando: non mi piace stare lontana da Irene, e portarla con me è quasi sempre impossibile, detesto prendere l’aereo. Eppure, ogni volta che vado da qualche parte poi torno davvero contenta di averlo fatto, e stavolta anche di più, perché gli incontri all’estero sono sempre particolari. Innanzitutto, in Italia ho più o meno sempre il polso della situazione, quindi, a seconda del posto dove vado, so quasi sempre cosa aspettarmi da una presentazione. All’estero è sempre tutto un po’ al buio. E poi c’è un piacere particolare nell’essere apprezzati anche fuori dai confini patri: è una sciocchezza, ma mi dà una specie di senso di universalità. Ho l’illusione di essere riuscita a dire qualcosa che appassiona e diverte anche gente che viene da un contesto un po’ diverso dal mio. Certo, le differenze culturali in Europa sono davvero minime, per questo dico che la mia è probabilmente un’illusione, ma è un’illusione piacevole e innocua, per cui mi ci crogiolo volentieri. Comunque, vi dicevo. Montélimar è davvero una bella cittadina, soprattutto il sabato mattina, che è giorno di mercato, e si anima di colori e gente. Ho conosciuto gente splendida e gentilissima, e anche svariati italiani: non si ha idea di quanto l’emigrazione sia stata importante nei decenni passati fino a quando non si va all’estero. Ci sono italiani ovunque. E questo dovrebbe farci riflettere un bel po’…
Ho avuto anche modo di esercitare un po’ il mio francese. L’ho studiato a scuola per otto anni, perché ai miei tempi – ogni volta che dico questa frase, mi spunta un capello bianco, sob… – non si studiava solo inglese, ma, tramite sorteggio, si finiva o nelle classi che facevano inglese o in quelle che facevano francese. E, indovinate un po’? Io stavo in quella di francese. Comunque, il francese l’ho usato due volte in vita mia, eppure devo dire che lo capisco ancora bene. In teoria, almeno a detta di chi ha parlato con me, lo parlerei anche discretamente, ma ho un enorme problema: quando inizio a parlare, mi parte di default il vocabolario inglese, per cui infarcisco le mie frasi di parole inglesi. Devo fare doppia fatica: tradurre dall’italiano all’inglese e dall’inglese al francese. Comunque, probabilmente è questione di pratica, magari con un po’ di esercizio mi tornerà a galla quel che avevo imparato in tutti gli anni di studio. Tra l’altro, a fine novembre andrò a Parigi, quindi probabilmente mi conviene iniziare a esercitarmi fin da ora. Qualcuno vuole fare conversazione in francese con me? :P
Menzione d’onore per una cosa fantastica che mi è capitata a Montélimar (a parte un cous cous meraviglioso che ho mangiato la prima sera, roba da prendere l’aereo solo per andarlo a provare ogni tanto :P ): ho conosciuto David, libraio di origine italiana che ha una libreria per ragazzi che si chiama…indovinate? Le Monde Emérgé, per i non francofoni Il Mondo Emerso. No, non è un caso. L’ha aperta dieci mesi fa e l’ha chiamata così in onore alle mie storie. Lui è una persona squisita e la libreria è un posto davvero delizioso. Sono davvero, davvero onorata. Segue foto esplicativa :P .
Insomma, è stata proprio una bella avventura, che sarò ben lieta di ripetere, anche se in contesto diverso, a novembre. Inoltre, a volte è utile guardarci da lontano; il francese lo leggo senza problemi, per cui ho potuto farmi un’idea di quel che dicono di noi, e di com’è la situazione da loro. E, non poi tanto incredibilmente, abbiamo molti problemi comuni, e simili punti di vista. Non a caso facciamo parte della stessa famiglia europea.
Bon, à la prochaine fois!

