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La Volpe

“Che cosa vuol dire addomesticare?”
“E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro’ per te unica al mondo”. [...]
La mia vita e’ monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio’. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara’ illuminata. Conoscero’ un rumore di passi che sara’ diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara’ uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu’ in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e’ inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e’ triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sara’ meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e’ dorato, mi fara’ pensare a te. E amero’ il rumore del vento nel grano…”

Antoine de Saint-Exupéry – Il Piccolo Principe

Sabato scorso sono andata nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Sono andata principalmente per vedere il foliage (ossia per vedere il cambiamento di colore delle foglie autunnali), ma anche con la segreta speranza di vedere qualche animaletto in giro. Gli orsi stanno facendo scorte per l’inverno, e in teoria dovrebbe esserci in giro meno gente che d’estate, per cui gli incontri con la fauna dovrebbero essere più facili.
Quando ho iniziato ad inoltrarmi per la Val Fondillo, uno dei posti più belli e accessibili del parco, assieme ad una comitiva di bambini vocianti, ho un po’ perso le speranze. E invece, dopo neppure un chilometro percorso lungo il fiume, è apparsa lei. Una volpe. Stava in cima ad una collina, ci guardava e sembrava aspettarci.
In passato mi è capitato di avere incontri ravvicinati con gli animali selvatici, per cui ho messo in atto le solite precauzioni: avvicinati poco e piano, non parlare. Tutto inutile. La volpe non solo davvero ci stava aspettando, ma era incurante dei bambini vocianti e della folla.
Dopo un primo momento di vaga diffidenza, in cui si è tenuta sull’altro lato della strada rispetto a dove ci trovavamo noi, la volpe ha preso confidenza. Si è avvicinata, si è fatta ampiamente fotografare, si è messa in posa davanti ai bambini. Quando la folla si è un po’ diradata, ha deciso che io e la mia famiglia eravamo simpatici. Come potete vedere dalla foto, si è avvicinata tantissimo, e, quando le ho porto l’avambraccio perché lo annusasse, mi ha presa per la manica e ha tirato un po’. Avevo una giacca a vento e una felpa, ma ho un po’ sentito la pressione dei suoi dentini sfiorarmi la carne (e che dentini). Mia madre a quel punto s’è spaventata, e le ha tirato una mela per farla allontanare. La volpe se l’è presa ed è filata via, mentre io già cominciavo a macerarmi tra i sensi di colpa.
Comunque, la cosa sembrava finita là. Invece, dopo un po’, la volpe è tornata, e ha fatto un bel pezzetto di strada nel bosco assieme a noi. Era strano, perché sembrava volesse essere seguita. Si è messa anche a tirare il giacchetto di Giuliano. A un certo punto mi sono messa dietro di lei, e lei si girava a guardare dov’ero. Poi, ad un certo punto, ha attarversato il fiume, ha bevuto, e se n’è andata.
È stata una delle esperienze più belle della mia vita, ovviamente. Mi era capitato già in passato di vedere da vicino una volpe; aveva fatto amicizia con un signore che stava ristrutturando una vecchia casa nel bosco. Quella però era un po’ più schiva. Questa mi ha guardato negli occhi, e, non lo so, è una sensazione difficile da descrivere, quando un animale selvatico si fida così tanto di te. Poi c’era anche Irene, e mi fa piacere che sia riuscita a vivere un’esperienza così intensa. Adesso va in giro con una foto che la ritrae vicino alla volpe e racconta la storia a tutti, giocattoli compresi.
Allo stesso tempo, però, mi chiedo se non abbiamo fatto danno. Non è normale che un animale selvatico sia così confidente verso l’uomo. Mi domando perché non avesse paura, se questo comportamento non le si ritorcerà prima o poi contro, non so capire se è una cosa bella o brutta. Noi siamo stati il più possibile discreti (a parte la mela, sob…), abbiamo cercato di rispettarla e abbiamo lasciato che fosse lei a venirci incontro, ma chissà se troverà invece in futuro qualcuno che approfitterà della sua buona fede. E, al tempo stesso, non le abbiamo fatto del male con la nostra sola presenza? Non dovrebbero essere, il suo e il nostro, due mondi che non dovrebbero toccarsi, ma guardarsi solo da lontano? Non lo so. Però la foto che ho messo lassù finirà su una parete di casa mia, lo sento. E continuerò a sentire a lungo la forza lieve dei suoi dentini sul mio braccio, e i suoi occhi rossi, bellissimi, pieni di cose che non sono e non sarò mai in grado di capire.
Se vi interessa, qui altre foto sue e del foliage nel Parco. Se c’è qualche etologo all’ascolto, mi farebbe piacere che ne pensa di tutta quest’esperienza.

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La Fata Turchina, o Nihal che dir si voglia

Sono cresciuta coi cartoni animati giapponesi, come gran parte delle persone della mia generazione. Ricordo che fin da piccolissima la cosa che mi colpiva di più erano i colori dei capelli dei personaggi; quelli che vedevo intorno a me (biondo, castano, moro…) erano la minoranza, a fronte delle frotte di personaggi coi capelli verdi o blu. E non si trattava solo di alieni o gente che viveva in mondi fantasy: tutti avevano i capelli di colori strani, anche le persone normali. Ovviamente, ero invidiosa: sarebbe stato bellissimo se anche nel mondo reale fossero esistiti capelli di tutti i colori.
Questa cosa apparentemente banale e anche un po’ stupida evidentemente ha scavato in me assai più profondamente del previsto, perché alla fine credo sia alla base della mia scelta di mettere nei miei libri personaggi con colori di capelli improponibili. Quando mi trovai di fronte alla costruzione del mio primo personaggio vero – non conto quelli dei miei racconti d’infanzia o delle robe che ho scritto prima delle Cronache – ci volli mettere tutto quel che mi attirava di più. Così, Nihal si ritrovò coi capelli blu e gli occhi viola, altro mio feticcio.
Dopo il successo delle Cronache, l’idea di farmi i capelli blu mi ha accarezzata parecchie volte. A trattenermi ci sono state ragioni di volta in volta differenti: la paura di rendermi ridicola, il congresso vicino, per il quale volevo sembrare possibilmente una persona seria, e via di scusa in scusa. Scuse, appunto, perché vengo da un mondo che mi ha sempre insegnato che l’apparenza, tutto sommato, conta relativamente, e la tinta dei capelli non qualifica la persona.
Da due anni sono sostanzialmente una libera professionista che lavora in un campo in cui l’eccentricità è all’ordine del giorno. Ho trentatré anni e ho finalmente fatto i conti col mio corpo e la percezione che ne ho. E, soprattutto, quest’anno fanno dieci anni che Nihal non è più creatura solo mia. Anzi, a dire il vero da un bel po’ praticamente non mi appartiene più, e vive piuttosto nel cuore e nella fantasia dei lettori che l’hanno amata. Insomma, era giunto il momento.
Finalmente, ho portato i cartoni animati nel mondo reale, e ho realizzato un’ambizione che avevo da bambina. È stato un processo lunghissimo, in parte, devo dire, pure un pochino doloroso, per cui non so se lo rifarò a breve, ma per un mesetto andrò in giro come da foto. Quindi, nelle prossime presentazioni, se ci faremo delle foto, saranno limited edition :P . Un’occasione in più per incontrarci, ad esempio sabato 14 Giugno, ore 18.00, a Rimini, in occasione di Mare di Libri, presso la Sala dell’Arengo. Prenotazioni qui :) .

