Dopo quello che che e successo a Torino, sono davvero stufa. Stufa dei “noi” che servono a tracciare cerchi da cui c’è sempre qualcuno che viene escluso. Stufa del doversi definire sempre per contrapposizione, come non fossimo in grado di dire chi siamo senza negare e mortificare l’altro. Stufa di parole che hanno perso ogni senso, usate come sono a mo’ di clave per bastonare, neppure troppo metaforicamente, chi non è come noi: valori, radici cristiane, occidente.
Da tutte queste definizioni, i rom sono sempre tenuti fuori. I rom sono l’eccezione della storia. Le voci che si levano in loro difesa sono flebili, e l’odio nei loro confronti è qualcosa che ha sempre goduto di un consenso sociale palese. Se qualche anno fa a parlar male dei neri e dei marocchini potevi rischiare di fare la figura del razzista, questo già non valeva più se tiravi fuori l’argomento “zingari”. E allora quello che è successo è ovvio, prevedibile, quasi scontato.
Quando andavo a scuola, vedevo dalla finestra uno dei loro campi. I miei vicini di casa, qualche anno fa, erano rom. Adesso, il campo di Salone sta a un paio di chilometri da casa mia. E no, non li odio, e no, non vorrei che sloggiassero. Questo perché in genere, quando si solleva l’argomento, il primo commento è “tu non ce li hai sotto casa, non sai che significa”. Quello che vorrei è che venisse data l’opportunità anche a loro di vivere una vita normale, quello che vorrei è che non esistessero posti come i campi, dove la gente è trattata come bestie, e alle fine come bestie si comporta. Tanto più che molti di loro sono assai più italiani di noi.
Ma poi sono stanca anche di questo, del doverci definire sempre per nazionalità, orientamento sessuale, religione, genere. Ancora, noi e loro. Ma loro chi? E noi chi? Noi che diamo fuoco ai campi e facciamo i raid punitivi? Noi che ci indignamo contro gli stupri solo quando sono “loro” che osano toccare le nostre donne – perché di questo si tratta, del branco che difende la sua proprietà, niente di diverso o più alto? Io non ho alcun interesse ad appartenere a questo noi. Gaber diceva “io non mi sento italiano”. Io non voglio essere italiana, non voglio essere cristiana, eterosessuale, donna, qualsiasi altra etichetta la gente ci appiccichi addosso solo per ridurci in silenzio. Io voglio essere tutto questo e molto altro, e quando muore qualcuno, quando qualcuno viene toccato nella sua dignità e nei suoi diritti, non voglio pensare “è uno dei nostri”, ma “è una persona, e per questo soffro con lei”.
Mi tornano in mente parole forse non proprio originali, ma che sento ogni giorno più vere
Death is the winner in any war
Nothing noble in dying for your religion
for your country
for ideology, for faith
for another man, yes