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Guardarsi intorno

Oggi, come sapete, è la Giornata della Memoria. L’ho sempre considerato un momento fondamentale per riflettere su ciò che è stato e non dimenticare, soprattutto in questo momento delicato in cui i sopravvissuti sono sempre di meno, presto non ce ne saranno più e toccherà a noi ricordare senza le loro voci che ci parlano di una testimonianza diretta.
A volte però mi chiedo se il nome stesso di questa giornata non sia fuorviante: perché purtroppo, dopo quasi settant’anni, non dobbiamo solo ricordare, ci basta guardarci intorno per vedere che le ideologie che hanno portato alla Shoah sono ancora vivissime, spesso diffuse largamente tra la popolazione.
Siccome ho sempre creduto che il ricordo sia sterile, se non produce effetti sul presente, se non invita a lavorare attivamente per evitare che certe cose si ripetano, vi posto qualche spunto di riflessione.
Nel 2013 c’è ancora chi vuol dare fuoco ai negozi degli ebrei e violentare ragazze per la loro religione. E questa gente tra un mese potrebbe sedere in parlamento.
Nel 2013 c’è gente che copre l’antisemitismo con una sottilissima patina di falsa ideologia.
Nel 2013 il razzismo è ancora vivo e vegeto e gode dell’approvazione silente di una fetta della popolazione che si dice “io non sono razzista, però gli extracomunitari…però gli zingari…però gli omosessuali…”.
Ho appena letto una bellissima citazione di Yehuda Bauer, storico e studioso dell’olocausto ceco: “Non vorresti essere vittima né carnefice, ma soprattutto non vorresti essere un osservatore”. E noi, vogliamo restare a guardare?

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L’ovvio che ovvio non è

Fa specie dover ripetere per l’ennesima volta l’ovvio. Che poi forse appare ovvio solo a me. O forse, non so, è necessario continuare a dire quel che ho già detto così tante volte…perché, cavoli, la situazione sta peggiorando, invece di migliorare, e sembra che le parole spese cadano nel vuoto.
Non ci possiamo permettere il lusso di considerare Casseri un folle isolato. Non voglio negare che alla base di un gesto come il suo debba esserci una componente patologica, ma ce n’è anche una sociologica, ed è su quella che dobbiamo interrogarci. Perché Casseri poteva esprimere il suo disagio prendendo ad accettate il vicino di casa, e per noi in quanto società avrebbe significato una cosa, o sparandosi e basta. Invece ha ammazzato delle persone del Senegal. Non sua mamma, non il suo vicino di casa. Due persone che ai suoi occhi erano altre e nemiche.
L’ho già detto nel caso di Breivik, e la cosa tremenda è quel che dissi allora si può ripetere parola per parola anche nel caso di Casseri. Non possiamo dire che il clima d’odio che è stato coltivato in questi anni non c’entri. Non possiamo dire che far sedere in parlamento gente che il giorno prima dava fuoco alle baracche dei rom non abbia alcun collegamento con questi ripetuti fatti di cronaca. La soglia del tollerabile nel dibattito pubblico s’è spostata sempre più in là, e cose che dieci anni fa erano indicibili, se non volevi che la gente ti tirasse giustamente i pomodori, adesso sono oggetto di campagna politica dei partiti.
Si pone l’accento sul fatto che Casseri fosse uno scrittore appassionato di fantastico. E si dice che tanta destra s’è indebitamente appropriata del fantastico per nutrire la propria simbologia. Che è vero. Ma qui secondo me il problema è l’appropriazione indebita, appunto: il fantastico non ha in sé alcunché di “ontologicamente” di destra. L’ambientazione in un passato mitico, l’importanza dell’azione del singolo, l’esaltazione di certo eroismo non sono altro che contenitori, che ogni autore riempie dei contenuti che gli appartengono. Anch’io un bel giorno mi sono chiesta, dopo un’intervista, se parlare di eroi che salvano il mondo non sia fascista. E la risposta che mi sono data è no. O quanto meno non sempre. Dipende dai tuoi eroi, dallo sguardo che hanno sul mondo. Una lettura fascista del fantastico è una lettura superficiale ed estremamente parziale, fatta da un’occhio che sa già dove guardare e cosa cercare. E al fianco di questi elementi che possono sembrare “di destra”, ce ne sono altri che fanno molto più “sinistra”: l’ambientalismo, la convivenza tra diverse razze, la diversità. La continua tirata anti-razzista (i Mezzosangue, l’ossessione per la purezza del sangue di mago di Voldemort) della Rowling vi sembrano di destra? Ma anche il povero Tolkien, tirato in mezzo sempre la giacchetta in queste storie, decide di prendere a modello di eroe non un arianissimo stangone che mena come un’ossesso, ma un panzuto mezz’uomo, che praticamente non impugna mai la spada in 1200 pagine di libro, accompagnato dal fido…giardiniere. E persino i cattivi hanno qualcosa di buono (vedi alla voce Gollum).
Poi, mi rendo conto che fa molto più figo dire che Casseri ha fatto quel che ha fatto perché il fantastico aliena la gente dalla realtà, e via di banalità in banalità (tra l’altro qualcuno lo definisce depresso, un altro immancabile topos della narrativa giornalistica contemporanea: i depressi non sono quelli che vivono un inferno quotidiano in cui le uniche vittime sono loro stessi, è gente che va in giro ad ammazzare altri). Dirci invece onestamente che è roba come questo manifesto che dà una giustificazione a molte mani armate, e che nessuno di noi è assolto è molto meno divertente e fa più male.
Eccomi qua, vittima del mio stesso personaggio. Oggi avrei voluto dirvi finalmente in modo più diffuso la mia opinione su Games of Thrones, dopo l’accenno che qualcuno di voi ha sentito ieri a Buongiorno Cielo. Invece sono ancora qua, a parlare di gente che ammazza altra gente perché diversa. E il cerchio si sta stringendo, non vale pensare “non sono negro, non sono musulmano, non sono omosessuale”. I diversi, i nemici, siamo ormai tutti, e presto verranno coi forconi anche sotto casa nostra.