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Battesimi

In famiglia siamo praticamente tutti amanti dell’inverno. Le più appassionate siamo io e mia madre, ma anche Giuliano fa parte del novero, e Irene mi sa che si sta avviando sulla stessa strada, visto l’amore per le copertine sotto cui infilarsi sul divano e la passione recente per il cappello da Babbo Natale. Ci piace il freddo, ci piace la montagna. Eppure, per essere così appassionati di gelo, siamo stranamente devoti all’acqua.
Oggi diventeremo praticamente una famiglia anfibia. Oggi, infatti, Irene farà la sua prima lezione in piscina. Al momento di scegliere uno sport da farle praticare, non ho avuto neppure un dubbio: perché io adoro nuotare, perché, anche per ragioni di sicurezza, è meglio saperlo fare, e prima lo impari meglio è, e perché se sai nuotare ti si apre letteralmente un mondo intero. Spero le piacerà, ma non mi faccio troppe illusioni: quand’ero bambina odiavo andare a nuoto, tranne poi rivalutare il tutto verso i tredici anni, quando divenne il mio sport.
Comunque, se Irene oggi scoprirà il mondo della superficie dell’acqua, io ho il mio battesimo con l’autorespiratore: dopo lo studio teorico, oggi faccio la prima lezione sub in piscina. Lo so che mi immergo in un posto che mi è familiare ben più del 90% dei posti che frequento in superficie, lo so che non è niente di che, ma, ahò, per me è l’inizio, per cui sono eccitata e emozionata. Per un’immersione in due metri di acqua col cloro. Ma non è per questo che mi rende adorabile? :P . Seee, me piacerebbe…Comunque, ieri ho anche comprato la muta. Ahimé, non ne fanno à la Lady Gaga, ossia strane/buffe/colorate/assurde, e mi sono accontentata di una con dei disegnini su braccia e gambe. Perché vabbeh la comodità, ma l’estro vuole sempre la sua parte. L’ho indossata tre volte in dodici ore. Forse dovrei darmi una calmata.
Al quadro occorre aggiungere mia madre, che da ieri è entusiasta allieva di un corso di acquagym, Giuliano, che non lo vuole confessare, ma, dopo esserci stato costretto da me, inizia a godersi le due due nuotate settimanali, e mio padre, che viene anche lui in vasca due volte a settimana assieme a me.
Che ci volete fare, in noi il richiamo delle origini primordiali della vita è forte. Il fatto è che io sono molto più a mio agio in acqua che fuori. Se fuori sono goffa, mi faccio male facilmente e ho scarso controllo del mio corpo, in acqua tutto cambia. In acqua braccia e gambe fanno finalmente quel che dico io, ed ho quella meravigliosa sensazione di riuscire a muovermi esattamente come voglio, in pace con me stessa e con l’elemento che mi circonda. Mi piace persino l’odore del cloro, che è oggettivamente orrendo.
Se rinasco, voglio essere un lamantino.