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Gli ultimi sgoccioli

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Un tuffo dove l’acqua è più blu

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Altre istantanee

Come al solito, dopo le immagini, torno a mezzi espressivi che mi sono più congeniali.
Ero già stata a Palermo, ero già stata in Sicilia, e sono stata contenta di esserci tornata. Non so, è un luogo che amo molto. Innanzitutto per motivi letterari: la patria di Pirandello, l’autore della prima opera che vidi a teatro – per la cronaca, I Giganti della Montagna – e alla cui filosofia devo molto come persona, il luogo natale del mio amato Montalbano, la Sicilia di Verga…Poi per i dolci. La pasta di mandorle è il mio dolce preferito, per tacere di cannoli e cassate. Poi…non lo so. È mediterraneo allo stato puro. È Grecia, è Roma, è saracena, è luce. Avete mai fatto caso alla luce, a quanto è intensa, a quanto è, non so, diversa da qui?
Lo sapete, io sono più il tipo nordico. Ma le radici sono nella Magna Grecia, e quando scendo sotto la linea gotica mi sento sempre a casa. Ci sono cose che possono succedere solo in città come Napoli e Palermo, solo in posti così intensamente mediterranei, figli di una cultura necessariamente bastarda, che hanno visto gli invasori passare, e mescolarsi fino a confondersi. Quella schiettezza di certa gente di mare, quella simpatia istantanea verso il viaggiatore, quel calore che si spiega solo così, col destino di un popolo nato dalle contaminazioni dei mille altri che l’hanno dominato.
Palermo è decadente. Ma non lo dico in senso negativo. È la bellezza sfatta, eppure fulgida, di una donna stanca. Per certi versi l’ho trovata grandiosa come Roma, coi suoi palazzi imponenti, di quel barocco contaminato quasi sempre da quel tocco d’arabo, le chiese che a volte sembrano moschee, una capitale, a suo modo. Poi giri l’angolo, e ti ritrovi davanti a vicoli pericolanti, a palazzi abbandonati. E ti sembra di essere finito nel fantasma della città che fu. A volte sembra una città erosa dal caldo e dalla luce, immersa in quel caos tipico dei posti di mare: Napoli, ancora, Barcellona, Atene, che pure dal mare dista un po’.
Mi ci sono consumata i piedi, come quasi sempre, quando visito un posto nuovo. E ho cercato di farmela entrare negli occhi. A volte preferisco fare così, piuttosto che andare in giro per luoghi famosi: sono sempre un po’ a caccia di sensazioni, spesso più che di nozioni.
In ogni caso, non mi sono fatta mancare quei tre o quattro posti must: il Palazzo dei Normanni, la Cattedrale, e la Cappella Palatina. Splendidi tutti i e tre. Quando giro per l’Italia ritrovo, se non il patriottismo, che proprio non mi appartiene, quanto meno l’orgoglio di vivere in un posto in cui ogni vicolo, ogni angolo cela una bellezza segreta. E dove un paese non è mai uguale all’altro. In questo siamo davvero unici al mondo.
Per il resto non c’è molto altro da dire. Ho rischiato di litigare con una principessa, ho rispolverato con tanta nostalgia i miei attrezzi da divulgatrice, ho guardato Irene tutta contenta di stare in un posto nuovo da scoprire. E ho vissuto a pane e caponata per tre giorni.

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Matera

Debiti
La prima cosa che bisogna fare è riconoscere i propri debiti. Io ne ho accumulato una pila altissima. Nei confronti di chi mi ha accompagnata e sta continuando a farlo in questa avventura della scrittura, a tutti i miei lettori, che si limitino a leggere le mie storie o mi cerchino, mi parlino. E mi facciano dei regali. A Matera ne ho ricevuti due, bellissimi. Uno è uno splendido draghetto per la mia collezione, l’altro è un meraviglioso portafoto che è stato realizzato a mano. Non vedo l’ora di stampare una bella foto di Irene e Giuliano e mettercela su.
Grazie, ragazzi, grazie tantissimo. Il segno tangibile di quanto le mie storie vi appassionino è in assoluto la gratificazione più forte per me.



