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La Zerificazione di Licia :P

Allora, stamattina è successa una cosa per me molto bella, come tutte le cose inaspettata. Questa che potete leggere qua. Leggetevela tutta, perché il fumetto è splendido, come tantissime cose di Zerocalcare, e merita, perché fa riflettere e fa divertire, come solo certa arte sa fare.
Ecco, io ci penso da stamattina. Non riesco a pensare ad altro. Io, quella cosa che dice Zero sul sentirsi soli, la capisco. Per cose infinitamente meno gravi di quella capitata a lui, mi ci sono sentita anch’io. Io scrivo fantasy, per molti rappresento lo zero assoluto della non-letteratura, e a volte mi sento un corpo estraneo in mezzo agli altri scrittori. Intendiamoci, ho amici scrittori con cui mi trovo molto bene, ma nel complesso non mi sento parte della comunità culturale di questo paese. Forse è colpa mia, che mi sento a volte purtroppo meglio, e tantissime volte peggio di tutti gli altri che scrivono, ma anche del fatto che in tante polemiche – stupide ripeto, e che riguardano soprattutto l’inizio della mia carriera – mi sono sentita molto sola.
Per questo sono onorata di essere stata citata, e in questo modo, in questo splendido fumetto. Sono onorata – e mi sento pure un po’ poco all’altezza del compito… – di essere stata di aiuto per Zero, e di averlo fatto sentire meno solo, anche se con un commento che tutto sommato a me non è costato niente, un tweet che scrivi in due minuti, ma in cui credevo e credo ancora.
Ecco, quando succede questo è bello. E ovviamente è una gran figata far parte del pantheon popolato dall’Armadillo, dal Supplì, da Secco e dal Cinghiale :P . Per la gente come me, queste sono le vere soddisfazioni, perché io vivo e mi nutro di cultura pop. Adesso sono un po’ come Mollica che ha la sua versione tra i Paperi di Topolino :P .
E niente, grazie Zerocalcare; per una cosa del genere non credo esistano ringraziamenti sufficienti, ed è per questo che è da stamane che sto declinando il “grazie” in tutti i modi possibili e immaginabili. Sei sempre un grande.

P.S.
Spazio pubblicitario :P
Vi ricordo che oggi, 30 giugno, dalle ore 19.30, potremo vederci presso la Libreria Assaggi di Roma, Via degli Etruschi 4. È l’Asteroid Day, e parleremo un po’ di asteroidi: cosa cosa, come si monitorano, come possiamo fare ad evitare che ci cadano in testa :P . Per chi non potesse seguire l’evento live, qui ci sarà lo streaming. Io, comunque, vi aspetto :)

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Zero Dodici

Il carcere di Rebibbia è la più grande fabbrica d’attesa d’Europa. Corpi dentro che aspettano di uscire. Corpi fuori che aspettano un cenno, un braccio dalle sbarre, un marito, una moglie, un figlio, uscire dal cancello. Attese di mesi. Anni. Vite.