nuoto

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Ipocondria, portami via

Di capocciate, nella mia vita, ne ho date un’infinità. Ho esordito a dieci anni con un tuffo plastico terminato direttamente guancia a terra, passando per un’epocale craniata al bar dell’università che mi permise di entrare nelle simpatie di Giuliano. Non so perché, sono sbadata, goffa, soprattutto. Comunque, non ho mai avuto conseguenze di nessun genere. Ho la testa dura, in molteplici sensi.
Mentre stavo su in montagna, ho pensato bene, una sera in cui avevo problemi di trama su un capitolo, incazzata nera, a ora tarda, di spatasciarmi col cranio su un lampadario di vetro e metallo posizionato ad altezza fronte su di un tavolo, nella mia stanza d’albergo. Siccome l’ho preso di taglio, ero convinta di essermi spaccata la testa. Invece niente, un po’ di nausea, un bel bernoccolo che mi ha fatto male qualche ora, e poi tutto come prima. Nei giorni di vacanza rimanente mi sono arrampicata come uno stambecco su e giù dai monti, fino a 3000 mt, ho mangiato fino a scoppiare e son stata benissimo. Poi torno a casa.
Domenica mi sveglio con una bella cefalea, una sensazione generale di malessere e un bel po’ di nausea. E vabbeh, sarà stato il viaggio di nove ore.
Solo che lunedì c’ho ancora il mal di testa. Meno nausea, ma la cefalea è là, e non assomiglia molto agli altri mal di testa della mia vita. A quel punto mi ricordo della botta sul lampadario. Va da sé che mi dedico al mio hobby più deleterio: la ricerca di malattie mortali su Internet. Lo so, fa più morti quella degli incidenti stradali, ma è un vizio che non mi riesce di togliermi. E scopro che, bon, non è che se hai un trauma cranico stai sempre male subito, eh? Ti può succedere dopo qualche giorno, a volte dopo qualche mese.
Siccome sono ipocondriaca, vado dal medico. Non tanto perché penso davvero di avere qualcosa di grave, ma perché sono convinta che mi toglierà dalla testa quest’idea di essermi fatta davvero male con una banale capocciata. Voglio essere rassicurata. Solo che le cose non vanno proprio così.
«Eh…non lo so…dici che ti cambia con la posizione? Eh, non è una bella cosa…poi pure la nausea…no, a volte uno può avere un ematoma anche con un trauma lieve…no, può succedere anche dopo parecchi giorni…che facciamo…che facciamo…senti, se non ti passa tra due giorni, vai a fare una TAC, anzi, te la prescrivo subito così ce l’hai già pronta se servisse».
Immaginate come torno a casa. Pianto e stridore di denti. Ma che davero c’ho un ematoma subdurale perché ho preso a capocciate un lampadario? E ora? Come campo nei prossimi due giorni?
Alla fine decido. Neurologo. Il medico di base ha solo sentito il mio racconto, non ha controllato che neurologicamente sia tutto a posto. Così, sveglia alle 7.00 di martedì mattina, partenza alle 9.00 per raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale di cui è primario il cardiologo di mio padre, che non mi viene in mente altro modo di farmi vedere d’urgenza da un neurologo. Mi vergogno come una ladra? Sì. Però la testa mi fa male e ho di nuovo la nausea.
E quindi niente, alle 11.00 mi fanno passare. Ed entro nel microcosmo ospedaliero. Chiunque abbia mai frequentato un ospedale – e, per ragioni a volte tragiche, a volte liete, a me è capitato svariate volte – sa che punto di accumulazione di storie di vita che sia. Il pronto soccorso, soprattutto, è un mondo a parte. È un po’ un’epitome della vita: entri confuso, attendi senza sapere cosa succederà, e l’unico modo che hai per non farti prendere troppo dalla paura è attaccarti agli altri. Incontro una signora anziana che ha il mio stesso problema, moltiplicato ahimé per mille: è caduta, trauma cranico, solo che la TAC ha rivelato un versamento. Che, per fortuna, è rimasto stabile per 12 ore. Con lei, figlia e genero. Poi c’è un ragazzo piegato in due da un dolore alla schiena, che non riesce a stare dritto. C’è la puerpera a termine che non riesce a fermare un’epistassi. Una signora che ha problemi di varici. Un’altra stesa su una barella, collarino ortopedico, che non fa che ripetere: «Mi ha preso in pieno…mi ha preso in pieno…». Non mi fa un bell’effetto: a gennaio, quando ho fatto l’incidente, ho rischiato di finirci io su quella barella.
La cosa che mi colpisce è il desiderio di condivisione. Le attese sono lunghe, l’incertezza grande, e allora si parla, anche solo per riuscire a star svegli dopo una notte in bianco. Si comincia sempre allo stesso modo: «Lei che ha?». E si finisce a parlare di tutto, quasi sempre, ahimé, di malattia e morte. Ma serve, serve per stare a galla, serve per non pensare, anche solo per ingannare il tempo.
Dopo un po’, il neurologo mi visita. A me, sostanzialmente, basta quello, anche se, mal di testa e nausea a parte, ehi, sto bene. Non sono confusa – sono venuta fin qui da sola in macchina – non sono sonnolenta, ho un ottimo equilibrio e le prove neurologiche faidaté de noantri che ho praticato quaranta volte a casa dicono che sono ok.
Visita, e per fortuna è tutto ok. Però, per sicurezza, si va anche di TAC. Se è ok, mi dimettono subito. Spero in caso mi autorizzino a dar giù di antidolorifici come non ci fosse un domani, perché il medico di base mi aveva detto di evitarli, e il mal di testa non è forte, ma appena mi muovo peggiora, per non parlare della nausea, per cui fare le cose di tutti i giorni sta diventando complicato.
Comunque, il nome TAC mi evoca bruttissimi ricordi, ma io, in prima persona, non ne ho mai fatte. Non ne ho neppure mai visto live il macchinario. L’immagine che ne ho è formata dalla mia cultura telefilmica: immagino questo tubo bariforme nel quale tipo una persona su due ha attacchi di panico. Però, vabbeh, l’ipocondriaca che è in me non fa che ripetermi che fatta questa non ho più scuse per pensare che da un momento all’altro cascherò a terra per ictus fulminante.
Ho ancora un po’ di tempo per parlare coi compagni di sventura, per allungarmi sulla sedia in modo da poggiare la testa un po’ all’indietro, che è la cosa che funziona di più con questa cefalea, per finire il Camilleri che mi sono portata dietro. Poi, mi vengono a prendere.
La TAC non è un tubo, è un anello. Non mi ispira pensieri claustrofobici manco lontanamente, e il lettino mi attira: sono stanchissima, e stesa sto sempre un po’ meglio. Mi infilano e mi fanno a fette la testa. Poi, mi mandano via.
Accarezzo l’idea di poter vedere il mio cervello, che, da quando ne ho memoria, è per me croce e delizia. Mi ha dato tanto, ma, cavoli, è anche capace a volte di fissarsi su pensieri ossessivi, ripropormi all’infinito scene spiacevoli, farmi sorgere ansie assurde. Non so, c’è chi dice che è il prezzo della creatività, forse è vero. Ma mi piacerebbe vederlo, questo grande sconosciuto.
Invece, dopo un po’, mi chiamano e non c’è traccia delle foto. Il mio cervello dovrò continuare ad immaginarmelo. Però le notizie sono ottime: tutto a posto. La cefalea può essere tutto o niente, ma il referto dice “cefalea post-tramatica”. Insomma, ho dato una discreta shakerata al mio cervello, lui s’è giustamente risentito, e pare potrà essere anche cosa lunga, perché vengo autorizzata a dargli giù di paracetamolo fino alla dose massima, e fin quando non starò meglio. Ok, sto. Farò un po’ di fatica, questi giorni, ma mi adatterò. Meglio questo che un ematoma nella capoccia.
Prima mi sfamo, perché sono le 15.30 e sono a digiuno. Pizzetta bianca con tacchino e formaggio, un succo di frutta che il digiuno rende buonissimo, un tramezzino pomodoro e mozzarella.
Torno a casa. C’ho anche un po’ di fotofobia, e il sole romano non aiuta, ma il traffico con me oggi è clemente. Arrivo a casa in quaranta minuti. Prendo il paracetamolo e poi, nonostante figlia urlante, mi butto sul divano. Mi appisolo in due secondi netti. Il sonno del giusto ipocondriaco.

