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Emilia

Era il 1962 ed era agosto. Mia madre era bambina. Ricorda che era stata una bella giornata d’estate, erano stati in gita con tutta la famiglia. Ricorda mia nonna che urlava “il terremoto, il terremoto!”, ricorda la fuga in strada, ricorda i cavalli del vicino, che sembravano impazziti. Soprattutto ricorda il rombo, che è quello che più incute terrore in tutti quelli che hanno avuto la sventura di trovarsi nel mezzo di un terremoto, ed in Italia questa sventura l’abbiamo avuta quasi tutti. Il municipio del paese venne giù di colpo davanti agli occhi di mio zio, che era poco più grande di mia madre. Dormirono tutti in tenda per un mese.
Vent’anni dopo, mia madre era già a Roma, incinta al nono mese. La cucina si mise a ballare fino a toccarle il pancione. Due giorni dopo sarei nata io, e in Irpinia, di nuovo, le case venivano giù come castelli di carte, anche a Benevento. I miei non avevano il telefono in casa, e dovettero chiamare i parenti da una cabina per sapere se stavano tutti bene, se era “stato brutto”.
Io ricordo il settembre del ’97, il terremoto in Umbria. Sentii due scosse, la prima a scuola, e ci fecero evacuare, la seconda a casa. E ricordo un lieve terremoto a Frascati, durante il mio lavoro di tesi. L’osservatorio che trema e vibra, noi che ci guardiamo stupiti. Non tutti sanno che in quella zona c’è un vulcano, il Vulcano Laziale, sotto i laghi di Albano e Nemi, un vulcano che i geologi non ritengono spento. Nelle campagne ogni tanto ancora succede che dal suolo si sprigionino nubi di gas tossico che uccidono il bestiame.
Ricordo soprattutto la notte del 6 aprile 2009, il letto che trema che per un tempo infinito, quell’orrenda sensazione di essere inchiodati ad un presente che sembra non passare mai, ad un tempo immobile, straniero nella tua stessa casa. Le imposte tintinnano, la casa geme. E il rombo. Il suono cupo della terra, viva, sotto i tuoi piedi. Il brontolio di un essere vivente.
Il terremoto fa parte della vita degli italiani. Sebbene da secoli dobbiamo farci i conti, la geologia ancora non sa prevederlo. La scienza non sa tutto, ma resta l’unico strumento che abbiamo per cercare di capire il mondo. Nel frattempo, forse sarebbe ora di fare reale opera di prevenzione. Perché, purtroppo, il terremoto non si può né sconfiggere né contrastare. Ci si può solo convivere.
Intanto, in cuor nostro, ognuno di noi, in questi giorni, ricorda e capisce.

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Due segnalazioni e un aneddoto

Stanza di Irene, interno giorno. Lei è sul fasciatoio, io la sto preparando per l’asilo. Mi indica il seno.
Irene: «Cot’è quetto?».
Io: «Sono le tettozze della mamma!».
Irene, ridacchia, poi, vagamente preoccupata si guarda il petto: «E a me?».
Io, soffocando una risata: «Eh, tra un po’, Irene, tra un po’…».

Ok, ora che suppongo di aver catturato la vostra attenzione (:P), le due segnalazioni: per chi si fosse perso l’incontro al Salone del Libro di Torino, qui c’è tutta la registrazione. Grazie un sacco ai ragazzi di Fantasy OnAir, coi quali mi scuso ancora per non essere riuscita a dedicare loro il tempo che avrei voluto. L’altra è invece una presentazione: parteciperò ad Anteprime, il mio incontro sarà venerdì 8 giugno alle 19.30 a Pietrasanta, presso il Campo della Rocca. È una bella manifestazione, piena di incontri interessanti – riuscirà la nostra eroina a vederne almeno uno? – e l’ultima volta che ci sono stata, nel 2010, fu veramente una bella esperienza. Insomma, per chi può e vuole, vi aspetto lì.