Venerdì mi è arrivato Dodici, il nuovo libro di Zerocalcare. Non vi tedio con la mia fangirlaggine, di Zerocalcare sono gran fan, sono andata a rompergli le palle fino a Torino per una foto insieme e gli ho estorto un autografo (bellissimo) mandando avanti Rossella e nascondendomi abilmente dietro di lei (che poi non so com’è possibile, visto che lei è la metà di me, ma ci sono riuscita). Ah, e ho i quattro libri che ha fatto uscire fin qui.
Ma veniamo a Dodici, il libro in questione. Breve riassunto della trama, ma breve davvero, perché non voglio essere dominata dal demone dello spoiler (cit.): a Roma c’è l’Apocalisse zombie (che tra l’altro sembra essere partita dalle mie parti…dovrò stare attenta ai segnali premonitori, d’ora in avanti…), Zero, Secco e Cinghiale – gli amici storici – più la new entry Katja, sono bloccati a Rebibbia e devono cercare di sopravvivere. E mi fermo, sennò vi tolgo il gusto della scoperta.
Dunque, che dire? Me lo sono bevuto, e questo è un primo fatto. Dodici è approdato a casa mia alle 16.00 circa e alle 17.30 già mi bullavo in rete che l’avevo letto tutto. Perché scorre, perché è pieno di tutto quanto il pubblico ha imparato ad apprezzare di Zerocalcare: i riferimenti alla cultura pop che ha formato noi trentenni nerdici, i personaggi di tale cultura usati come personificazioni, il Secco, Cinghiale, le battute…tutto. Solo che poi arrivi alla fine e ti rendi conto che hai bosogno di rileggere. Perché sotto la patina cazzara Dodici non è un fumetto per niente facile. Innanzitutto già la struttura stessa della narrazione richiede un certo impegno al lettore: ci sono tre piani temporali differenti che s’intrecciano, e se è vero che il diverso codice di colore associato ad ognuno aiuta ad orientarsi, è pur vero che le fila vengono tirate solo proprio alla fine, e dunque ci vuole un po’ di concentrazione e attenzione per capire il senso reale della storia. Contemporaneamente, anche la storia è stratificata, multilivello.
Al primo piano, c’è tutto il mondo di Zerocalcare, quello del blog, per intenderci, e chi vuole si può semplicemente godere le battute e morta lì. Al secondo livello, c’è un atto d’amore per un intero quartiere. Perché, alla fine, più ancora di Secco come John Locke, di Katja e gli altri, protagonista è Rebibbia e il rapporto che Zero ha col quartiere. Per i non romani, vi faccio un breve riassunto della situazione: Roma è una città dal territorio vastissimo, una scelta fatta da Mussolini durante il fascismo. La divisione in quartieri è piuttosto netta, e passare da quartiere all’altro significa cambiare mondo: c’è un abisso tra Monti e Tor Bella Monaca, tra Prati e Tor Pignattara. Cambiano architettura e urbanistica, tanto che se è difficile credere che EUR e, che so, Roma Est facciano parte della stessa città, ma cambiano anche i codici di comportamento, spesso anche le ideologie e la politica. Rebibbia è una quartiere periferico (non ultra-periferico, però; lì si scantona nella borgata, posto dove sono nata e cresciuta io) noto al resto della città per due cose: per quelli come me, che vivono oltre