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Istantanee da Torino 2013

Dieci anni
Atterro al mio decimo Salone del Libro di Torino quasi in orario. E c’è anche il sole.
C’era il sole anche dieci anni fa. Pesavo diciotto chili più di adesso, non sapevo neppure esistessero le presentazioni dei libri, giacché, pur essendo una forte lettrice, non ne avevo mai vista una vita mia, e avevo passato tutto il tempo del viaggio a domandarmi se dovessi presentare un discorso o cosa.
Adesso come allora, non ho molto tempo per riflettere: arrivo, e mi getto nel turbine. Torino è così: una sospensione del normale flusso degli eventi, una bolla atemporale infilata nel quotidiano, un gorgo che ti attira e ti risputa fuori dopo due, tre, quattro giorni di fuoco. Un paio di incontri di lavoro, qualche intervista, e via al Lingotto.
Dieci anni fa, eravamo io, Sandrone e Marco Giusti. Essendo io una sconosciuta ventitreenne in sovrappeso, per di più autrice di fantasy, genere vituperatissimo, ci misero giustamente in un angolo della zona dedicata alla letteratura per ragazzi, praticamente davanti ad una specie di bancarella frequentata da frotte di bambini urlanti. Davanti a noi, una ventina di sedie, piene per metà. Farsi sentire era un’impresa, anche coi microfoni. In prima fila c’era seduto un mio detrattore, ed essendo io giovane e parecchio inesperta, il suo articolo mi aveva ammosciata tantissimo. Diciamo che con gli anni ho appreso a prendere un po’ più alla leggera le critiche negative, ma all’epoca non ero così zen.
Nonostante tutto, andò bene. Negli anni precedenti mi ero allenata a parlare in pubblico durante le assemblee d’istituto a scuola: una volta me ne avevano dette di ogni perché avevo espresso la mia contrarietà a continuare un’occupazione di cui stentavo a capire il senso. Figurarsi se adesso avevo paura di dieci persone e duecento bambini urlanti dietro. E andò bene. Fiammetta Giorgi mi disse che toccava ne facessi altre, perché era una cosa che mi riusciva, e per i due, tre anni successivi stetti sempre in giro, un fine settimana sì e uno no.
Oggi entro nell’area Bookstock e mi defilo. Nonostante non abbia una faccia conosciutissima, e non abbia foto sui miei libri, chi mi legge sa che faccia ho, e se comincio a firmare copie ora poi succede un casino, non riesco a far la presentazione, per cui meglio stare in disparte. Perché i dieci astanti di dieci anni fa adesso sono diventati trecento e passa. Un miracolo che è una delle prima domande che mi fanno nelle interviste, e cui io non so mai dare risposta. Semplicemente, non lo so. È andata così. Mi stupisco anch’io, guardate.
La presentazione all’Arena Bookstock è un grande classico: io, Sandrone e Fiammetta. Sono pochi gli anni in cui la formazione è stata diversa.
Entro, e c’è gente, certo, l’arena è piena, ma non più del solito. Non più dello scorso anno, per dire. Ci sono anche i volti amici, che per fortuna non mancano mai, ma ne manca uno che non riuscirò a recuperare neppure nei giorni successivi.
Comincio a parlare, cominciano le domande, tutto va come al solito. E intanto la gente aumenta. Si appoggia alle pareti dietro, si siede sulla moquette, avanza inesorabilmente verso il palco, fino a riempire tutto lo spazio dell’arena. È una cosa che esalta e spaventa al tempo stesso. Le mie presentazioni sono sempre andate bene, ma mai così bene. Non ne sono sicura, ma forse ho fatto anche più gente che a Lucca. E non ve lo sto dicendo per vanteria – o forse un po’ sì, la carne è debole :P – ma soprattutto per ringraziarvi. Dicevo proprio prima di partire che la scrittura è un mestiere solitario. Senza un po’ di solitudine, la cosa semplicemente non funziona. Ma, ad un certo punto, devi uscire dal guscio, e devi vedere l’effetto delle tue parole, o ti sembra di parlare al muro. Devi capire se è valsa la pena farsi ossessionare, e mettere le ossessioni su carta, se è valsa la pena correggere le bozze all’una di notte dopo tre ore di lettura continuativa, devi capire se la passione che ci hai messo è passata. E una sala colma è questo: l’unico premio vero cui uno scrittore può ambire. Più importante del riconoscimento della critica, del premio letterario, di qualsiasi altra cosa, perché non stai scrivendo per quella gente lì, stai scrivendo per i lettori. Almeno, noi di genere scriviamo per questo.
Per cui grazie. È stato faticoso e bellissimo. Fatiche così le farei a giorni alterni, e salterei un giorno giusto per riposarmi un pochino e godermela meglio il giorno successivo. Grazie per l’affetto e la passione, mi confermate che la via che ho scelto di percorrere magari è faticosa, ma porta frutti.
Il filo rosso di questi dieci anni passa per diciassette libri e centinaia di luoghi diversi, che ho visitato fisicamente o solo toccato coi miei libri, è un filo tortuoso e difficile da dipanare anche ai miei occhi, ma l’abbiamo tessuto insieme. Grazie per la fiducia. Grazie per le domande e le osservazioni. Grazie per la condivisione.
Mo’, però, mi aspetto almeno altri dieci anni così, eh? :P

la solita combriccola, insomma

La sala, comunque, ancora non era del tutto piena

Cosplay
Ho ricevuto parecchi commenti sul mio aspetto. Tipicamente positivi. Non sono mai stata una gran bellezza, come evidente dalle mie foto, d’altronde; anzi, diciamola tutta, ho passato la preadolescenza e l’adolescenza a considerarmi brutta, impressione avvalorata dai commenti che mi facevano alle medie, quando mi prendevano in giro per l’apparecchio ai denti. Il complimento è a tutt’oggi una cosa che mi imbarazza: non so che rispondere, una parte di me si domanda comunque “ma sta veramente parlando di me? O forse mi sta direttamente prendendo in giro?”.
Comunque, non era di questo che volevo parlare. Le mie mise al Salone, quest’anno, hanno previsto un uso massiccio del mio haori (ve lo ricordate? È la giacca giapponese vintage che ho comprato un po’ di mesi fa). La gente mi guardava e mi fotografava; devo dire che anche le scarpe vagamente ladygaghiane hanno riscontrato un certo successo, e una certa dose di curiosità, anche. Ma il top credo sia stato raggiunto alla festa cui ho partecipato (ne parlo più sotto); indossavo il solito tubino nero (quello di queste foto qua), con aggiunta di bolerino in pizzo e mezzi guanti sempre di pizzo nero. Completava la mise il rossetto rosso fuoco e questa collana qua. Non ho una foto del tutto, mi spiace, usate un po’ di fantasia. E devo dire che anche questa mise ha generato curiosità e vago sconcerto. E, nulla, ho realizzato che ormai l’estro del mio abbigliamento sta prendendo derive sempre più incontrollate. Sono sempre stata strana nel modo di vestire, ma forse, non so, credevo che sarebbe stata una cosa che sarebbe finita con l’adolescenza. E invece no. Continuo ad abbigliarmi come fossi in cosplay perenne. E non è una cosa forzata: no, è che io sono proprio così. Ho bisogno di mettermi roba che mi piace, che mi rispecchi, anche se è strana, buffa o fuori luogo. 9 volte su 10 sono vestita in modo incongruo rispetto all’evento: troppo sportiva quando occorrerebbe essere eleganti, troppo elegante quando occorrerebbe essere sportivi. Ma ho bisogno di avere addosso qualcosa che mi rispecchi, anche se è eccessivo, e poi la gente mi guarda e mi sento in imbarazzo (tipo in questa occasione). Alla fine considero anche questa un’espressione della mia creatività. Ormai sono il cosplay di me stessa :P .