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Loro

Dopo quello che che e successo a Torino, sono davvero stufa. Stufa dei “noi” che servono a tracciare cerchi da cui c’è sempre qualcuno che viene escluso. Stufa del doversi definire sempre per contrapposizione, come non fossimo in grado di dire chi siamo senza negare e mortificare l’altro. Stufa di parole che hanno perso ogni senso, usate come sono a mo’ di clave per bastonare, neppure troppo metaforicamente, chi non è come noi: valori, radici cristiane, occidente.
Da tutte queste definizioni, i rom sono sempre tenuti fuori. I rom sono l’eccezione della storia. Le voci che si levano in loro difesa sono flebili, e l’odio nei loro confronti è qualcosa che ha sempre goduto di un consenso sociale palese. Se qualche anno fa a parlar male dei neri e dei marocchini potevi rischiare di fare la figura del razzista, questo già non valeva più se tiravi fuori l’argomento “zingari”. E allora quello che è successo è ovvio, prevedibile, quasi scontato.
Quando andavo a scuola, vedevo dalla finestra uno dei loro campi. I miei vicini di casa, qualche anno fa, erano rom. Adesso, il campo di Salone sta a un paio di chilometri da casa mia. E no, non li odio, e no, non vorrei che sloggiassero. Questo perché in genere, quando si solleva l’argomento, il primo commento è “tu non ce li hai sotto casa, non sai che significa”. Quello che vorrei è che venisse data l’opportunità anche a loro di vivere una vita normale, quello che vorrei è che non esistessero posti come i campi, dove la gente è trattata come bestie, e alle fine come bestie si comporta. Tanto più che molti di loro sono assai più italiani di noi.
Ma poi sono stanca anche di questo, del doverci definire sempre per nazionalità, orientamento sessuale, religione, genere. Ancora, noi e loro. Ma loro chi? E noi chi? Noi che diamo fuoco ai campi e facciamo i raid punitivi? Noi che ci indignamo contro gli stupri solo quando sono “loro” che osano toccare le nostre donne – perché di questo si tratta, del branco che difende la sua proprietà, niente di diverso o più alto? Io non ho alcun interesse ad appartenere a questo noi. Gaber diceva “io non mi sento italiano”. Io non voglio essere italiana, non voglio essere cristiana, eterosessuale, donna, qualsiasi altra etichetta la gente ci appiccichi addosso solo per ridurci in silenzio. Io voglio essere tutto questo e molto altro, e quando muore qualcuno, quando qualcuno viene toccato nella sua dignità e nei suoi diritti, non voglio pensare “è uno dei nostri”, ma “è una persona, e per questo soffro con lei”.
Mi tornano in mente parole forse non proprio originali, ma che sento ogni giorno più vere