il Grande Raccordo Anulare, lontani da qualsiasi mezzo di trasporto pubblico, per la fermata della metro, porta per accedere al regno proibito della città vera, per quelli che nel GRA ci vivono per il carcere. Ed è proprio il carcere a dare, secondo Zerocalcare, un carattere unico, distintivo, al quartiere. Così le avventure dei nostri diventano un modo per parlare del rapporto di ciascuno con Rebibbia, di cosa sia per Zero questo luogo che tanta parte ha giocato nella sua formazione. Devo dire che invidio la sua capacità di provare un così profondo senso di appartenenza per il luogo in cui è nato e vissuto. Io Torre Angela l’ho sempre vista come un corpo estraneo, una cosa dalla quale fuggire perché cercava di fagocitarmi, un posto che mi teneva in ostaggio, e cui non appartenevo. E, anche oggi, non sento di appartenere al quartiere in cui vivo; anche qui mi seno estranea, diversa, altra. Le mie radici le sento lontane, in Campania, probabilmente, un posto che, per contro, a ragione non può considerarmi sua figlia. E invece Zero appariene a Rebibbia, e riesce a descrivercelo con estrema franchezza, e al tempo stesso con grande profondità, parlandoci di periferia come raramente è stato fatto. Del resto, posti come Rebibbia tornano agli onori della cronaca solo quando si trasformano, come detto anche in Dodici, in luoghi fighetti. Allora compaiono nell’orizzonte del turista medio, e escono da quello di chi ci abita. Forse quella di Roma è una lunga storia di espropriazione della città. Ma questo è un delirio che devo ancora mettere a fuoco per bene :P .
Infine, c’è un discorso più filosofico, sul senso della vita, se vogliamo, ed è quello che viaggia più sottotraccia, che richiede maggior attenzione per essere colto. Paradossalmente, è proprio lui però a chiudere la trama. Se non lo cogli, e alla prima lettura ti può benissimo sfuggire, non capirai perché la trama comincia in un certo modo e finisce in un altro. Ti sembrerà una storia aperta, senza finale. Comunque, questa non è una novità: tutti i fumetti di Zero hanno sempre parlato di temi importanti. Ricordo che ne La Profezia dell’Armadillo mi commossi, c’è una tavola di una potenza straordinaria che ha parlato al mio cuore, e che parla al cuore di noi tutti che ci siamo salvati, e non capiamo perché qualcun altro, invece, non ce l’ha fatta ed è annegato. Comunque. Sulla parte filosofica non mi dilungo, perché ognuno ci vedrà quel che vuole. I romanzi sono macchine per la produzione di interpretazioni, diceva Eco, e questo vale anche per la letteratura a fumetti. Io l’ho trovata dolentemente pessimista, e tutto sommato è giusto così. E la cosa colpisce, perché uno non se lo aspetterebbe dal tono generale del fumetto. Per questo, forse, fa riflettere anche di più.
Anyway, l’avrete capito, il giudizio finale è molto buono. Ok, forse il fatto che non sia proprio accessibile a primo impatto, come vi dicevo, lo penalizza, ma io mi sono divertita, ho riflettuto e l’ho letto due volte. Ed era esattamente quello di cui avevo bisogno. Per cui, andate in libreria e prendetevelo. Non ve ne pentirete.