Un'ora dopo, così ero in fila per andare a salutare Roberto Saviano...

Fiesta!
Poco prima di partire per Torino, fui protagonista sul mio profilo Facebook di questa discussione. No, davvero, in dieci anni di fiere non ero mai andata ad una festa. Non so perché. La verità è che sono sempre stata una donna davvero poco mondana. Anche da ragazzina. La discoteca, per dire, non mi ha mai attratta. Le feste cui partecipavo erano à la Caparezza (ve la ricordate, no? “Serate a tema ben accette, salame a fette spesse, vhs e se non bastasse su le casse”) e comunque non ho mai fatto più tardi delle 5.00, orario che ho fatto tipo tre volte in vita mia.
Solo che, poi, a Torino ad una festa mi ci hanno invitata davvero. E siccome l’invito era di un amico, e sapevo che avrei rivisto una persona cui devo tantissimo e che avevo gran piacere a reincontrare, sono andata. In cosplay da scrittrice dark-erotico-decadente, come vi dicevo. La cosa bella era Giuliano, in cospaly da Giuliano, invece, ossia jeans, giacca sportiva e camicia. La coppia più assortita dell’universo direi. Peccato che Cédric Villani è arrivato poco prima che me ne andassi, perché con lui al braccio avrei fatto un figurone :P .
Comunque. Sono andata. I primi venti minuti, lo ammetto, ho fatto l’effetto tappezzeria, che, stante l’abbigliamento, mi veniva anche bene, devo dire. Me ne stavo là, sottobraccio a Giuliano, senza capire bene il mio posto. È che io, in mezzo agli scrittori seri, mi sento sempre un po’ in imbarazzo. Mi domando cosa pensino di me, non so se sanno chi sono, non so proprio come tentare l’approccio. Poi c’è il dramma “gente che conosco ma non so se loro si ricordano di me, e comunque l’ho visti tipo per cinque secondi otto anni fa: li saluto o no?”. La soluzione, comunque, è banale: bicchiere di vino. Che a me ormai basta abbondantemente per abbassarmi quel tanto che basta i freni inibitori, e darmi quella leggera allegria che tanto mi piace, e non mi fa sentire lo stomaco felpato il giorno appresso. Ho fatto un po’ di conoscenze nuove, alcune inaspettate, ne ho riviste di vecchie, ho mirato da lontano Umberto Eco perché comunque non avrò mai il coraggio di avvicinarmi e anche solo stringergli la mano perché sono fatta così e amen. Ho rivisto Andrea Cotti, col quale ho lavorato ormai troppi anni fa, e continuo a ricordare con piacere e affetto sconfinato il periodo in cui mi ha fatto editing. Ho rivisto Massimo Turchetta, e finalmente gli ho detto quel grazie che gli dovevo da dieci anni. Insomma mi sono divertita. E chi l’avrebbe mai detto. Posso essere mondana anch’io. Però, mo’ non esageriamo, son pur sempre la pantofolaia che tutti conoscete: alle 23.00, i piedi distrutti dal tacco 12 e la fatica della fiera sul groppone, ciao a tutti e son tornata in albergo. Alle 23.30 già russavo. Un passo alla volta, via.

Incontri
Zero
Che sono una fan di Zerocalcare credo sia cognito in tutto l’orbe terracqueo. Non c’è vignetta del suo blog che non linki con passione, sua battuta che non conosca, suo libro che non abbia. Ho anche una dedica assolutamente meravigliosa, procacciatami dalla sempre fantastica Ros, che ormai dovrei eleggere a mia manager per gli incontri coi vipppppssss, perché mi sprona e mi aiuta a vincere la mia devastante timidezza in queste cose.
Quel che mi mancava era l’incontro live. E adesso ce l’ho. Sono andata a fargli la posta assieme a Rossella venerdì sera. Perdonami, Zero, ero consapevole che eri morto di stanchezza, e tutto sommato lo ero anch’io, ma son stata ugualmente spietata :P e ti ho tampinato. Perdonami anche se non sono riuscita a dirti tutto quel che penso della tua arte, che è fantastica, e mi calza addosso come un vestito fatto su misura, ma davvero non sono capace di esprimere quel che penso a parole. Mi viene molto meglio scrivere. Per cui spero passerai prima o poi di qua e leggerai queste quattro righe. Per altro, ci siamo fatti assieme una foto splendida, in cui entrambi sembriamo usciti da un funerale, e a me piace un sacco: non so, abbiamo delle facce diverse dal solito.
Tra l’altro, ho preso Ogni Maledetto Lunedì (su due), e ve lo consiglio tantissimo. Sì, principalmente è una raccolta su carta del suo blog, ma ad unire il tutto c’è una macrostoria che dà un senso diverso e più ampio a vignette che già conosciamo. E quella macrostoria – che è pure a colori – è così bella, è così devastantemente vera, che ognuno di noi ci si riconoscerà. Per certi versi, a me è sembrata la storia della mia vita, soprattutto nella parte finale. Ma è la storia della vita di tutti noi di questa mia generazione, credo. Ci hanno imbrogliati, sì, ma ci consoli sapere che è l’imbroglio più vecchio del mondo, quello che anche noi, un giorno, saremo chiamati a perpetrare sui nostri figli. È la vita, che è sempre più grande di noi, e prima di contemplarla in tutta la sua smisurata e spaventosa grandezza è necessario prepararsi, è necessario credere che sia una cosa semplice. Grazie, Zero, di tutto.