Death is the winner in any war
Nothing noble in dying for your religion
for your country
for ideology, for faith
for another man, yes

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Più libri per tutte

Qualche tempo fa mi indignai per un articolo di Feltri su Utoya, in cui sostanzialmente diceva che era colpa delle vittime “egotiche”. Mi fu fatto notare da un amico che prendermela con Feltri era un po’ come sparare sulla Croce Rossa, che certa gente certe cose le scrive proprio per suscitare reazioni indignate, o per aderire ai valori di base dei suoi lettori.
Io ho appreso così bene la lezione che quando ho letto un articolo di Libero in cui si afferma che per far fare più figli alle donne bisogna farle smettere di leggere mi ci sono fatta sopra grasse risate. È squallido? Ovvio che sì. È una tesi improponibile e indifendibile? Assolutamente. Ma, perdonatemi, non riesco veramente a prenderla sul serio. Innanzitutto perché nemmeno chi l’ha scritta ci crede, ed è palese dal tono vagamente ironico del pezzo. È uno che sta facendo il suo lavoro, e il suo lavoro – purtroppo, certo – è scrivere quella roba lì, perché ci sarà sempre quello che “un tempo qui era tutta campagna” che annuirà convinto su una simile accozzaglia di banalità, castronerie e misoginia. Poi, perché a roba del genere si può rispondere solo con una sana, bella e crasse risata.
Più passa il tempo, più penso che Jorge de Il Nome della Rosa – lo so che torno sempre lì, ma si avvicina quel periodo dell’anno in cui in genere lo rileggo – aveva ragione a temere il riso. È l’arma più potente. Destruttura, desacralizza, invalida. Insegna a dubitare di tutto, sconfigge la morte e la paura, e chi non teme è davvero invincibile. E allora io mi faccio una bella risata su questo bel pezzo umoristico, sul quale non vale neppure la pena soffermarsi più di tanto. Non lo si può prendere sul serio. Piuttosto, ci metto una nota a margine.
Io non vedo il problema della bassa natalità italiana. Non vedo proprio l’orrore nella mescolanza di usi e costumi, di “razze” e etnie. Noi non facciamo figli? Per me va benissimo che siano gli “stranieri” a rimpinguare le schiere dei bambini e dei giovani. Anche perché la “razza italiana” non esiste. L’Italia è sempre stata un porto di mare, aperto a tutto e a tutti, e infatti ci sono italiani biondi e nordici come mio padre, e italiani scuri di pelle e capelli, vagamente arabeggianti come mio marito. È un problema? Francamente no. Inutile star lì a menarsela, siamo quel che siamo perché siamo sempre stati crogiolo di culture. La nostra cucina è nata dall’incrocio di mille altre, la nostra arte ha subito l’influenza di tutti quelli che ci hanno dominati, o sono stati da noi dominati. E così sarà anche in futuro. Cambieremo, perché è giusto che sia così, miglioreremo, magari, che non sarebbe male. Io non ho il culto per la nazione, le abolirei le nazioni, se potessi, e sono ben lieta di cucinare il cous cous accanto alle melanzane alla parmigiana. Conosco le mie radici e le rispetto, ma non mi sento minacciata dalle radici altrui.
D’altronde, se ci pensate bene, il punto più fastidioso di quell’articolo è all’inizio, in quella frasetta buttata lì, “io sono xenofobo”, detto come io direi “mi piacciono le castagne” (Giuliano cit.). Ecco. Quello è peggio di tutto il resto. Quella frase è la radice di tutto il discorso che segue.
Per il resto, sul tema delle ragioni profonde della bassa natalità dei paesi occidentali vi invito piuttosto a leggere Mamme Cattivissime, della Badinter, che dà un punto di vista molto più serio e articolato.

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