Il premio

In genere, io cerco sempre di sminuire tutto. Il successo, gli attestati di stima, le cose che vanno bene. Forse mi serve, non lo so. Vivo come se tutte queste cose non ci fossero, cercando di sminuire tutto quello che faccio. Non è che mi ci impegni. Mi viene naturale. È il mio modo di essere. Non c’è prova che possa convincermi del mio valore, perché comunque c’è sempre chi è migliore di me, c’è sempre una ragione per cui quello che faccio non va bene.
Eppure, sotto il freddo di una serata decisamente autunnale, seduta in prima fila in attesa del premio, per qualche minuto sono stata orgogliosa. Non so come sia successo, nonostante tutti i miei tentativi di boicottarmi anche questo momento. Eppure ero contenta. Lo sono stata quando sono salita sul palco, lo sono ancora quando apro la custodia della collana e la guardo. Poi, certo, le solite paranoie sono tornate a trovarmi quasi subito: la preoccupazione per i progetti a venire, la paura che tutto questo possa finire da un momento all’altro, le miriadi di piccole ansie che avvelenano le mie giornate. Ma a volte bastano anche quei dieci minuti in cui sei soddisfatta, a farti tirare avanti per un anno intero di sessioni pianti, insicurezze e fatica.



Matera

Matera è un posto difficile da descrivere. È difficile persino da fotografare. Sfugge alle definizioni, sguscia via tra uno scatto e l’altro, tra parola e parola. Bisogna andarci. Per godere il silenzio assorto, che vibra però di continuo, agitato da una vita sotterranea, come sotterranei sono i Sassi. Una città in cui mattone e pietra si compenetrano, in cui è impossibile capire dove finisca una e dove cominci l’altro. Case che entrano l’una nell’altra, una sopra l’altra, connesse da vicoli e scale tortuose, come in quadro di Escher. E anche le zone disabitate, punteggiate dal verde della cicoria che cresce tra lastra e lastra, sull’impiantito, risuonano di un silenzio trattenuto, come se la vita non fosse davvero scomparsa, ma si fosse nascosta più a fondo, sottoterra.
È un posto unico al mondo, che va attraversato in silenzio, assorti, in modo da catturarne la bellezza selvaggia, caotica, che sfugge a ogni definizione.
Devo tornarci. Sono riuscita solo a fare una passeggiata il pomeriggio, e invece sento che ha tantissimo da darmi. Sento che uscirà fuori in quel che scriverò in futuro, in un modo o nell’altro. In fin dei conti, Matera è un po’ come Minas Tirith.