commemoriamo il caro estinto

ZeroZeroZero
A inizio aprile sono andata alla prima presentazione di ZeroZeroZero di Saviano. Anche in questo caso, credo sia cognito in ogni dove che Saviano è uno dei miei scrittori preferiti, del quale apprezzo praticamente l’opera omnia (oltre a possederla tutta). Non l’avevo mai visto dal vivo, e quindi sono andata. In quell’occasione, rimediai anche la firma sul libro.
A Torino ho bissato. Stavolta volevo presentarmi. Che è una cosa semplice, da fare, basta dire un nome. Ma se mi conoscete un pochino, capirete che per me è un’impresa titanica, avvolta da mille dubbi, intessuta di insidie. No, non dite niente. Lo so che è una cosa stupida, ma è più forte di me.
Così, ancora in vestaglia giapponese (grazie a Davide Gigli per la calzante definizione :P ) – abbigliamento che avevo tenuto per le interviste del mattino e per le foto che mi avevano fatto qualche ora prima (a proposito di chiusure del cerchio: mi ha fotografato di nuovo colui che realizzò le mie prime foto ufficiali) – e per altro con le scarpe lady gaghiane, mi sono avvicinata allo stand Feltrinelli dove sapevo avrebbe fatto una firma copie. Stand che era una bolgia infernale. Per fortuna c’era una fila, e mi sono disciplinatamente messa in coda con gli altri.
In fila la situazione devo dire ha raggiunto esiti paradossali: a parte l’immagine di questa tizia in haori con gli zepponi in fila manco dovesse andare ad una festa in discoteca, è passato anche qualche mio lettore, per cui ho fatto qualche foto e qualche firma. Tra l’altro in fila c’era una mia lettrice, e così ho passato l’ora e un quarto di attesa parlando un po’ con lei e con le persone che mi stava intorno. E lì ci siam dette una cosa ovvia, ma sempre bella quando ci pensi: che i libri uniscono. È bella questa condivisione di passione, questa staffetta che passa da scrittore a lettore e poi da lettore a lettore. Ho perso il conto delle cose meravigliose – e anche terribili, ma che mi hanno formata come persona, che mi hanno insegnato tanto – che sono riuscita a toccare coi miei libri: luoghi e persone che mai sarei riuscita a raggiungere altrimenti, realtà distanti, a volte solo nello spazio, ma altre anche nell’esperienza di vita. E Saviano, per altro, è una di queste cose.
Comunque, ve la faccio estremamente breve. È stato davvero bello riuscire a infine a presentarmi, ci siamo anche fatti una foto assieme che ho spammato un po’ in ogni dove. È che è una cosa che speravo di fare da molto. Certo, al solito non sono riuscita a dire un miliardesimo di quel che avrei voluto, ma ormai so di essere più forte nello scritto che nell’orale, e molte di quelle cose sono riuscita a scriverle, quanto meno, ed è già qualcosa. Certo, spero prima o poi di poter fare una bella chiacchierata, ma già l’abbraccio che ci siamo scambiati è stato importante per me. Ho un’ammirazione sconfintata per l’altrui talento, e quando va a braccetto con la forza e il coraggio è la cosa più bella in assoluto.

Quello che ho tralasciato
Tanto, tantissimo. I tre giorni di Torino durano come settimane, mesi di tempo normale. Succedono molte cose, tanti sono i volti, tantissimi i ringraziamenti. Tutti non ci entrano, neppure in un post chilometrico come questo. Facciamo che è come se avessi ringraziato tutti coloro che hanno resi questi giorni così particolari, anzi, questi anni così indimenticabili. Spero sarete con me ancora; questa è solo una tappa, il cammino continua.

P.S.
Scusate la sbadataggine; le prime due foto sono di Rossella Rasulo, così come quella assieme a Zerocalcare. La foto di me nell’acquario (:P) è di Giuliano, mentre quella con Roberto Saviano me l’ha scatta Serafina Ormas.

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Dall’altra parte del cancello

La ragazza con gli stivaloni e il berretto si avvia da sola verso la libreria. Non pensa di fare in tempo, non pensa neppure di riuscire ad entrare. Davanti alla polizia schierata ha il tentatvio di chiedere se dentro ci sono ancora posti liberi per la presentazione di ZeroZeroZero di Roberto Saviano. Poi, semplicemente, si accoda a quelli che entrano. Prende due copie del libro alla cassa – è in missione anche per conto della mamma – e se le stringe al petto tutto il tempo, mentre in piedi, di lato al palco, segue tutta la presentazione.
Vedete, nonostante di lavoro faccia la scrittrice, non è che ha mai visto molte presentazioni, se non quelle degli amici più cari. Questa è la prima in cui è solo e semplicemente una fan.
Ascolta tutto, annuisce, perché tante cose le pensa anche lei, o semplicemente le sembrano terribilmente vere. Ed è contenta di star là, tra la folla, a fare una cosa che la fa tornare là dove tutto è iniziato: lettrice, quello che non deve mai smettere di essere, per continuare a fare quel che fa.
Quando tutto finisce, decide di prendere il coraggio a due mani e fare una cosa che non ha mai fatto: si mette in fila per la firma copie. Anche se aveva detto non l’avrebbe fatto, perché a casa c’è la bimba coi nonni, e non vuole far tardi. Ma si mette in fila, ed è una fila chilometrica.
Aspetta appoggiandosi qua e là, perché la scelta degli stivaloni, sebbene con un tacco non proprio proibitivo, è stata un po’ infelice. La caviglia che si è slogata mesi prima fa un po’ male. Fa caldo, ed è stanca, ma è contenta. In fin dei conti, sta provando a fare i conti con una sua paura, la stessa che, nel 2004, all’inizio dell’avventura, la fece tirar dritta davanti a Umberto Eco, autore del suo libro preferito, perché, semplicemente, non aveva il coraggio di stringergli la mano.
Arriva il suo turno che la libreria s’è quasi svuotata. A Saviano vorrebbe dire tante cose, ma nonostante agli occhi di tutti sembri una discreta faccia tosta, in certe cose è estremamente timida. Si fa firmare le due copie – per sé e per la mamma – e si concede al massimo una stretta di mano, e un ringraziamento, davvero sentito, per tutto, il cui calore spera passi attraverso il contatto dei palmi, e il tono della voce, magari.
La ragazza con gli stivaloni e il berretto riprende giacca e borsa, si avvia verso l’esterno.
Un piccolo passo, si dice, magari la prossima volta spiccico qualche parola in più…
Esce, e se ne va nel vento della città, sulla strada quasi deserta.