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Sapori e odori

Nelle ultime due settimane sono stata ostaggio di un raffreddore devastante. Chi mi segue su Twitter se lo ricorderà perché non parlo d’altro. A parte che non respiravo, a parte che mi faceva male metà faccia e la mattina mi svegliavo con dei mal di testa lancinanti, avevo del tutto perso il senso del gusto e quello dell’olfatto. Anche l’udito in verità non funzionava proprio al meglio – e anche ora non è che ci senta proprio proprio come prima, del resto ancora non sono guarita – ma tutto sommato ci sentivo. Coi sapori e con gli odori, invece, praticamente nisba. No al profumo meraviglioso della cameretta di mia figlia, la mattina, quando dappertutto c’è quello splendido odore di bimba. No al profumo della pelle di mio marito sulle sue magliette, quando le stiro, un odore di buono che vivaddio neppure il detersivo sciacqua via. No al profumo del cibo, del dentifricio, dell’aria poco prima e poco dopo la pioggia. Per non parlare dei sapori. Il tartufo, comprato come souvenir di Gubbio, inesistente. L’aroma di menta delle medicine per lo stomaco scomparso. Scomparso anche il gusto pungente della cioccolata, quello asprigno del pomodoro, quello vellutato dei fudges che i miei mi hanno portato da Edimburgo. Tutto si era ridotto a quattro gusti in croce: dolce, salato, amaro, aspro. Tutti per altro percepiti come eco lontana dei sapori che un tempo ero in grado di sentire.
In genere si pensa che i sensi davvero importanti siano due, udito e vista, e non nego che l’invalidità che ti porta perdere uno dei due non è neppure vagamente paragonabile a quella della perdita di olfatto e gusto. Ma vi assicuro che senza la possibilità di sentire odori e sapori si vive malissimo. Senza contare che anche naso e lingua possono salvare la vita, quando ad esempio senti per tempo odore di bruciato o smetti di mangiare un cibo avariato perché ha un brutto sapore. Ma non è solo questo. È che ti manca proprio una dimensione. Percepisci che ti stai perdendo qualcosa, qualcosa che non sapevi neppure di possedere. Non hai più voglia di mangiare, per il semplice fatto che tutto sa di carta. E anche le emozioni sono come congelate, perché nulla attiva ricordi e sentimenti come un profumo.
Da due giorni, tutto sta tornando alla normalità. Sento di nuovo odori e sapori. E d’improvviso tutto mi sembra fantastico. Non ricordavo che l’odore delle rose, nel giardinetto sotto casa, fosse così inebriante. Non avevo mai fatto caso a quanto intenso fosse il profumo dei pomodori secchi sott’olio fatti in casa: l’aroma rotondo dell’olio, quello pungente dell’aglio, quello asprigno del pomodoro. E i sapori, poi…è tutto buonissimo, tutto fin troppo saporito. Il sale è più salato di prima, il gelato al pistacchio più rotondo, ogni sapore portatore di così tante diverse sfumature, quasi stordisce.
È proprio vero che apprezzare una cosa davvero devi correre il rischio di perderla.

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Grazie per avermi permesso di pagare