Extra
Quando ho chiuso il fumetto, mi è venuta immediatamente in mente una foto che ho condiviso su Twitter qualche giorno fa. Non vi avevo detto dove l’avevo scattata. Beh, è la fermata della metro Rebibbia, che, per motivi di localizzazione geografica di casa mia, bazzico parecchio. Ecco, questa cosa qua che vi incollo qua sotto purtroppo nel mio quartiere non potrebbe mai succedere. Ma succede a Rebibbia. E allora forse è vero che Rebibbia Regna :P .

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Istantanee da Torino 2013

Dieci anni
Atterro al mio decimo Salone del Libro di Torino quasi in orario. E c’è anche il sole.
C’era il sole anche dieci anni fa. Pesavo diciotto chili più di adesso, non sapevo neppure esistessero le presentazioni dei libri, giacché, pur essendo una forte lettrice, non ne avevo mai vista una vita mia, e avevo passato tutto il tempo del viaggio a domandarmi se dovessi presentare un discorso o cosa.
Adesso come allora, non ho molto tempo per riflettere: arrivo, e mi getto nel turbine. Torino è così: una sospensione del normale flusso degli eventi, una bolla atemporale infilata nel quotidiano, un gorgo che ti attira e ti risputa fuori dopo due, tre, quattro giorni di fuoco. Un paio di incontri di lavoro, qualche intervista, e via al Lingotto.
Dieci anni fa, eravamo io, Sandrone e Marco Giusti. Essendo io una sconosciuta ventitreenne in sovrappeso, per di più autrice di fantasy, genere vituperatissimo, ci misero giustamente in un angolo della zona dedicata alla letteratura per ragazzi, praticamente davanti ad una specie di bancarella frequentata da frotte di bambini urlanti. Davanti a noi, una ventina di sedie, piene per metà. Farsi sentire era un’impresa, anche coi microfoni. In prima fila c’era seduto un mio detrattore, ed essendo io giovane e parecchio inesperta, il suo articolo mi aveva ammosciata tantissimo. Diciamo che con gli anni ho appreso a prendere un po’ più alla leggera le critiche negative, ma all’epoca non ero così zen.
Nonostante tutto, andò bene. Negli anni precedenti mi ero allenata a parlare in pubblico durante le assemblee d’istituto a scuola: una volta me ne avevano dette di ogni perché avevo espresso la mia contrarietà a continuare un’occupazione di cui stentavo a capire il senso. Figurarsi se adesso avevo paura di dieci persone e duecento bambini urlanti dietro. E andò bene. Fiammetta Giorgi mi disse che toccava ne facessi altre, perché era una cosa che mi riusciva, e per i due, tre anni successivi stetti sempre in giro, un fine settimana sì e uno no.
Oggi entro nell’area Bookstock e mi defilo. Nonostante non abbia una faccia conosciutissima, e non abbia foto sui miei libri, chi mi legge sa che faccia ho, e se comincio a firmare copie ora poi succede un casino, non riesco a far la presentazione, per cui meglio stare in disparte. Perché i dieci astanti di dieci anni fa adesso sono diventati trecento e passa. Un miracolo che è una delle prima domande che mi fanno nelle interviste, e cui io non so mai dare risposta. Semplicemente, non lo so. È andata così. Mi stupisco anch’io, guardate.
La presentazione all’Arena Bookstock è un grande classico: io, Sandrone e Fiammetta. Sono pochi gli anni in cui la formazione è stata diversa.
Entro, e c’è gente, certo, l’arena è piena, ma non più del solito. Non più dello scorso anno, per dire. Ci sono anche i volti amici, che per fortuna non mancano mai, ma ne manca uno che non riuscirò a recuperare neppure nei giorni successivi.
Comincio a parlare, cominciano le domande, tutto va come al solito. E intanto la gente aumenta. Si appoggia alle pareti dietro, si siede sulla moquette, avanza inesorabilmente verso il palco, fino a riempire tutto lo spazio dell’arena. È una cosa che esalta e spaventa al tempo stesso. Le mie presentazioni sono sempre andate bene, ma mai così bene. Non ne sono sicura, ma forse ho fatto anche più gente che a Lucca. E non ve lo sto dicendo per vanteria – o forse un po’ sì, la carne è debole :P – ma soprattutto per ringraziarvi. Dicevo proprio prima di partire che la scrittura è un mestiere solitario. Senza un po’ di solitudine, la cosa semplicemente non funziona. Ma, ad un certo punto, devi uscire dal guscio, e devi vedere l’effetto delle tue parole, o ti sembra di parlare al muro. Devi capire se è valsa la pena farsi ossessionare, e mettere le ossessioni su carta, se è valsa la pena correggere le bozze all’una di notte dopo tre ore di lettura continuativa, devi capire se la passione che ci hai messo è passata. E una sala colma è questo: l’unico premio vero cui uno scrittore può ambire. Più importante del riconoscimento della critica, del premio letterario, di qualsiasi altra cosa, perché non stai scrivendo per quella gente lì, stai scrivendo per i lettori. Almeno, noi di genere scriviamo per questo.
Per cui grazie. È stato faticoso e bellissimo. Fatiche così le farei a giorni alterni, e salterei un giorno giusto per riposarmi un pochino e godermela meglio il giorno successivo. Grazie per l’affetto e la passione, mi confermate che la via che ho scelto di percorrere magari è faticosa, ma porta frutti.
Il filo rosso di questi dieci anni passa per diciassette libri e centinaia di luoghi diversi, che ho visitato fisicamente o solo toccato coi miei libri, è un filo tortuoso e difficile da dipanare anche ai miei occhi, ma l’abbiamo tessuto insieme. Grazie per la fiducia. Grazie per le domande e le osservazioni. Grazie per la condivisione.
Mo’, però, mi aspetto almeno altri dieci anni così, eh? :P