P.S.
Ecco, solo per dirvi, la prossima volta che ci vedremo, che c’è poco da vergognarsi, che io sono peggio di voi :P .
La prossima volta, per inciso, sarà al Salone del Libro di Torino, il 17 maggio, ore 17. Sappiate che il 17 è il mio numero fortunato, per cui mi aspetto grandi cose. A presto i dettagli sul luogo.

P.P.S.
Il titolo del post è una citazione di una splendida canzone di Cristicchi, che però parla di tutt’altro.

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Il silenzio delle cose definitive

Pensavo oggi di parlarvi dell’incidente che ho fatto sabato mattina. Per togliermelo dalla testa, perché in genere funziona così: per rendere ormai storia qualcosa che mi è capitato, per poterlo considerare passato, mi serve scriverne. A volte solo per me, più spesso perché anche gli altri leggano, ma devo scriverne.
Solo che adesso, alla prova dei fatti, non so se ne sono capace. Da sabato mattina mi è toccato ripetere la dinamica dei fatti almeno dieci volte, in tutte le salse, e ogni volta diventava una specie di droga, per cui continuavo a parlarne, come se le parole fossero un gorgo, e io ogni volta ci finissi dentro. E ogni volta che ne parlavo, ricordavo cose che, con una certa fatica, ero riuscita a dimenticare.
Intendiamoci: nessuno si è fatto male. Né noi, né conducente e passeggera dell’altra macchina coinvolta. Ma per interminabili frazioni di secondo, durante e dopo l’urto, sono stata invasa da quella sensazione di ineluttabilità, quella netta percezione che stesse accadendo qualcosa di enorme, e contro il quale non potevo far nulla. Il muro, l’urto, l’odore dell’esplosivo dell’airbag, e poi quel silenzio definitivo che scende solo dopo gli eventi spiacevoli, il silenzio del “stavolta l’hai pagata”. E conta poco che invece, questa mattina, la vita non ti è venuta a presentare il conto. Resta la sensazione che avrebbe potuto, e non c’è davvero ragione, se non una smaccata fortuna, se non un sommarsi di stupide coindenza, per cui non l’ha fatto.
Ogni giorno facciamo una decina di sciocchezze. Le facciamo consapevolmente o meno, e non ci fermiamo mai a riflettere sulle implicazioni; per qualche ragione, crediamo ci andrà sempre liscia. E invece, un giorno, fai una sciocchezza che hai ripetuto due miliardi di volte in passato, e la paghi. Perché la vita funziona così, e non puoi farci niente. È questo, probabilmente, più dell’urto, della paura, dello shock, che mi fa rivedere quel palo e quel muro a ripetizione, da sabato mattina.
Non è successo niente. Le macchine si aggiustano, o si ricomprano, anche se, per qualche ragione, mi si stringe il cuore a dover dar via l’auto che mi ha letteralmente salvato la vita. Questo è quello che, a ragione, probabilmente, mi dicono tutti. E invece qualcosa è successo, ma non capisco bene cosa. Qualcosa di spiacevole. Forse deve solo passare un po’ di tempo.
E alla fine sono stata anche capace di scriverne, anche se non come avrei immaginato. Meglio, va’, almeno ho qualche speranza che questa storia della scrittura terapeutica funzioni ancora :P .

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There and back again

Alla fine, contro ogni previsione, siamo andati a Monaco. Irene è guarita in zona cesarini, e abbiamo deciso di fare comunque questo viaggio.
Come ebbi modo di dirvi qualche tempo fa, nella mia testa me lo prefiguravo come un viaggio nella memoria: tornavo là dove avevo passato tre mesi irripetibili della mia vita, a cercare di riacchiappare per i capelli il passato. Solo che la gente cambia, cambiano anche i luoghi, e le cose non si ripetono mai uguali. Così, come per tutti i viaggi veri e belli, non ho per niente trovato quel che cercavo, ma tutt’altro.
Più passa il tempo, più penso che l’amore, almeno per me, è soprattutto condivisione. Si tratta di lasciare eredità, e questo è ancora più vero quando si ha un figlio. Per me non ha senso vivere una bella esperienza se in qualche modo poi non posso passarla a chi amo. Ho bisogno che loro siano con me, ho bisogno di trasmettere loro quel groviglio di emozioni che mi domina, altrimenti non ha senso. Il mio viaggio a Monaco è stato questo.
Da una parte, c’era molto di quel che avevo amato sette anni fa: i profumi intensi e speziati dei Christkindlmarkt, la neve, il freddo polare, e quel qualcosa di inesplicabile che rende per me Monaco unica. Dall’altra, era tutto diverso. Perché c’era Irene.
Alla fine, eravamo andati lì per questo: Irene a Monaco c’era già stata, due anni fa, ma era molto piccola, e poi era estate, e d’estate, non lo so, è tutto diverso, è un posto che non ci appartiene. Adesso volevamo farle vedere com’è la Monaco dove forse tutto è cominciato: se non avessimo vissuto lì tre mesi, se non avessimo fatto quel primo esperimento di convivenza, e non ci fossimo trovati così bene, chissà come sarebbero andate le cose. La nostra storia è passata di lì, per questo Irene doveva vederla.
È stato fantastico vederla impazzire per la neve, esattamente come noi la prima volta che ci siamo stati: tutti a guardarla, perché, per ovvie ragioni, non ci sono molti bambini tedeschi che si facciano tutti i cumuli di neve ai lati della strada per giocare. È stato bellissimo portarla a Nymphenburg e vederla divertirsi con gli uccelli che vivono lì, splendido vederla scorrazzare sotto la casetta di legno che dove giocavano i principi di Baviera, e in cui ho ambientato un pezzo della Ragazza Drago 3. Ed è stato anche bello fare un’esperienza nuova assieme: nonostante ci vivessimo ad un tiro di schioppo, non eravamo mai stati a Hellabrunn, lo zoo di Monaco. Non ho grande attrazione per gli animali in cattività, ma, un po’ la neve, un po’ Irene, siamo andati. E devo dire che è un bel posto: certo, gli animali non sono liberi, ma l’impressione è che, nei limiti della cattività, stiano bene. E poi il posto è meraviglioso, una specie di riserva naturale. Tra l’altro, non avevo mai visto i primati dal vivo, ed è impressionante quanto ci somiglino: guardare negli occhi un orango è come guardare negli occhi un altro essere umano.
Comunque, sono stati quattro giorni fantastici. In qualche modo mi sembra di aver fatto pace con Monaco, di averle trovato un posto nella mia vita: fin qui, ogni volta che ci pensavo, ogni volta che vedevo qualche foto, mi prendeva una sconfinata nostalgia, un desiderio tremendo di andarci a vivere. Adesso mi appartiene in un modo diverso, è diventata davvero quel luogo dell’anima di cui parlavo nel post linkato all’inizio. In qualche modo è la mia città, anche se non ci vivo, anche se ci vado meno di una volta l’anno. Ma tutto quello che ci ho vissuto, tutto quello che mi ha dato, e purtroppo a volte tolto, me la rendono cara.
Con le parole riesco decisamente meglio che con le immagini, ma, se volete, qui c’è un’ampia galleria di foto che ho fatto da quelle parti, comprese quelle di Hellabrunn.
Se si cita Hellabrunn, è impossibile non citare anche Caparezza, per cui, voilà, chiudiamo con un po’ di giocosa riflessione :) .