Succede che cambiando casa tu non sia stata diciamo prontissima a domiciliare tutte le bollette. Succede che con l’AMA, ossia l’immondizia, tu abbia avuto un po’ di problemi, tra dati catastali che non ti tornavano e procedure oscure d’iscrizione. La conseguenza è che all’AMA risulta tu non abbia pagato delle bollette vecchie di due anni. Non c’è problema. Sei una persona onesta, le vuoi pagare, per cui ti armi di santa pazienza e un lunedì mattina vai in banca. Sì, in banca, perché vuoi verificare per bene le domiciliazioni.
Dopo una breve attesa, è il tuo turno. Ok, le domiciliazioni sono a posto.
Tu: “Va bene, allora vorrei pagare le bollette inevase”
Impiegato: “Uhm…mi sa che noi non lo facciamo…aspetta, vado a chiedere”.
Dopo una breve attesa, l’impiegato torna: “No, non le puoi pagare qui, devi andare alla Posta”.
Non c’è problema, tutto sommato l’avevi anche messo in conto. Vai alla posta. Siccome è un giorno tipo di ponte, non c’è molta fila. Arrivi quindi subito allo sportello.
Tu: “Salve, devo pagare delle bollette arretrate dell’AMA”.
Scorri il falcdone galattico di fogli che l’AMA ti ha inviato insieme al sollecito finché non trovi una cosa vagamente somigliante a qualcosa atta a pagare. L’impiegato guarda il foglio e te lo rigira.
Impiegato: “Questo non è un bollettino, è un foglio qualsiasi”
Tu, perplessa: “Non va bene?”
Impiegato: “No, ci vuole un bollettino con su l’importo della bolletta e soprattutto il conto corrente su cui versare i soldi”.
Tu: “Ah. E qui non c’è scritto niente di tutto ciò?”.
L’impiegato, impietosito, scorre i faldoni.
Impiegato: “No. Le conviene chiamare il numero clienti e chiedere a loro”.
Te ne vai mogia. Non hai ben capito. L’AMA vuole da te dei soldi, e vabbeh. Ma non ti dice come farglieli avere, né ti dà un bollettino per pagarli. Nel foglio in cui ti viene spiegato che sei indietro nei pagamenti c’è scritto chiaro: “Per bollette non domiciliate, usare il bollettino allegato”. Il bollettino allegato, però, non c’è.
Torni a casa, e iniziano un po’ a girarti. Non solo devi cacciare dei soldi, ma ti stanno anche complicando il percorso per farlo. Cerchi il numero di assistenza clienti. Che non c’è. c’è il numero generico del comune di Roma. Fai quello.
Ti mettono in attesa con l’immancabile musichetta: dieci minuti di primavera di Vivaldi, intervallati da una voce suadente che si scusa per l’attesa. Tu guardi di fuori: è nuvolo, c’è afa, e fanno 25° alle 10 del mattino. Primavera un cazzo.
Finalmente risponde un’operatrice, che ovviamente, sa il minimo indispensabile.
Operatrice: “Deve andare a pagare alla Banca Popolare di Sondrio”.
Tu: “Ah. Che non ho la più pallida idea di dove sia”.
Operatrice: “Se vuole cerco io: dove abita?”.
Tu: “Punta di Rocca Cannuccia”.
Operatrice: silenzio. “Che zona è?”.
Tu: “Tra Culonia e il GRA”.
Operatrice: silenzio. “No, perché qui ho una filiale al Casilino, una sull’Appia”.
Tu: “Non si preoccupi, cerco io. Piuttosto avrei anche un altro problema: perché sulla bolletta mi vengono segnalate due utenze quando io ho una casa sola?”.
Operatrice: “Eh, ma questo deve chiederlo a loro…va a Via Capo d’Africa, dietro il Colosseo, e chiede a loro”.
E certo. Tu abiti dall’altro lato della spirala rispetto al Colosseo, e non vedi l’ora di attraversare mezza Roma per andare là.
Tu: “Ok, grazie mille”.
Pensi che è comunque grasso che cola: questo è il numero del comune di Roma, roba che quell’operatrice deve essere pronta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda, da come fare il passaporto a come, appunto, pagare le bollette. Già tanto che sapesse dov’è la sede dell’AMA.
Comunque, cerchi su internet bestemmiando in sanscrito. Immaginavi avresti dovuto fare un po’ di coda per pagare queste fottute bollette, ma non che saresti dovuta andare chissà dove in giro per Roma. Finalmente trovi una filiale entro 20 km da casa tua. E quindi, niente, parti. E per tutto il viaggio ti spari Lady Gaga al massimo, così almeno urli e ti sfoghi.
Arrivi. Il civico è il 29. Tu, intelligentemente, parcheggi al 140. Ti fai tutta la via, sotto questo bel cielo grigio cappa à la spleen di Baudeleriana memoria. E arrivi. Provi ad entrare. Ci sono quelle porte lì da banca, che hanno la caratteristica di bloccare gli onesti per due ore, e di far fare grasse risate ai rapinatori. Per entrare devi lasciare le impronte digitali sul lettore, una cosa che t’ha sempre dato ai nervi. Cazzo, sei mica un terrorista! Comunque. Entri, appoggi il dito indice e…e niente. Non ti fa passare. Parte una musica da sala d’attesa, di quelle che in genere preludono al momento in cui l’eroe perde definitivamente la pazienza e sbrocca di brutto. Esci, borbottando che sei arrivata lì dall’altro lato dell’universo per fare un favore alla maledetta AMA, per una bolletta vecchia di due anni, dannazione!
Passante: “Ah signori’, nun ce deve lascia’ er dito, c’o deve solo appoggia’ ‘n attimo e poi levallo, che così funziona”.
Obbedisci, e finalmente sei dentro. Sono le 11.00, sei partita da casa alle 9.10 e finalmente ti sei messa in regola con l’AMA.
Il tuo unico desiderio, ora, è dar fuoco al primo cassonetto che incontri per strada. Ok, sei in torto, ma volevi pagare! Perché, oltre ai soldi, ti devono scucire via pure la pazienza?
Ti consoli con l’unico modo conosciuto. Ti compri un paio di scarpe tacco 12 e va’ a quel paese.