la solita combriccola, insomma

La sala, comunque, ancora non era del tutto piena

Cosplay
Ho ricevuto parecchi commenti sul mio aspetto. Tipicamente positivi. Non sono mai stata una gran bellezza, come evidente dalle mie foto, d’altronde; anzi, diciamola tutta, ho passato la preadolescenza e l’adolescenza a considerarmi brutta, impressione avvalorata dai commenti che mi facevano alle medie, quando mi prendevano in giro per l’apparecchio ai denti. Il complimento è a tutt’oggi una cosa che mi imbarazza: non so che rispondere, una parte di me si domanda comunque “ma sta veramente parlando di me? O forse mi sta direttamente prendendo in giro?”.
Comunque, non era di questo che volevo parlare. Le mie mise al Salone, quest’anno, hanno previsto un uso massiccio del mio haori (ve lo ricordate? È la giacca giapponese vintage che ho comprato un po’ di mesi fa). La gente mi guardava e mi fotografava; devo dire che anche le scarpe vagamente ladygaghiane hanno riscontrato un certo successo, e una certa dose di curiosità, anche. Ma il top credo sia stato raggiunto alla festa cui ho partecipato (ne parlo più sotto); indossavo il solito tubino nero (quello di queste foto qua), con aggiunta di bolerino in pizzo e mezzi guanti sempre di pizzo nero. Completava la mise il rossetto rosso fuoco e questa collana qua. Non ho una foto del tutto, mi spiace, usate un po’ di fantasia. E devo dire che anche questa mise ha generato curiosità e vago sconcerto. E, nulla, ho realizzato che ormai l’estro del mio abbigliamento sta prendendo derive sempre più incontrollate. Sono sempre stata strana nel modo di vestire, ma forse, non so, credevo che sarebbe stata una cosa che sarebbe finita con l’adolescenza. E invece no. Continuo ad abbigliarmi come fossi in cosplay perenne. E non è una cosa forzata: no, è che io sono proprio così. Ho bisogno di mettermi roba che mi piace, che mi rispecchi, anche se è strana, buffa o fuori luogo. 9 volte su 10 sono vestita in modo incongruo rispetto all’evento: troppo sportiva quando occorrerebbe essere eleganti, troppo elegante quando occorrerebbe essere sportivi. Ma ho bisogno di avere addosso qualcosa che mi rispecchi, anche se è eccessivo, e poi la gente mi guarda e mi sento in imbarazzo (tipo in questa occasione). Alla fine considero anche questa un’espressione della mia creatività. Ormai sono il cosplay di me stessa :P .

Un'ora dopo, così ero in fila per andare a salutare Roberto Saviano...

Fiesta!
Poco prima di partire per Torino, fui protagonista sul mio profilo Facebook di questa discussione. No, davvero, in dieci anni di fiere non ero mai andata ad una festa. Non so perché. La verità è che sono sempre stata una donna davvero poco mondana. Anche da ragazzina. La discoteca, per dire, non mi ha mai attratta. Le feste cui partecipavo erano à la Caparezza (ve la ricordate, no? “Serate a tema ben accette, salame a fette spesse, vhs e se non bastasse su le casse”) e comunque non ho mai fatto più tardi delle 5.00, orario che ho fatto tipo tre volte in vita mia.
Solo che, poi, a Torino ad una festa mi ci hanno invitata davvero. E siccome l’invito era di un amico, e sapevo che avrei rivisto una persona cui devo tantissimo e che avevo gran piacere a reincontrare, sono andata. In cosplay da scrittrice dark-erotico-decadente, come vi dicevo. La cosa bella era Giuliano, in cospaly da Giuliano, invece, ossia jeans, giacca sportiva e camicia. La coppia più assortita dell’universo direi. Peccato che Cédric Villani è arrivato poco prima che me ne andassi, perché con lui al braccio avrei fatto un figurone :P .
Comunque. Sono andata. I primi venti minuti, lo ammetto, ho fatto l’effetto tappezzeria, che, stante l’abbigliamento, mi veniva anche bene, devo dire. Me ne stavo là, sottobraccio a Giuliano, senza capire bene il mio posto. È che io, in mezzo agli scrittori seri, mi sento sempre un po’ in imbarazzo. Mi domando cosa pensino di me, non so se sanno chi sono, non so proprio come tentare l’approccio. Poi c’è il dramma “gente che conosco ma non so se loro si ricordano di me, e comunque l’ho visti tipo per cinque secondi otto anni fa: li saluto o no?”. La soluzione, comunque, è banale: bicchiere di vino. Che a me ormai basta abbondantemente per abbassarmi quel tanto che basta i freni inibitori, e darmi quella leggera allegria che tanto mi piace, e non mi fa sentire lo stomaco felpato il giorno appresso. Ho fatto un po’ di conoscenze nuove, alcune inaspettate, ne ho riviste di vecchie, ho mirato da lontano Umberto Eco perché comunque non avrò mai il coraggio di avvicinarmi e anche solo stringergli la mano perché sono fatta così e amen. Ho rivisto Andrea Cotti, col quale ho lavorato ormai troppi anni fa, e continuo a ricordare con piacere e affetto sconfinato il periodo in cui mi ha fatto editing. Ho rivisto Massimo Turchetta, e finalmente gli ho detto quel grazie che gli dovevo da dieci anni. Insomma mi sono divertita. E chi l’avrebbe mai detto. Posso essere mondana anch’io. Però, mo’ non esageriamo, son pur sempre la pantofolaia che tutti conoscete: alle 23.00, i piedi distrutti dal tacco 12 e la fatica della fiera sul groppone, ciao a tutti e son tornata in albergo. Alle 23.30 già russavo. Un passo alla volta, via.