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Nostalgia

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Morte e vita

I cimiteri mi hanno sempre messo l’angoscia. Fin da piccola, quando passavamo sulla sopraelevata e sbucavamo al Verano, con tutte quelle fioche luci che accendevano la sera, a me mancava l’aria. E così quando andavamo a cimitero a Benevento o a Colle.
Credo siano i fornetti. A Roma si chiamano così le tombe in condominio; avete presente, no? Quelle grosse costruzioni in cemento armato, con vari piani, e dentro decine e decine di piccoli loculi, che se hai sfiga il caro estinto è al decimo piano, e per mettere un fiore devi prendere la scala. Uno in condominio ci passa tipicamente la vita, perché ci deve stare anche da morto, mi chiedo? E poi nel cemento, murato, a svariati metri dalla terra, quella alla quale, secondo le scritture, dovresti tornare. Invece torni la calcestruzzo, in una tremenda quadratura del cerchio: in fin dei conti, vieni già dal cemento armato.
Comunque.
Qualche giorno fa ho fatto un’altra lunga passeggiata. Ripida, soprattutto. Conduce ad una piccola chiese un tre chilometri – e 400 metri più su – dal paese, S. Giacomo. È stata a suo modo un’impresa. Con Irene sulle spalle eravamo stanchissimi, la pendenza si fa sentire tantissimo, e la chiesa ci sembrava un dannato miraggio in cima alla montagna. Poi il bosco si è aperto in una radura minuscola e la chiesa era là, bianca, il campanile alto e sottile.
Come succede spesso da queste parti, nel recinto della chiesa c’era un cimitero. Un cimitero completamente diverso da quelli cui sono abituata io. Una trentina di croci in ferro battuto o in legno, infisse nel terreno appena smosso, su cui erano piantati fiori di vario genere. Era tutto un ronzare di api che andavano da una corolla all’altra.
È strano, ma non c’era niente di angoscioso in quel posto. Sono entrata, e l’aria non mi è mancata. Ho passeggiato tra le lapidi, in quel posto d’infinita pace: gli affreschi naïf sulle pareti della chiesa, i fiori, le croci, le iscrizioni in caratteri gotici. Pochi cognomi, ladini o tedeschi. Foto di vecchietti sorridenti, moglie e marito. 1873, 1964. Due guerre mondiali, epidemie e carestie. Vite forse consumate del tutto tra questi monti. Quanti di loro avevano mai visto altro, oltre al Sassolungo, alla neve, alla fame, alla vita dura? Un vecchietto con un cappello in feltro, un giovane di una ventina d’anni con un volto d’altri tempi. La tomba di alcuni bambini morti piccolissimi tra il 1916 e il 1918.
Ecco, non fosse stato per quei bambini, forse non avrei tremato neppure un po’, lì dentro. Era il cimitero di Spoon River, un microcosmo in cui raccogliere brandelli di vita. Quante storie in un fazzoletto di terra, storie che forse nessuno conosce più, ma che ancora regalano fiori ai monti, in primavera. Non ho mai sentito la morte come qualcosa di naturale. Ma a volte ci sono luoghi in cui la vita ti appare cosí terribilmente semplice, così tremendamente forte, dalla nascita a quella croce di ferro battuto, a guardare il sole sul Sella d’estate, e a dormire sotto la neve d’inverno, che forse puoi fare i conti persino con la vecchiaia e la morte. Guardi i volti sorridenti di due vecchietti, moglie e marito, e pensi che ci metteresti la firma.
E forse, dopo tanto che non ci pensavi più, per mancanza di fede, e per una curiosa disabitudine alla speranza e una tendenza al pessimismo, d’improvviso trovi Dio dove non te l’aspettavi.