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La difficoltà di farsi un idromassaggio a Roma

Off topici: siccome, nonostante quel che dico a Irene tutte le sere quando le racconto Pinocchio, certe bugie hanno le gambe lunghissime, specifico a chiare lettere che questo è un Pesce d’Aprile. Non sono tradotta in inglese, indi per cui la Le Guin credo non abbia la più pallida idea di chi io sia, e, anche se lo sapesse, dubito fortemente che potrebbe mai essere interessata a scrivere qualcosa a due mani con me. Ne approfitto però per consigliarvi Le Tombe di Atuan, un libro meraviglioso, tra i migliori fantasy – e libri tout court – che abbia mai letto. Confesso per altro che il monastero in cui viene rinchiusa Talitha è un po’ ispirato a quello di Tenar.
La seconda cosa, è che questo aprile sarà abbastanza denso in mie presentazione. A breve le troverete segnalate in homepage; anyway, mi vedrete a Roma e a Gubbio.

Il Post del Giorno: quest’anno io e Giuliano festeggiamo il quinto anniversario di nozze. Dopo aver vagliato varie opzioni, tipo sabato c’è venuto in mente di fare una mezza pazzia: regalarci una notte in un albergo figo di Roma. Può sembrare una cosa strana, ma viviamo nella città più bella del mondo, della quale godiamo il 99% delle cose peggiori e intorno all’1% delle cose belle, per una sera vorremmo invertire il rapporto.
Stabilito il budget, abbiamo tirato giù una lista dei caveat, riassumibili in un’unica richiesta: la vasca idromassaggio per due in stanza. È che l’abbiamo provata in viaggio di nozze – in verità era l’idromassaggio sul ponte della nave, ma era una giornata di vento, non c’era nessuno, e quindi ce la siamo goduta solo noi – e vorremmo ripetere l’esperienza. Non ci sembrava una richiesta particolarmente esosa o eccessiva. Nella nostra ingenuità pensavamo ne avremmo trovati a pacchi, di hotel così. Magari non ci saremmo stati nel budget, piuttosto.
Cominciamo la nostra ricerca. E praticamente da subito iniziamo a familiarizzare col sito medio di albergo fighetto. Che è fatto di orrende presentazioni in Flash e foto che trovi nel vocabolario alla voce “immagini esplicativa di nulla”. Tipo che nella sezione Gallery, invece delle foto dell’hotel, c’è un pregevole servizio fotografico sui monumenti della città. Voglio dire, il Colosseo lo so com’è fatto, del resto ho scelto di venire a Roma, no? Magari mi interessa di più sapere come sono le tue stanze, altrimenti, se il punto è solo stare a Roma, me ne vado ad una qualsiasi pensione di dubbia reputazione che sta alla Stazione Termini.
Ma, per fortuna, qualcuno pubblicizza la mercanzia.
“Abbiamo una splendida stanza arredata da Guru del Design”. Beh, vediamola. C’è una sola foto. Della testiera di un letto illuminata da un neon viola. Fine. Giuro.
“Rilassatevi nella splendida vasca da bagno in stile pompeiano”.
Vado a vedere la foto, perché francamente non riesco a immaginarmi lo “stile pompeiano”. La foto mostra un’inquadratura storta di un asciugamano bianco e due flaconi di bagnoschiuma. Ah beh.
Ma fossero solo le foto…Le descrizioni delle camere a volte prendono tre righe. “Pregiata camera da 20 mt con tutti i comfort”. Sopra, foto di Piazza S. Pietro. L’unica cosa che non manca mai nella descrizione dei bagni è la nota che ti specifica la presenza di “morbidi accappatoi e due paia di ciabatte”. Roba che magari poi il bagno è un cubicolo pressofuso in plastica – esiste, ho le prove – ma dentro ci entrerai con un morbido accappatoio e le ciabatte, vuoi mettere lo stile?
Ma non si tratta solo di questo. È anche che proprio l’idromassaggio per due sembra una rarità a prescindere. Abbondano invece le piscine sul terrazzo privato. Siamo a Roma, no? La città del sole nel paese del sole. E io ho quest’immagine: io che esco dalla piscina sul tetto alle 23.00 del 14 Aprile. Fuori, 10° Celsius. Chissà se nel prezzo della camera è compreso il cameriere che ti scongela con l’asciugacapelli.
Comunque. Dopo un intero pomeriggio di ricerche, siamo riusciti a identificare tre alberghi che combinano un prezzo coerente col budget iniziale e la sospirata vasca idromassaggio. Riusciranno i nostri eroi a prenotare? Lo scopriremo solo vivendo.