Incontri
Zero
Che sono una fan di Zerocalcare credo sia cognito in tutto l’orbe terracqueo. Non c’è vignetta del suo blog che non linki con passione, sua battuta che non conosca, suo libro che non abbia. Ho anche una dedica assolutamente meravigliosa, procacciatami dalla sempre fantastica Ros, che ormai dovrei eleggere a mia manager per gli incontri coi vipppppssss, perché mi sprona e mi aiuta a vincere la mia devastante timidezza in queste cose.
Quel che mi mancava era l’incontro live. E adesso ce l’ho. Sono andata a fargli la posta assieme a Rossella venerdì sera. Perdonami, Zero, ero consapevole che eri morto di stanchezza, e tutto sommato lo ero anch’io, ma son stata ugualmente spietata :P e ti ho tampinato. Perdonami anche se non sono riuscita a dirti tutto quel che penso della tua arte, che è fantastica, e mi calza addosso come un vestito fatto su misura, ma davvero non sono capace di esprimere quel che penso a parole. Mi viene molto meglio scrivere. Per cui spero passerai prima o poi di qua e leggerai queste quattro righe. Per altro, ci siamo fatti assieme una foto splendida, in cui entrambi sembriamo usciti da un funerale, e a me piace un sacco: non so, abbiamo delle facce diverse dal solito.
Tra l’altro, ho preso Ogni Maledetto Lunedì (su due), e ve lo consiglio tantissimo. Sì, principalmente è una raccolta su carta del suo blog, ma ad unire il tutto c’è una macrostoria che dà un senso diverso e più ampio a vignette che già conosciamo. E quella macrostoria – che è pure a colori – è così bella, è così devastantemente vera, che ognuno di noi ci si riconoscerà. Per certi versi, a me è sembrata la storia della mia vita, soprattutto nella parte finale. Ma è la storia della vita di tutti noi di questa mia generazione, credo. Ci hanno imbrogliati, sì, ma ci consoli sapere che è l’imbroglio più vecchio del mondo, quello che anche noi, un giorno, saremo chiamati a perpetrare sui nostri figli. È la vita, che è sempre più grande di noi, e prima di contemplarla in tutta la sua smisurata e spaventosa grandezza è necessario prepararsi, è necessario credere che sia una cosa semplice. Grazie, Zero, di tutto.