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Cattive notizie

Vi aggiorno rapidamente sugli ultimi sviluppi: ieri, mentre cercavo inutilmente di fare il passaporto ad Irene (mi hanno rimbalzata tra tre uffici diversi, dannazione…) sono caduta e mi sono slogata una caviglia. Per mettere in guardia le giovani mamme :P , vi racconto la dinamica, così riassumibile: se sapete di dover portare in braccio la prole, e vivete a Roma, dove il 90% delle strade periferiche sono uno slalom di buche e rappezzamenti vari, non mettete i tacchi, nemmeno quelli bassi. Per altro, è la terza volta che cado in questo modo, e quest’ultima mi è stata fatale.
Sono andata in ospedale, a differenza di quando mi scassai la caviglia nel lontano 1992 e feci tutto da me, e lì abbiamo accertato che non ho ossa rotte. Però è una brutta distorsione, per cui mi hanno messo un tutore rigido e adesso mi muovo con le stampelle. La mia gamba ora appare così.

Per fortuna, questa storia durerà, almeno con questo gesso, solo sette giorni, perché, lo confesso, io mi son già rotta le scatole. Pensavo che si trattasse solo di andare in giro con le stampelle per un po’, ma mi sono accorta che le cose sono più complesse: innanzitutto, la caviglia mi fa male se sto in piedi, e poi muoversi con le stampelle è un casino, faccio fatica e mi stanco dopo tre metri. In più, non dormo, perchè con questo dannato gesso non mi posso muovere nel letto.
Insomma, ve la faccio breve: oggi non c’è la faccio a partecipare alla presentazione di Senza Chiedere il Permesso. Mi dispiace moltissimo, era una cosa cui tenevo e chi onorava. Il libro è un libro importante, che vi consiglio e del quale è importante discutere. È un libro di speranza, ricco di proposte concrete per cambiare le cose, un libro che invita all’azione. Mi spiace davvero, ma proprio non ce la faccio. La cosa che mi fa più incazzare è che è tutto frutto di una mia disattenzione, che se avessi fatto portare Irene a Giuliano non sarebbe successo niente. Comunque l’ho pagata, anche se devo dire di essere stata fortunata nella sfiga.
Scusatemi ancora, e alla prossima.

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Vecchia inside

Immaginate sia un’afosa sera d’estate. Immaginate che abbiate appena cambiato il pannolino alla prole, che non ha il pancino completamente a posto. Immaginate anche che dobbiate lavorare ad un piccolo pezzo che vi hanno chiesto per un giornale, poche battute, ma voi siete in difficoltà quando c’è da scrivere poco.
State lì, a cercare la quadratura del cerchio – e a sperare che vostra figlia si addormenti – quando…rumore di amplificatore che si accende, alcune note di pianoforte e una voce calda da pianobar che fa: “Buonasera a tutti!”. Seguono applausi e fischi, e “ROMAAAAA…NUN FA LA STUPIDA STASERAAAAAA…” attacca la voce. Così, a tremila decibel. Alle 22.00 spaccate.
Non ci potete credere. La pupa si muove nel letto. Non solo non ci potete credere, vi iniziate anche ad incazzare.
Ecco, a me è successo, paro paro, ieri sera. Ricordo che quattro anni fa ascoltai con gli occhi a cuoricino la storia del mio amico che faceva la serenata rock a quella che all’epoca era, ancora per pochi giorni, la sua fidanzata. Chissà perché, ora che la promessa sposa abita ad un tiro di schioppo da casa mia, e mia figlia di due anni e mezzo prova a dormire di là, la cosa mi sembra molto, ma molto meno romantica.
Tiro su la persiana, esco sul balcone dopo aver superato il muro da 35° e 99% di umidità che mi aspetta sulla soglia della finestra. E, in effetti, a 200 metri da casa mia c’è un piccolo assembramento di persone sotto una casa. Serenata. Serenata il 23 di agosto alle 22.00.
Rientro in casa imprecando in sanscrito. Almeno la prole sembra dormire. Che devo fa’? Mi metto al lavoro, ecco che devo fa’.
Provo a concentrarmi sulla frase che devo sbrogliare…
“UN VIAGGIO A SENSO SOLO…SENZA RITORNO SE NON IN VOLOOOOOO…”
…ecco, potrei inserire qui il pezzo sul…
“I MIGLIORI AAAAAANNI DELLA NOOOOOOSTRA VITAAAAAAAA…”
…questa parola qui si ripete, no, non va…
“SEI CHIARA COME UN’ALBAAAAAAAA…SEI FRESCA COME L’AAAAAAAAARIAAAAA…”
…se ci mettessi…
“DAI! TUTTI INSIEME!!”.

“E no, cazzo, no! Tutti insieme??? MA CHE CAZZO, SEI A SAN SIRO O IN UN FOTTUTO QUARTIERE DOMRITORIO, E SOTTOLINEO DORMITORIO, DI ROMA????”.

Ecco. Il giorno in cui inveisci davanti al pc contro uno che sta facendo la serenata alla morosa il 23 di agosto alle 22.00, capisci non solo che il romanticismo t’è morto dentro, ma anche che la gioventù è veramente finita.
Ormai sono vecchia inside.

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