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Un po’ come Einstein

Interno sera. Lo studio di una pediatra. Ci sono alcuni bambini, un paio davvero molto piccoli. Uno avrà tre anni, maschio, riccetto, molto vivace. E poi ci sono io, col mio nuovo cappello.
Bimbo: “Perché porti il cappello?”
Io: “Perché mi piace. E poi, vedi?” dico togliendolo, “ho i capelli molto corti, e quindi d’inverno mi serve, che sennò ho freddo”
Bimbo: “E perché hai i capelli così?”
Io: “Mi piacciono, e poi sono comodi. La mattina non mi devo nemmeno pettinare”
Bimbo, pensandoci su: “Secondo me non dovevi farteli così i capelli”
Io: “Perché? Non ti piacciano?”
Bimbo, sorridendo, vagamente timido: “No”.

Davvero, davvero non riesco a ricordare perché non adorassi i bimbi alla morte, prima di avere Irene.

(P.S.
Il motivo del titolo sta qua, più o meno a metà articolo

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Io, un po’ troppi anni fa

Qualche settimana fa, parlando con una mia amica su Facebook, ho tirato fuori questa storia che a sedici anni ero appassionata di Sailor Moon e la disegnavo dappertutto. Massimo Dall’Oglio ha colto la palla al balzo e mi ha chiesto di fargli vedere i disegni. Io mi sono armata di santa pazienza e sono andata a frugare a casa dei miei, alla ricerca di un quaderno del lontano 1996, in cui avevo raccolto un bel po’ di disegni. La ricerca non è neppure stata così complicata; l’ho trovato praticamente a prima botta, esattamente dove ricordavo si trovasse. Tra appunti del Catechismo della Cresima e formule varie, ho ritrovato i disegni. Perché da bambina e da ragazzina disegnare mi piaceva moltissimo. Non ho mai avuto una gran fantasia, ma a copiare non ero male. E mi piaceva tantissimo Sailor Moon. Non so cosa ci trovassi, e del resto sono anni che non lo rivedo. Ma la terza stagione mi faceva impazzire. Anche la prima, a dire il vero, ma avevo visto prima la terza. All’epoca Internet praticamente non esisteva, indi per cui non avevo immagini di Sailor Moon da cui copiare. Per le facce andavo a memoria, per i corpi mi affidavo alle foto del mare di me e mia cugina. Eravamo in costume da bagno, e quindi l’anatomia era abbastanza chiara. E…niente, disegnavo Sailor Moon dappertutto. Ogni tanto intercalavo con l’altra passione, le statue greche. Quando mi piacevano. La Nike di Samotracia mi ipnotizzava, ed ero letteralmente innamorata del Diadumeno di Policleto. Mi domandavo se esistessero al mondo uomini così. Magari.
E insomma niente, era il 1996, scrivevo frasi con “sovente”, disegnavo Sailor Moon e statue greche e ancora non sapevo che quell’estate mi sarei trovata il ragazzo. Sfogliando quei disegni, mi riconosco. C’era già in seme tutto quello che sono adesso. E un po’ mi spiace che poi abbia mollato il disegno. Non che mi riuscisse granché bene, ma mi divertiva e rilassava tanto.
Eccole qua, queste testimonianze di un’ossessione. Giusto per farvi conoscere la ragazzina che ero.

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Run you, fools!