commemoriamo il caro estinto

ZeroZeroZero
A inizio aprile sono andata alla prima presentazione di ZeroZeroZero di Saviano. Anche in questo caso, credo sia cognito in ogni dove che Saviano è uno dei miei scrittori preferiti, del quale apprezzo praticamente l’opera omnia (oltre a possederla tutta). Non l’avevo mai visto dal vivo, e quindi sono andata. In quell’occasione, rimediai anche la firma sul libro.
A Torino ho bissato. Stavolta volevo presentarmi. Che è una cosa semplice, da fare, basta dire un nome. Ma se mi conoscete un pochino, capirete che per me è un’impresa titanica, avvolta da mille dubbi, intessuta di insidie. No, non dite niente. Lo so che è una cosa stupida, ma è più forte di me.
Così, ancora in vestaglia giapponese (grazie a Davide Gigli per la calzante definizione :P ) – abbigliamento che avevo tenuto per le interviste del mattino e per le foto che mi avevano fatto qualche ora prima (a proposito di chiusure del cerchio: mi ha fotografato di nuovo colui che realizzò le mie prime foto ufficiali) – e per altro con le scarpe lady gaghiane, mi sono avvicinata allo stand Feltrinelli dove sapevo avrebbe fatto una firma copie. Stand che era una bolgia infernale. Per fortuna c’era una fila, e mi sono disciplinatamente messa in coda con gli altri.
In fila la situazione devo dire ha raggiunto esiti paradossali: a parte l’immagine di questa tizia in haori con gli zepponi in fila manco dovesse andare ad una festa in discoteca, è passato anche qualche mio lettore, per cui ho fatto qualche foto e qualche firma. Tra l’altro in fila c’era una mia lettrice, e così ho passato l’ora e un quarto di attesa parlando un po’ con lei e con le persone che mi stava intorno. E lì ci siam dette una cosa ovvia, ma sempre bella quando ci pensi: che i libri uniscono. È bella questa condivisione di passione, questa staffetta che passa da scrittore a lettore e poi da lettore a lettore. Ho perso il conto delle cose meravigliose – e anche terribili, ma che mi hanno formata come persona, che mi hanno insegnato tanto – che sono riuscita a toccare coi miei libri: luoghi e persone che mai sarei riuscita a raggiungere altrimenti, realtà distanti, a volte solo nello spazio, ma altre anche nell’esperienza di vita. E Saviano, per altro, è una di queste cose.
Comunque, ve la faccio estremamente breve. È stato davvero bello riuscire a infine a presentarmi, ci siamo anche fatti una foto assieme che ho spammato un po’ in ogni dove. È che è una cosa che speravo di fare da molto. Certo, al solito non sono riuscita a dire un miliardesimo di quel che avrei voluto, ma ormai so di essere più forte nello scritto che nell’orale, e molte di quelle cose sono riuscita a scriverle, quanto meno, ed è già qualcosa. Certo, spero prima o poi di poter fare una bella chiacchierata, ma già l’abbraccio che ci siamo scambiati è stato importante per me. Ho un’ammirazione sconfintata per l’altrui talento, e quando va a braccetto con la forza e il coraggio è la cosa più bella in assoluto.

Quello che ho tralasciato
Tanto, tantissimo. I tre giorni di Torino durano come settimane, mesi di tempo normale. Succedono molte cose, tanti sono i volti, tantissimi i ringraziamenti. Tutti non ci entrano, neppure in un post chilometrico come questo. Facciamo che è come se avessi ringraziato tutti coloro che hanno resi questi giorni così particolari, anzi, questi anni così indimenticabili. Spero sarete con me ancora; questa è solo una tappa, il cammino continua.

P.S.
Scusate la sbadataggine; le prime due foto sono di Rossella Rasulo, così come quella assieme a Zerocalcare. La foto di me nell’acquario (:P) è di Giuliano, mentre quella con Roberto Saviano me l’ha scatta Serafina Ormas.