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Poststeig

A me il trekking piace. Se ci pensate è un’attività estremamente fantasy: sa di bei tempi andati, con questo muoversi lento, a piedi, in mezzo alla natura, come dire straniero in terra straniera. E poi c’è quest’idea della meta: esci, e lo fai con lo scopo di raggiungere un obiettivo, che sia la cima del monte, un rifugio o il paese accanto. E quando arrivi sei stranamente soddisfatto, come quando qualcosa di difficile ti riesce bene a lavoro, o hai scritto una cosa che per l’ora successiva ti soddisfa. E insomma, quando posso faccio trekking. È una delle ragioni per le quali di recente vado in vacanza in montagna invece che al mare.
Ora, un bel giorno s’è deciso di fare un trekking classico della Val Gardena: il poststeig, o sentiero della posta. Si tratta di una via che costeggia uno dei costoni della Val Gardena, e nello specifico, ad esempio, connette Ortisei a S. Pietro, un paese poco distante. Ne avevamo fatto qualche giorno prima un pezzettino, c’era sembrato molto bello, e abbiamo pensato di provare l’impresa.
Molto bello è riduttivo. Sali quei dieci gradini che dalla strada asfaltata conducono al sentiero e sei in un altro mondo. La civiltà non è molto distante: quasi sempre si percepisce il suono della statale, a valle. Ma ti sembra di essere distante milioni di chilometri, di trovarti in un posto primordiale, nel quale ti muovi come un invitato a malapena tollerato. Intendiamoci, i boschi della Val Gardena non mi hanno mai comunicato quel senso di selvaggio, di ostile del Lago di Albano, per dire, o del Parco Nazionale d’Abruzzo. C’è sempre qualcosa di accondiscendente, di materno nei boschi della Val Gardena. Ma resta il fatto che si tratta di foresta fitta, in cui la luce penetra piano, filtrando tra ramo e ramo, in cui ti sembra sempre ci sia qualcosa in attesa che ti scruta. Un bosco benevolo, ma pur sempre un bosco, una dimensione nella quale l’uomo mette piede a suo rischio e pericolo.
Il sentiero è abbastanza confortevole, i punti più impervi sono recintati da ringhiere di legno, eppure non mancano le emozioni. Innanzitutto c’è l’acqua, tanta. Filtra dal terreno, scende a valle in torrenti gagliardi, che guadi grazie a malferme passerelle di legno o una lastra di pietra messa lì a bella posta. Poi ci sono le frane. Parecchie. Pendii aspri che interrompono il bosco, aprendo squarci di sole nel regno della penombra perenne, cicatrici bianche di pietroni che tagliano in due il verde del sottobosco. Il sentiero scompare sotto le pietre, e ti tocca intuirne il percorso. Sotto di te, una fuga di alberi sradicati e pietrisco conduce a valle, sopra, la vertigine della roccia franata. Io, che sono imbranata, ho usato anche le mani per avanzare.
Ci sono frane recenti, bianche, apparentemente più malferme, e altre antiche, coperte di muschio verdissimo, le pietre ormai incistate nella terra, parte integrante del panorama. Per esempio, c’era un masso enorme bloccato da un albero, completamente coperto di muschio: la tana di Totoro. Mancava un pezzo, che probabilmente s’era staccato durante l’apocalittica caduta, e che giaceva una decina di metri più a valle.
Poi, qua e là, lo strapiombo si apre alla tua sinistra, il richiamo del vuoto appena trattenuto da parapetti di legno. Sotto, un precipizio verdissimo, gli alberi letteralmente aggrappati ai lembi di terra. Davanti, i dirupi scoscesi e verdissimi dell’altro versante della valle.
Nonostante la pendenza sia bassissima, e il sentiero tutto sommato confortevole, in alcuni punti sono stata inquieta, e mi sono stancata, come è giusto che sia. Fa parte dell’esperienza. La natura è questo, è altro da noi, è qualcosa che c’era prima di noi, ci sarà dopo: resta generazione dopo generazione, contende all’uomo ogni spazio libero, riconquistando terreno non appena si abbassa la guardia. Non è più qualcosa che ci riguardi. Piuttosto è qualcosa che si ammira in silenzio.
Ok, confesso che a S.Pietro non ci siamo arrivati. Dopo un’ora e mezza di cammino e con la prospettiva di altrettanta strada ancora da fare, siamo scesi a valle a Pontives. Da lì, l’autobus fino a Ortisei. Ma tutto sommato non ha avuto davvero importanza. Ha contato piuttosto la fatica, lo stupore, la bellezza.
Qui sotto, un paio di fotone esplicative. Io questo sentiero ve lo consiglio: noi l’abbiamo fatto con Irene al seguito, quindi non è straordinariamente impegnativo, ed è meraviglioso.

P.S.
Lunedì, giuro, svelo cos’è il progetto top secret :P

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A bugs Life

Mi rendo conto che un post del genere ha dello sconvolgente per una persona come me, ma a quanto pare non mi conosco bene come credevo.
La mia fobia per insetti e ragni è ben cognita. Arrivo al punto che anche le farfalle non è che proprio mi esaltino. Eppure in questi giorni ho avuto parecchi incontri ravvicinati con fauna dotata di esoscheletro. Non solo non mi ha fatto né paura né impressione, ma mi sono data anche alla fotografia della stessa, ponendomi in posizioni assurde, con lo zoom al massimo, e, soprattutto, a due passi dai suddetti insetti.
Non so. Forse quando li vedo a casa loro li percepisco come meno minacciosi. Forse è vederli dentro casa o giù di lì che me li fa odiare. In giro per boschi li guardo incuriosita e stupita. Oggi sono addirittura passata vicino ad un’arnia ronzante…
Comunque, qui sotto un campionario dei miei incontri ravvicinati col nemico.

P.S.
In effetti, non ha più senso giocare col progetto top secret. Alcuni di voi hanno indovinato. Chi, ve lo dico la prossima volta. Assieme al disvelamento del suddetto progetto. Intanto vi dico solo che il libro illustrato delle Guerre uscirà in autunno, e che i testi ho finito di scriverli poco prima di andare in ferie.

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