Non accompagno Irene all’asilo da qualcosa come un mese. Prima la solita routine è stata sconvolta da alcune riunioni mattutine di mio marito, per cui dovevamo svegliarci tutti all’alba – relativamente all’alba, per me le 7.00 è l’alba – poi lei è stata male…E insomma, mi è andata a pallino la sincronizzazione à la Fantozzi che mi permetteva di riuscire, in un’ora, a: 1. svegliarmi, 2. fare colazione, 3. lavarmi, 4. vestirmi, 5. nutrire la prole, 6. uscire per andare all’asilo. Il risultato è che ieri ho fatto tardi. Erano le 8.45 e Irene ancora stava mangiando i biscotti, per cui l’ho presa di peso e l’ho portata a lavarsi. Lei ovviamente ha fatto una scena madre che levati sulla perdita dei “bibotti”; io le ho spiegato che glieli avrei dati dopo, ma mia figlia è decisamente per l’uovo oggi, e non si convinceva. Comunque. La lavo, la vesto, e dopo la vestizione del torero, come promesso, le do i due biscotti che c’erano sul seggiolone. Ci apprestiamo ad uscire.
Lei chiama l’ascensore tutta contenta, coi bibotti in mano. Entra, e succede la tragedia. Un pezzo di bibotto cade a terra. Io e Giuliano ci guardiamo per una frazione di secondo, e in quella frazione di secondo si svolge una muta conversazione.
“Cazzo…e mo’?”.
“E mo’ se lo vede sono guai”.
“Lo si butta, allora”.
“Lo si butta”.
tutto detto solo con lo sguardo. Fissiamo entrambi il biscotto.
«Lo butto giù per la tromba dell’ascensore» sentenzia Giuliano, ed esegue.
Purtroppo, però, la prole ha adocchiato il pezzetto di biscotto. Parte il ralenti: il piede di Giuliano spinge il biscotto verso l’abisso, il biscotto, con la sua consapevolezza biscottica, oppone una flebile resistenza, mia figlia, con gesto plastico, si estende braccio teso verso il biscotto. Non appena il biscotto varca la soglia dell’abisso, parte il “Nuooooooo!” disperato di mia figlia, e io ho un flash. Perché la scena è esattamente questa: biscotto…

e mia figlia

A quel punto, inesorabile, parte una mia risata incontrollata, mentre la figlia piange e il padre la consola guardandomi perplesso.
Non lo so, probabilmente noi scrittori fantasy abbiamo qualcosa di bacato nel cervello :P .

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La gioia dell’intimità

Un paio di settimane fa sono andata a tagliarmi i capelli. Sì, mi faccio rasare dalla parrucchiera, perché i capelli vengono meglio e per via di quella specie di frangetta simbolica che porto. Comunque, siccome era sabato, ho aspettato un bel po’. Finito di leggere tutto il Vanity Fair che c’era da quelle parti, sono passata a riviste di seconda linea, ossia roba che non leggerei se non avessi del tempo da perdere. Non è spocchia, è che in genere trattano di gossip su gente che non conosco, e con un tono troppo serio per divertirmi davvero. Comunque, in uno di questi giornali c’era una rubrica sul sesso. Che è immancabile, diciamocelo. Ormai è tutto un fiorire di gente che ti insegna come fare l’amore. Va da sé, ovviamente, che mi ci sono fiondata sopra. Voglio dire, niente di meglio che leggere i fatti altrui, tanto meglio se pruriginosi. E non guardatemi così, che lo fate anche voi :P .
Inizio a leggere. E dopo un primo istante di incredulità, lentamente mi è salita prima la risata ironica, poi un vago stupore, infine un senso di franca ammirazione. Perché la rubrica, quattro pagine buone per altrettante lettere dei lettori, non conteneva una volta che fosse una non dico le parole pene o vagina, ma neppure rapporto sessuale o orgasmo. Voglio dire, stiamo parlando di quello, no? Ecco, era tutto un trionfo del giro di parola e della metafora.
“Ho problemi nell’intimità con mia moglie, non provo più la gioia”.
Ho dovuto rileggere due o tre volte per capire. La risposta era dello stesso tenore: “ha provato a xxx l’intimità con yyy e non concentrarsi troppo sulla gioia?”. Poi c’era quello che la gioia la provava troppo presto, e la risposta erano dieci righe di perifrasi per consigliare di pensare ad altro per “prolungare la gioia dell’intimità”. Sembrava di leggere la sessuologa della Marchesini (allego link video perché voi siete giovani – ahimè – e magari ve la siete persa). Roba che mi sono detta ma che la tieni a fare una rubrica sulla sessualità se è evidente che nella vita appena uno nomina la vagina ti tappi le orecchie e inizi a fare “lalalalalalalalalala” per pensare ad altro. Poi ho avuto un flash. Mi sono immaginato questo giovine redattore, magari laureato, magari aspirante giornalista. Lui già si vedeva proiettato sul teatro di guerra, oppure tutto preso a scrivere reportage di impegno civile. Solo che “la vita non è proprio come te la immaginavi” (Otto Ohm cit.), e quindi ha trovato un co.co.co. presso la rivista Lilith 10000, il progetto del co.co.co. essendo “sostituire parole sessualmente esplicite con altre innocue nei pezzi del sessuologo”. Per cui a questo qui arriveranno mail zozzone che più zozzone non si può, corredate dalle risposte franche del sessuologo, in cui di certo non abbonderanno le metafore ortofrutticole. E il suo compito è leggersele e trasformale in Lilith10000ese: orgasmo=gioia, rapporto sessuale=intimità e via così. E di fronte a questo povero cristo, che per forza di cose adesso conoscerà più sinonimi della parola pene di quanti ne elencò il Benigni del bel tempo che fu in un pezzo storico (che non vi linko, sennò mi denunciano :P ), io mi tolgo il cappello. Voglio dire, un grande.
E pensare che la gioia dell’intimità per me era tipo stare a pisolare davanti al caminetto d’inverno…