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La Profezia dell’Armadillo

Ho conosciuto Zerocalcare grazie ad uno stato FB di Rrobe (ormai gli devo un sacco di piacevoli scoperte). La prima storia che lessi fu quella della neve a Roma. Ci misi ben poco a recuperarmi tutte le precedenti, e a diventare un’assidua lettrice. Se date un occhio alle strisce, capite subito perché mi sono appassionata. Le storie di Zerocalcare sono zeppe di riferimenti ai capisaldi della mia generazione: i manga e gli anime, Star Wars, le Tartarughe Ninja…tutte quelle cose che hanno cresciuto noi pischelli degli anni ’90. È un nerd, uno immerso nell’”adolescenza lunga”, dalla quale, diciamocelo, non schiodo neppure io, a dispetto di un marito e una figlia. E poi è geniale. Voglio dire, veramente poche cose mi fanno ridere come le sue vignette. Il tratto è fantastico, lo sguardo ironico e disincantato, le storie particolari e al tempo stesso universali.
E insomma, alla fine ho fatto il grande passo e ho preso La Profezia dell’Armadillo, il suo libro. Probabilmente mi aspettavo solo un altro po’ di storie da leggere, con le quali consolarmi del fatto che Zerocalcare, da un po’, ha deciso di postare senza più regolarità, mentre prima usciva una storia ogni lunedì. E invece. E invece La Profezia dell’Armadillo è sicuramente un po’ di nuove vignette, ma è anche molto di più.
Intendiamoci, è zeppo di battute memorabili, passaggi esilaranti e trovate geniali. Dietro però c’è una storia unica, un racconto semplice e tremendo, di quelle esperienze di vita che sono capitate a tanti di noi nella vita. Ed è proprio nel dipanarsi di questa storia che viene fuori come Zerocalcare non sia solo uno che fa vignette divertentissime su cui noi nerd quasi – o già, come me – trentenni ci diamo di gomito. È uno che racconta storie vere, dice cose, e lo fa benissimo, dannazione, troppo bene.
È una cosa che penso da un po’ di tempo: ho problemi con la narrativa non di genere. È che il mainstream racconta storie di tutti i giorni, storie che, tutto sommato, sono comuni, non hanno nulla di straordinario, storie che, sulla carta, non c’è ragione di raccontare. Per questo, proprio per l’ordinarietà dei racconti – non di tutti, eh? ma di molti sì – lo scrittore deve essere bravo. Deve rendermi in qualche modo universale la piccola storia di vita vissuta che mi sta raccontando. Altrimenti non c’è ragione di tirare fuori l’ennesima storia di un trentenne confuso, di un cinquantenne alle prese con la crisi di mezz’età o l’immancabile epopea familiare.
Ecco, Zerocalcare prende una storia purtroppo comune, un lutto che, sotto varie forme, molti di noi hanno vissuto. E lo rende universale, l’emblema del nostro brancolare nel buio di un’esistenza che fatichiamo a decifrare. Gli anni che passano e cambiano le cose, la fragilità, il tempo sprecato a farsi domande inutili invece che a vivere, l’adolescenza, l’amore, la morte. E quella domanda che mi sono posta anch’io così tante volte, anche qui: cos’è la bestia che ognuno di noi si cresce in seno, quel demone strano che ci sussurra che non saremo mai davvero felici, e che quando lo siamo, sarà solo per poco, e che è meglio correre ai ripari, e farsi del male da soli prima che la vita colpisca. Per alcuni di noi alla fine diventa un compagno di strada, ci facciamo i conti, ed ha la faccia di un armadillo un po’ cinico. Ma perché per altri invece cresce, e cresce, fino a divorare tutto, fino a farci morire? Perché alcuni di noi ce la fanno, riescono a sopravvivere alla giovinezza, e altri invece restano indietro, e soccombono ai loro demoni? Abbiamo tutti gli stessi problemi, in fondo, le stesse paranoie, ma alcuni di noi, semplicemente, non ce la fanno. E non c’è un perché. Solo un immenso vuoto di senso.
C’è tutto questo, nella Profezia, o almeno io ce l’ho visto. Ci sono tavole di una tale bellezza, di una tale intensità…che colpiscono come pugni. Perché sono vere, intollerabilmente e terribilmente vere.
Raramente mi commuovo, quando leggo qualcosa. Non so perché, sono fatta così. Eppure, oggi pomeriggio, mentre commentavo la lettura con Giuliano, mi sono venuti gli occhi lucidi. E ho capito di aver letto qualcosa di davvero bello e prezioso.
Attualmente, la quarta edizione del libro è esaurita, ma sta per arrivare la quinta. Credo si riesca a trovare comunque qualcosa in alcune librerie, ma non so darvi indicazioni più precise. Vi consiglio solo di prendere il libro, quando uscirà. Ne vale terribilmente la pena. È una storia semplice e intensa, vi farà ridere da matti, ma vi lascerà anche con quel magone, quel magone bello e tremendo che solo le cose che scavano in profondità sanno lasciare.

P.S.
Vi ricordo en passant che oggi potrete seguire la prima delle puntate di Nautilus di cui sono ospite: argomento, letteratura. Potrete vedermi alle 11.30, e in replica alle 15.30, 19.30 e 23.30 su Rai Scuola, canale 146 del digitale terrestre o 806 di Sky.

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