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Palestra

Oggi c’è una nuova, immancabile tappa del ritorno alla vita di sempre: la palestra.
Il mio rapporto con l’attività fisica è sempre stato altalenante. Da bambina i miei mi facevano fare sport, ma per lo più si trattava di brevi episodi che si concludevano al massimo in uno, due anni. Ho fatto pallavolo, aerobica, ritmica (e per due anni, lo so che è difficile a credersi, stante il mio fisico non esattamente longilineo e la mia grazia elefantina), nuoto. Ecco, il nuoto è stato una cosa particolare. Cominciai praticamente costretta, perché sono sempre stata piuttosto stortignaccola, e la piscina, si sa, fa bene alla schiena. Ma non mi piaceva. Avevo paura a mettere la testa sotto. Per cui abbandonai poco dopo aver imparato seriamente il dorso. Poi ripresi verso i tredici anni, e letteralmente mi innamorai. Da allora è il mio sport preferito, sia da vedere in tv che da praticare. Comunque. Per tanti anni smisi di fare esercizio fisico. Al massimo facevo cyclette da sola, in casa, con l’unico risultato di procurarmi un paio di polpacci che neppure Maradona. E iniziai ad ingrassare.
Quando andai dalla dietologa, nel 2006, la prima cosa che mi disse fu di fare moto, e per questo iniziai ad andare regolarmente in palestra. Ero convinta che l’avrei odiata, ero convinta che non sarei durata un mese. E invece. E invece iniziò a piacermi. Andare lì, sudare, scaricare la fatica di una giornata facendo qualcosa di fisico era un piacere. Mi aiutava a star meglio. Confesso, in verità, che c’era anche un altro elemento: andare in palestra mi aiutava ad avere la sensazione di tener meglio sotto controllo il mio peso. Andavo in palestra, dunque stavo facendo qualcosa per non ingrassare, e finché ci fossi andata, non avrei potuto prendere troppo peso.
Oggi, invece, mi rendo conto che le cose sono cambiate. Oggi sono contenta di tornare perché ho voglia di saltellare. Sono stata un mese senza palestra, e sono riuscita a non farmi troppi problemi sull’aumento di peso. Per cui adesso non percepisco la mia voglia di palestra come un desiderio di “espiazione” per quel che ho mangiato: no, ho voglia di muovermi, di sudare, perché no anche di rivedere le persone con le quali condivido due ore alla settimana nella mia bellissima palestra, piena di luce e accogliente. La vivo come una piccola vittoria personale. Mi piace quando riesco ad impormi sulle mie mille piccole fissazioni. Per cui non vedo l’ora di tornare lì, di ricominciare come sempre. È strano, ma anche il ritorno alla routine può essere piacevole.

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